IL MIGLIOR TRATTAMENTO DEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

 

(SESTA PARTE)

 

Proseguiamo nella pubblicazione della trascrizione dell’intervento del Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze all’incontro dei soci di “Brain, Mind & Life Italia”, dedicato ai recenti sviluppi della ricerca sul disturbo ossessivo-compulsivo. La precedenti cinque parti sono state pubblicate nelle scorse settimane (Note e Notizie 25-10-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – prima parte; Note e Notizie 01-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – seconda parte; Note e Notizie 08-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – terza parte; Note e Notizie 15-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – quarta parte; Note e Notizie 22-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – quinta parte). La settima parte sarà pubblicata la prossima settimana.

 

Schwartz rileva con orgoglio, nel libro che ho citato in precedenza[1], che il suo studio è il primo in assoluto ad aver dimostrato che un trattamento non farmacologico può modificare l’attività in un ben definito circuito cerebrale al quale si attribuiscono i sintomi di un disturbo psichiatrico. Ed aggiunge che la variazione terapeutica nel “worry circuit” caudato-corteccia orbitofrontale-talamo, si è avuta in coloro che avevano cambiato il modo di pensare circa i propri pensieri.

Fra i ricercatori, la maggior parte dei sostenitori di un’origine neurobiologica del disturbo, al tempo dei primi studi di neuroimaging funzionale, aveva un atteggiamento deterministico e rassegnato circa le possibilità terapeutiche, confidando per il futuro in terapie geniche o cellulari. Costoro trascuravano la quota di persone -inclusi i gemelli di pazienti con forme gravi di OCD- che, pur avendo un profilo genetico simile o identico, non sviluppavano i sintomi. Dunque, se i risultati del lavoro di Schwartz confermavano l’importanza di una predisposizione genetica espressa in caratteristiche dei sottosistemi cerebrali, di fatto smentivano l’ineluttabilità paventata dai sostenitori dell’eziologia endogena. Il pessimismo di costoro probabilmente era dovuto alla dimostrazione che la delezione di alcuni geni poteva indurre nei topi condotte di ripulitura (grooming) e lavaggio, che giungevano fino alla perdita del pelo e ricordavano nelle loro caratteristiche principali il frequente sintomo della compulsione a lavarsi (si vedano: Note e Notizie 13-10-07 Il Premio Nobel a Mario Roberto Capecchi; Note e Notizie 03-11-07 Sinapsi cortico-striate nel disturbo ossessivo-compulsivo). Questa apparente radice genetico-strutturale di una condotta, evidentemente induceva in chi aveva una visione schematica, statica e un po’ antiquata dell’espressione genica, a disperare nelle possibilità di una modificazione del fenotipo comportamentale (per l’endofenotipo OCD si veda: Note e Notizie 02-02-08 Fenotipo cerebrale ossessivo-compulsivo).

Ma, qual è la differenza fondamentale fra i roditori manipolati geneticamente e noi, se siamo colpiti dal disturbo ossessivo-compulsivo?

Se concepiamo lo sviluppo post-natale nell’ottica della teoria della selezione dei gruppi neuronici che, dopo la prima fase di selezione in corso di sviluppo prevede un secondo processo selettivo derivante dall’esperienza, possiamo attribuire all’encefalo capacità “autoplastiche” potenziali di notevole entità. Il grado più elevato di plasticità indotta dall’esperienza si è manifestato sperimentalmente nelle strutture filogeneticamente più recenti, che hanno la massima espressione nel neoencefalo umano. Se il cervello è, anche solo in parte, “un sistema selettivo che seleziona se stesso”, per dirla con Edelman, si spiega sia la differenza fra gemelli monovulari in questo ed altri disturbi, sia la possibilità di incidere sul substrato neurale predisposto geneticamente mediante l’apprendimento derivante dall’esperienza[2].

Schwartz, fin dal primo dei suoi studi mediante PET del cervello di pazienti affetti da OCD, aveva rilevato che le aree prefrontali, parte delle strutture filogeneticamente più recenti, neurofisiologicamente più sofisticate ed implicate nella mediazione dell’attività psichica di più alto livello, inclusa quella alla base della percezione unitaria di se stessi e del senso di identità, erano totalmente escluse dall’attivazione patologica. Questo reperto, a suo avviso, costituiva la base della sensazione di estraneità dei sintomi avvertita da tutti i suoi pazienti; l’attivazione impropria dei neuroni del worry circuit era aliena dal soggetto.

Ho richiamato questo aspetto, per soffermarmi sulla convinzione di fondo che aveva spinto e motivato lo psichiatra della UCLA nell’elaborazione di un metodo di terapia psicologica fondato sul controllo consapevole da parte del paziente: la mente può trascendere il cervello. Così proposta, l’affermazione può sembrare poco scientifica, ma la fiducia di Schwartz nella possibilità di ottenere risultati positivi con il suo metodo cognitivo in quattro fasi era radicata in questa certezza non-materialistica, come egli stesso afferma.

D’altra parte, non è necessario invocare un’istanza trascendente per spiegare l’azione del rimodellamento cosciente operato dai pazienti americani e dalle persone che ho prima citato, se attribuiamo alle funzioni di sintesi basate sulle connessioni globali, un livello superiore di controllo che si esercita sui circuiti locali. Come è noto a coloro che mi ascoltano, nella mia visione della fisiologia encefalica, il massimo grado di sintesi globale dei processi che consentono l’adattamento di tutto l’organismo all’ambiente è espresso dal quel complesso di facoltà cui si dà il nome di coscienza, e che personalmente concepisco in continuità con molte altre funzioni generali che, pur non essendo coscienti, agiscono in rappresentanza di tutto l’organismo nei rapporti con l’ambiente materiale e relazionale. Questo livello di sintesi superiore, che si manifesta attraverso l’esercizio della volontà e del libero arbitrio, non può interferire direttamente con l’elaborazione dei sottosistemi, ma può influenzarli indirettamente mediante il governo di sé che, in questo caso, sceglie di seguire piani e programmi ispirati ad una conoscenza inaccessibile all’introspezione.

Tuttavia, ad onor del vero, devo riferire che il team dell’Università di Los Angeles ritiene i risultati ottenuti con la terapia cognitiva una riprova dell’efficacia di un approccio non-materialista alla comprensione dei rapporti mente-cervello, e che il neuroscienziato canadese Mario Beauregard non ha avuto remore nel citare questa esperienza scientifica fra le prove dell’esistenza dell’anima[3].

 

[continua]

 

La registrazione è stata trascritta da Isabella Floriani

BM&L-Novembre 2008

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: RELAZIONE ORALE TRASCRITTA]

 

 



[1] Schwartz Jeffrey & Begley Sharon, The Mind and the Brain: Neuroplasticity and the Power of Mental Forces. HarperCollins, Regan Books, New York 2003.

[2] L’apprendimento originato dagli esercizi terapeutici, e al quale si fa riferimento, è ben lontano dall’acquisizione di nozioni astratte mediante esercizio della memoria dichiarativa (memoria semantica) e può essere paragonato a quello derivante da attività psicomotorie superapprese per frequenti ripetizioni, che in animali da esperimento quali l’Aoto, scimmia del Nuovo Mondo, ha determinato un rimodellamento molto evidente della corteccia cerebrale. Si veda in proposito “l’Arto Fantasma” nella sezione “In Corso”.

[3] Del lavoro di Mario Beauregard si parla diffusamente nell’articolo “La Ricerca dello Spirito nel Cervello” nella sezione “In Corso” di questo sito.