IL MIGLIOR TRATTAMENTO DEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

 

(QUINTA PARTE)

 

Proseguiamo nella pubblicazione della trascrizione dell’intervento del Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze all’incontro dei soci di “Brain, Mind & Life Italia”, dedicato ai recenti sviluppi della ricerca sul disturbo ossessivo-compulsivo. La precedenti quattro parti sono state pubblicate nelle scorse settimane (Note e Notizie 25-10-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – prima parte; Note e Notizie 01-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – seconda parte; Note e Notizie 08-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – terza parte; Note e Notizie 15-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – quarta parte). La sesta parte sarà pubblicata la prossima settimana.

 

Prima di riferire i risultati ottenuti dai ricercatori dell’Università della California a Los Angeles, vorrei soffermare l’attenzione su alcuni aspetti che ci aiutano a comprendere il valore del loro contributo alla concezione attuale del disturbo.

In quel periodo, coloro che consideravano espressione dello scompenso di una personalità ossessiva i quadri che il DSM (Manuale Diagnostico-Statistico dell’American Psychiatric Association) definiva OCD, avevano fiducia nelle potenzialità terapeutiche delle psicoterapie, soprattutto in base ad una eziopatogenesi “mentale” del disturbo. Al contrario, coloro che attribuivano a tali sindromi un’origine cerebrale, tendevano a considerare l’OCD alla stregua di un disturbo neurologico sul quale la coscienza del soggetto costruiva elaborazioni, giustificazioni ed interpretazioni con probabile valore di adattamento alla realtà, ma non significative sul piano clinico. Pertanto, per costoro l’unica possibilità terapeutica era di natura farmacologica. A queste due principali correnti culturali, bisogna aggiungere una frazione imprecisata di psichiatri che tendeva a considerare operativamente “psicotici” gli affetti da OCD che presentavano contenuti ideativi illogici, da loro assimilati a deliri.

Ad A. M., una ragazza alla quale era stata diagnosticata una nevrosi ossessiva, riferii di una delle pazienti trattate alla UCLA, Dottie, che se alla guida della sua auto vedeva un veicolo con una targa nella quale figuravano i numeri 5 e 6, si sentiva costretta ad accostarsi al margine della strada e a fermarsi, in attesa che passasse un’auto con una targa “fortunata”. Aggiunsi che riteneva necessario agire in tal modo, seguendo rigorosamente i passi della procedura, perché temeva che un suo comportamento difforme avrebbe causato la cecità di suo figlio.

A. M. commentò che anche lei aveva i sui numeri “jellati” e forieri di sventura, ed aveva anche segni che interpretava come presagi infausti; fra i primi vi erano il 17 e il 13 e fra i secondi vi era l’incontro di un collega “sfortunato” prima di un esame universitario o la presenza di professori che indossassero abiti o cravatte nere. Tenne però a precisare, che non avrebbe mai messo in atto una procedura come quella di Dottie e che le sembrava “da pazzi” temere per la vista di una persona cara.

A. M. talvolta, soprattutto quando si sentiva triste e sola, complicava la sua vita per evitare i suoi “segni di presagi infausti”, ma sembrava trascurare del tutto ogni aspetto legato a questo tipo di ideazione, quando era di buon umore per effetto di gratificazioni della vita affettiva o universitaria. A. M. non era affetta -a mio parere- da OCD.

L. I., udito il racconto del caso di Dottie, mi disse di comprenderla: “Cose del genere attraversano spesso la mia mente, ma faccio in modo che non si fermino, perché altrimenti diventano obbligatorie e persistenti.”. L. I. si sentiva costretto a mettere in quarantena indumenti che riteneva “contaminati” per il solo contatto con persone da lui arbitrariamente considerate “a rischio di trasmettere infezioni causate anche da virus sconosciuti”, ed aveva rituali di lavaggio che dovevano rispettare precise regole, soddisfatte le quali l’urgenza compulsiva aveva il suo segnale di stop. Teneva sempre a specificare che la spinta verso i comportamenti ripetitivi e rituali non era da lui avvertita come ansia, ossia come dolore della psiche, ma come un obbligo morale. Razionalizzava tutto ciò sostenendo che, se lui si fosse ammalato, le persone a lui care ne avrebbero risentito negativamente in un modo o nell’altro, senza contare i rischi di contagio per tutti coloro che lo frequentavano. Dava, così, alle sue precauzioni un “valore sociale”. L. I., sempre in ritardo di ore per qualsiasi impegno ed appuntamento, era giunto a compromettere la regolarità di ogni attività della sua vita quotidiana.

I pazienti studiati da Schwartz erano del tipo di Dottie e di L. I., non del tipo di A. M.

Ho voluto precisarlo, perché mi è capitato di vedere, in Italia, incluse in campioni sperimentali per lo studio dell’OCD, persone dal profilo simile a quello di A. M., la cui remissione dei sintomi non sarebbe stata, a mio avviso, significativa.

Presi insieme, i due studi principali condotti da Schwartz e colleghi, avevano riguardato 18 pazienti (9 per ciascuna sessione sperimentale), sottoposti ad esame medico-nucleare della funzione cerebrale mediante PET (positron emission tomography), prima e dopo il trattamento con il loro four-steps method (Relabel, Reattribute, Reassign e Revalue), per una durata complessiva di dieci settimane, durante le quali non era stato somministrato alcun farmaco. Ricordo che, in precedenza, lo stesso team aveva condotto valutazioni di efficacia in parallelo col trattamento farmacologico standard, e che aveva studiato mediante PET stati depressivi ed OCD con e senza depressione.

Ben 12 pazienti presentarono un miglioramento significativo, al quale avevano fatto riscontro dei reperti di neuroimaging molto interessanti: le scansioni PET dimostravano una notevole diminuzione, dopo il trattamento, dell’attività metabolica del nucleo caudato di entrambi gli emisferi, con una più marcata riduzione nel caudato di destra. Anche il quadro neurometabolico che costituiva il contrassegno patologico in base al quale, secondo Schwartz, si sarebbe potuta porre la diagnosi di OCD mediante PET, ossia l’abnorme elevazione dell’attività di correlazione fra caudato, corteccia orbito-frontale e talamo nell’emisfero destro, era notevolmente ridotta.

 

[continua]

 

La registrazione è stata trascritta da Isabella Floriani

BM&L-Novembre 2008

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: RELAZIONE ORALE TRASCRITTA]