IL MIGLIOR TRATTAMENTO DEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

 

(OTTAVA PARTE)

 

Con l’ottava parte si conclude la pubblicazione della trascrizione dell’intervento del Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze all’incontro dei soci di “Brain, Mind & Life Italia”, dedicato ai recenti sviluppi della ricerca sul disturbo ossessivo-compulsivo. Le precedenti sette parti sono state pubblicate nelle scorse settimane (Note e Notizie 25-10-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – prima parte; Note e Notizie 01-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – seconda parte; Note e Notizie 08-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – terza parte; Note e Notizie 15-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – quarta parte; Note e Notizie 22-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – quinta parte; Note e Notizie 29-11-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – sesta parte; Note e Notizie 06-12-08 Il miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo – settima parte).

 

Il mio amico e collega affetto da OCD, attrasse la mia attenzione su un adagio del tradizionale insegnamento psicoanalitico, che mi aveva sentito pronunciare agli incontri didattici con i colleghi del quinto anno: l’ossessivo stacca l’affetto dalla rappresentazione. Mi chiese come questo, a mio avviso, potesse accadere; poi si affrettò a precisare che per quanto lo riguardava questo “isolamento dell’affetto”[1] stava scomparendo nella manifestazione a lui meno gradita, cioè nell’assenza di piacere in circostanze nelle quali si attendeva di provarlo. Gli risposi che si poteva ipotizzare un’interferenza del funzionamento patologico nel normale collegamento fra corteccia e centri sottocorticali mediatori delle manifestazioni emotive dell’affettività.

In quel periodo, l’efficacia dell’auto-terapia del mio amico era ormai un’evidenza: era diventato puntuale, la sua disponibilità di tempo nella giornata non era diversa dalla nostra, perché ormai condizionata solo dai doveri quotidiani e non più dalla pratiche rituali, e, infine, il suo umore era straordinariamente migliorato. Mi interrogai, allora, sugli elementi caratterizzanti la sua esperienza e, con il suo aiuto, li ricostruii all’incirca nei termini che ora provo ad esporre.

1) Atteggiamento attivo. Non considerando il suo disturbo una malattia, era sfuggito alla tentazione di delegare ad uno psichiatra la completa gestione del suo stato mentale, magari confidando passivamente nell’effetto dei farmaci. Aveva voluto assumere in prima persona la responsabilità di conoscere ed agire per ottenere un cambiamento attraverso “esercizi di vita e di pensiero”.

2) Referente non convenzionale. Condivisione affettiva e supporto reale al suo progetto di trattamento autonomo gli sono venute dall’avermi eletto referente privilegiato sulla base di una fiducia nutrita dall’amicizia e da sentimenti di reciproca stima. Il mio ruolo non convenzionale consisteva in parte in una “consulenza tecnica” basata su consigli bibliografici e spiegazioni che rendevano indipendente la causa dei sintomi dalla sua vita affettiva, dalla sua storia personale e dalle persone delle sue relazioni più importanti[2], e in parte in un sostegno morale al suo impegno quotidiano.

3) Fiducia. Aveva la certezza di riuscire nel compito di risoluzione dei sintomi attraverso il rimodellamento di sé.

4) Collocazione dell’immaginario della cura in un quadro favorevole. Impiegando il paradigma morale del libero volere che si esprime come volontà di combattere i vizi e coltivare le virtù, aveva concepito il suo agire come un’impresa doverosa e possibile. Come da bambino aveva imparato a mettere in pratica le norme morali impartite dai genitori e ad eseguire i compiti assegnatigli dagli insegnanti, con l’intento di “migliorare” e “progredire” in base alla certezza della perfettibilità umana, così da adulto in autonomia riproduceva il clima positivo della sua infanzia. Nutriva poi di modelli ed esiti dell’agire virtuoso il suo immaginario, attraverso la lettura di brani di storia o di notizie di attualità. Come ho detto precedentemente, si riferiva al complesso delle attività mentali e materiali volte a riplasmare il suo funzionamento neuropsichico con il termine “palestra”.

5) Focalizzazione di un’attenzione non ansiosa. Aveva impiegato la mia ipotesi dei circuiti “fuori controllo” come supporto e sostegno alla concentrazione dell’attenzione quotidiana su un compito che, impegnandolo, lo stimolava.

6) La forza delle nuove abitudini. Il suo obiettivo quotidiano consisteva in un esercizio volto al fine di creare nuove abitudini funzionali che, nel tempo, avrebbero rimodellato le reazioni spontanee. Soleva dire di farsi guidare da alcuni “sempre” e da alcuni “mai”. Ad esempio, si perdonava sempre per gli insuccessi o i fallimenti nei singoli esercizi, ma non considerava mai la possibilità di rinunciare o smettere, secondo la virtù della perseveranza.

7) Rapporti umani a sostegno delle abitudini in costruzione. Era solito dire che il maggior sostegno gli veniva da rapporti sociali con persone “ignare”, ossia non a conoscenza del suo disturbo.

Questi sette punti hanno rappresentato per me, e per molti di coloro che ho reso partecipi di questa esperienza, tracce per riflessioni ed elaborazioni, sia sulle possibilità di autogestione del cambiamento, sia sulle condizioni e le modalità impiegate nelle terapie mediche e psicologiche che si erano rivelate inefficaci.

Ma torniamo all’attualità delle conoscenze neuroscientifiche e proviamo a ridurre in sintesi schematica ciò che accade, andando dal livello cerebrale fino al contesto terapeutico: 1) attività eccessiva di circuiti che determinano una tendenza biologica verso atti mentali e materiali; 2) sintesi da parte dei processi globali[3] che tendono a ristabilire l’equilibrio interno del sistema; 3) elaborazione cosciente del paziente, influenzata dalle spinte biologiche, dal suo patrimonio di esperienze affettive e introspettive, e dalla sua cultura generale e particolare; 4) costruzione interpretativa del terapeuta sulla base della propria cultura e formazione professionale.

Nella mia visione, lo psichiatra e gli altri professionisti delle terapie psicologiche, indipendentemente dal metodo adottato, dovrebbero avere sempre presente questo schema e condividerlo -ogni volta che sia possibile- con la persona affetta dal disturbo. In tal modo, tutto ciò che è costruzione assume un valore relativo rispetto al dato neurobiologico, che si sa essere correggibile con il crearsi di nuove abitudini funzionali. Ogni costruzione, e perciò il pensiero/sintomo e la sua interpretazione, non sono, e non devono esserlo per la diade terapeutica, vincolanti, così come era accaduto nell’auto-terapia del mio amico e collega. Infatti, se posso attribuirmi un’utilità nel ruolo di interlocutore privilegiato, è proprio in relazione ad un sostegno nella dissoluzione delle associazioni inscindibili e dei legami obbligatori che caratterizzavano la sua ideazione[4].

Generalizzando il valore dei principi dedotti dalla mia esperienza, gli aspetti fondamentali del ruolo attivo sembrano consistere 1) nell’assunzione da parte della persona affetta di tutte le conoscenze necessarie a reificare le cause, circoscrivendole nella loro reale natura di innesco neurobiologico dei processi, e non cedendo all’attrazione costituita dall’attribuire alle costruzioni interpretative valore causale, per non correre il rischio di rendere le associazioni patologiche “legami di necessità”, giustificati dal senso dell’interpretazione;  e 2) nella sua capacità di impegnarsi con determinazione e costanza in un esercizio volto a rimodellare facoltà, propensioni ed abilità implicate nella risposta all’insorgenza dei sintomi intrusivi e nella formazione e nel consolidamento delle memorie comportamentali.

Ritengo importante ricordare che l’obiettivo primario non è la modificazione ad ogni costo del comportamento sintomatico, magari forzata da costrizioni traumatiche come in certi trattamenti che esamineremo in seguito, ma consiste in un rimodellamento funzionale quanto più è possibile in armonia con le esigenze dell’adattamento psichico di base e della vita di relazione della persona affetta. Da ciò faccio derivare l’opportunità di fare ricorso ad uno strumento che impiego nell’arte del vivere[5], ossia l’esperienza di arricchimento, e a graduare gli esercizi in modo che risultino sostenibili.

L’esperienza di arricchimento, fa leva su un particolare stato cerebrale e mentale indotto da nuove conoscenze che suscitano piacere, stato nel quale il cervello si attiva in maniera maggiore e diversa dalla routine e, nel tempo, presenta una significativa  formazione di nuove microstrutture neuroniche (incremento della neurogenesi, delle arborizzazioni dendritiche e delle sinapsi)[6].

Gli esercizi sostenibili. Il mio amico affetto da OCD aveva creato una tabella di attività con “rischio crescente”, nella quale prevedeva il cimento con situazioni che, ogni volta, riteneva di poter affrontare. In questa gradualità un aspetto importante era costituito dal tempo, ad esempio: resistere mezz’ora ogni mattina senza lavarsi dopo la quotidiana stretta di mano di un collega, aumentando ad un’ora dopo 14 giorni, e a due ore dopo 21. Dopo un mese, riusciva a non lavarsi più le mani dopo aver salutato; ma solo un mese prima, se gli avessero imposto una cosa simile, l’avrebbe ritenuta “insostenibile”.

Tutte le esperienze che si riferiscono ai sintomi, dalla loro ridefinizione alla loro sostituzione con attività sociali ordinarie, espongono al rischio potenziale di generare disagio, tensione, nervosismo, ansia o, talvolta, uno stato di vera e propria angoscia, pertanto è importante che la condizione dell’esercizio sia tale da essere stimata “sostenibile”.

Sapete che sono convinto che esista un’attività minimale di apprendimento costante, che caratterizza la funzione di base cerebrale e che, perciò, sia pur in modo inapparente e non significativo fino a quando la somma di tracce simili non superi la soglia di accesso a processi di maggiore evidenza, l’encefalo potenzialmente apprende durante ogni esperienza[7]. Se ciò è vero, si dovrà fare in modo che il sostrato neurale non apprenda associazioni negative rispetto agli scopi del trattamento, come invece sembra accadere nel corso di molti interventi di tipo “direttivo”. 

Proverò, ora, ad elencare alcune caratteristiche dell’interlocutore privilegiato della persona affetta, che ritengo possano risultare efficaci al fine di sostenerla nel percorso di cambiamento.

1) Conoscere la persona indipendentemente dai sintomi.

2) Operare e condividere una separazione fra soggetto ed oggetto (persona e sintomo).

3) Creare un’alleanza con l’Io del soggetto nella consapevolezza condivisa che la forma del sintomo si può e si deve considerare “non appartenente”. Ciò è importante se si vuole relegare questa forma o struttura significante nel non-senso, perché la sua forza deriva da un significato che attinge al legame affettivo-emotivo con l’Io, la cui base neurobiologica è verosimilmente costituita dall’associazione impropria -dalla quale deriva la potenziale evocazione reciproca- fra i processi alla base dei sintomi e le elaborazioni psichiche di ordine superiore.

4) Creare i presupposti perché la collaborazione volta al fine di definire esercizi graduali e perciò sostenibili, si istauri come area di esperienza dalla quale, per accordo condiviso, sia bandita la catena di collegamenti errore-condanna-colpa, nel giudizio della prestazione. La perseveranza nell’esercizio sarà sempre incoraggiata, indipendentemente dal risultato. In proposito, si dovrà agire come se si seguisse il motto di Guglielmo d’Orange, che tanto piaceva al mio amico e collega affetto da OCD: “Non è necessario sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare”.

5) Promuovere l’inserimento in contesti di attività che implichino una cooperazione vincolante e gratificante con altre persone. L’ideale sembra essere il contesto lavorativo con il suo potere di “sistema a ricompensa”, sebbene nella realtà si presenti con l’inevitabile quota di frustrazioni connesse, che rischia di accentuare i sintomi, soprattutto se già hanno assunto un ruolo “difensivo”, rivelandosi efficaci nel proteggere dall’ansia o da altre espressioni e condizioni di disagio.

Mi è stato chiesto dal Professore Rossi di indicare e definire quello che ritengo il “miglior trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo”, verosimilmente scegliendo fra i metodi più noti attualmente in uso. Non ho finora risposto alla richiesta, proponendo una narrazione che include una sintesi concettuale della mia visione, dalla quale credo si evinca il perché della mia mancata risposta ma, prima di passare ad una rassegna in stile accademico delle procedure di maggiore impiego, desidero essere più esplicito.

Ritengo che il miglior trattamento non sia una procedura terapeutica standardizzata per questo tipo di sindrome, ma un percorso condiviso, fondato sugli elementi che ho esposto in precedenza, ed individualmente adattato dalla stessa persona affetta. Alla buona riuscita di questo adattamento individuale può contribuire lo specialista nel porre all’attenzione del suo interlocutore le caratteristiche dei quadri mentali in cui il disturbo si manifesta, dei condizionamenti e delle associazioni inconsapevoli, del valore relativo dei processi derivati dall’elaborazione cosciente, che va dall’auto-diagnosi alle varie forme di sapere impiegato o creato ad hoc per spiegarsi e gestire i sintomi. Non di rado, perché gli esercizi possano essere efficaci, si deve tener conto delle risorse affettive e cognitive, del contesto in cui si vive, delle relazioni intime e dei rapporti mediati dal ruolo sociale.

 

La relazione è proseguita con una rassegna dei principali metodi terapeutici attualmente adoperati, rilevandone i vantaggi e i limiti, e si è conclusa con un’efficace dimostrazione della necessità di personalizzare le modalità e il tipo di esercizi. Isabella Floriani ringrazia Giuseppe Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, per aver accettato di mettere a disposizione dei visitatori del sito la trascrizione di gran parte della sua relazione e per aver completato il testo con l’aggiunta di utili note esplicative.

 

La registrazione è stata trascritta da Isabella Floriani

BM&L-Dicembre 2008

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: RELAZIONE ORALE TRASCRITTA]

 

 

 

 



[1] Si fa riferimento al meccanismo automatico ed involontario che, secondo le teorie psicoanalitiche, è alla base della stessa ideazione ossessiva: un impulso aggressivo o erotico intollerabile, superata la barriera della rimozione, fa accesso alla coscienza senza turbare emotivamente il soggetto, perché si presenta solo come idea, separata dalla componente affettiva normalmente associata. La persona che sperimenta l’isolamento dell’affetto può apparire fredda e controllata, ma anche serena e sorridente. [Nota del Relatore].

[2] A differenza di una causa psicodinamica che avrebbe portato l’attenzione su nodi e conflitti affettivi derivanti dal rapporto con persone evocate come allocutori, questa origine in una bias neurobiologica consentiva di reificare il sintomo ponendolo sotto il proprio controllo. [Nota del Relatore].

[3] Per processi globali, qui e altrove nel testo, si intendono le attività svolte dai “sistemi globali” nell’accezione diffusa da Gerald Edelman [Nota dell’Autrice della Trascrizione].

[4] Facendo leva sulla comune passione per la cultura greca antica, lo invitavo a riflettere sui soli legami che non possono essere sciolti (desmoì àlutoi) che, come bene illustra Eschilo, sono quelli che inibiscono nel Tartaro, luogo dell’impossibilità e della stasi per eccellenza (aporos). Nessun legame umano può condurre in una condizione senza vie d’uscita (améchanos) costituendo un vincolo inestricabile (améchana): quando ciò appare, secondo il pensiero greco, vuol dire che manca la metis, ossia una forma particolare di intelligenza, di accorta prudenza che si traduce in astuta strategia, spesso necessaria per la sopravvivenza. Partendo dallo studio etimologico-semantico delle parole peirata e desmà (entrambe usate per rendere il concetto di vincolo o legame), condotto da Marcel Detienne e Jean Paul Vernant (v. Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia. Laterza, Roma-Bari 1978), giungemmo alla conclusione che chi ha un progetto ed è in grado di sostenerlo con l’abilità della metis, non ha difficoltà a tagliare i legami del pensiero, non consentendo che questi si generalizzino immobilizzandolo come se fosse preso in una rete da pescatore (che, nel mito greco, rende l’inibizione e l’impotenza). [Nota del Relatore].

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[5] Si fa riferimento al “Seminario sull’Arte del Vivere” rivolto ai soci di BM&L, nel quale si impiegano il sapere scientifico e una grande varietà di conoscenze provenienti da vari campi del sapere, al fine di acquisire strumenti efficaci per migliorare la propria vita. L’espressione “arte del vivere” è ripresa dall’uso che se ne faceva nella filosofia antica e stava ad indicare l’obiettivo principale dell’insegnamento dei filosofi che, lungi dall’essere docenti di una teoretica ontologica e metafisica, come è spesso accaduto nelle epoche successive, avevano il fine di migliorare l’esistenza propria e quella degli altri. [Nota del Relatore].

[6] L’affermazione si basa soprattutto su un’enorme mole di studi che ha provato questi effetti negli animali da esperimento, posti in un ambiente ricco o sottoposti a stimoli che attivano la corteccia cerebrale. [Nota dell’Autrice della Trascrizione].

[7] Non mi riferisco solo alle forme più evidenti di condizionamento associativo od operante, ma al complesso dell’esperienza di ogni istante e fase della vita. Ad esempio, se si ozia tutto il giorno, il cervello impara ad oziare; ciò vuol dire che il suo assetto funzionale sarà più propenso all’ozio ed apparentemente inibito all’azione, con la possibilità di rispondere con segnali interni di allarme per stimoli che ordinariamente si limitano ad attivare il sistema reticolare aumentando l’attenzione. [Nota del Relatore].