BM&L-ITALIA: AGGIORNAMENTO SU OLFATTO E CHEMORECEZIONE
ACCESSORIA
OLFATTO ED OLTRE
L’incontro
è stato introdotto dal professor Giovanni Rossi e dal presidente Giuseppe
Perrella: il primo ha svolto il tema dell’evoluzione della ricerca in questo
campo, il secondo ha esposto le principali conoscenze sulle basi
neurobiologiche di olfatto e chemorecezione vomeronasale. In questa scheda
riportiamo l’introduzione della relazione del professor Rossi e, della
relazione del presidente Perrella, riportiamo l’elenco dei 12 argomenti
trattati che, in estrema sintesi, compendiano la sua esposizione.
INTRODUZIONE. Per introdurre questa serie di incontri di aggiornamento sul sistema olfattivo e sulla chemorecezione che fa capo all’organo vomero-nasale e suoi equivalenti, non avrei parole migliori di quelle adoperate qualche tempo fa dalla dottoressa Ludovica Poggi nell’incipit di una sua interessante recensione: “Fra i sensi speciali, l’olfatto è rimasto il più misterioso e negletto soprattutto perché, non essendo alterato in patologie numerose ed invalidanti come la vista e l’udito, non ha attratto l’interesse e i capitali della ricerca medica, rimanendo relegato nella cultura collettiva al ruolo di curiosità scientifica da documentario televisivo o da articoli divulgativi per ragazzi. Eppure, per vari motivi, lo studio di questo senso ha avuto spesso un ruolo cruciale nella ricerca neuroscientifica. Basti pensare che nei mammiferi l’olfatto propone il rapporto anatomico più stretto ed immediato fra recettore e corteccia cerebrale e, in un certo senso, fra cervello e mondo esterno; il mezzo più sicuro per interpretare la segnalazione legata all’accoppiamento, perché le molecole odorose sono rilasciate dalle femmine nella fase recettiva dell’estro e non sono segnali presenti anche in altri periodi come quelli visivi; e, infine, un modello di informazione sensoriale direttamente integrata con un'altra (gusto) e prevalentemente agente sul comportamento attraverso processi non coscienti.
L’Italia ha avuto un’antesignana in questo campo di studi in
Eleonora Giorgi, molto meno nota dell’attrice cinematografica sua omonima ma, a
nostro avviso, ben più meritevole. La Giorgi, seguendo il codice di odori di
Hainer e colleghi, è stata fra i primi ricercatori al mondo ad applicare
modelli matematici allo studio della percezione delle molecole odorose. Dopo
questi studi degli anni Settanta, l’odorato è ritornato nella sua nicchia
super-specialistica, fino a quando Skarda e Freeman (1987) hanno applicato per
la prima volta la teoria del caos al cervello partendo proprio dal senso
dell’olfatto.
Più recentemente, con l’assegnazione del premio Nobel nel
2004 a Richard Axel e Linda Buck, che hanno individuato una vasta famiglia di
geni dei recettori dell’olfatto e definito alcuni principi della fisiologia di
questo senso, la percezione degli odori è definitivamente uscita dall’ombra
delle aree di studio di minore importanza”.
[…].
Lascio ora la parola al presidente.
BIOLOGIA MOLECOLARE DELL’OLFATTO E DELLA CHEMORECEZIONE DI
COMPOSTI CON FUNZIONE DI FERORMONI: SGUARDO D’INSIEME.
1. Il sistema olfattivo dei mammiferi ha un potere
straordinario di analisi e riconoscimento degli odori, giungendo a distinguere e caratterizzare come
aromi diversi gli effetti di due stereoisomeri della stessa molecola [es.: le
due forme isomeriche del carvone: l’L-stereoisomero profuma di menta e il
D-stereoisomero dà odore al comino (Cuminum cyminum), impiegato come
aroma nella preparazione di cibi e liquori (Kümmel)].
2. Gli eventi iniziali della percezione olfattiva si
verificano in un neuroepitelio specializzato che prende il nome di epitelio olfattivo, ed è
costituito da neuroni sensoriali
dell’olfatto, cellule di supporto e cellule
basali.
3. La distinzione degli odori implica l’intervento di un
grandissimo numero di recettori, ciascuno specifico per un
solo composto o un ristretto gruppo di
molecole odorose.
I recettori appartengono alla superfamiglia GPCR (G-protein
coupled receptor) con la quale condividono vari motivi stereotipici e la
classica topologia con 7 domini transmembrana. L’analisi del genoma umano e
murino ha rivelato circa 350 geni per i nostri recettori olfattivi (con un
numero equivalente di pseudogeni) e circa 1200 per il topo: la più grande
famiglia di geni dei mammiferi. I geni per i recettori dell’olfatto si trovano strettamente
raggruppati nel genoma, in quasi tutti i cromosomi; una configurazione che
suggerisce numerose duplicazioni tandem nel corso dell’evoluzione.
4. Le informazioni generate da centinaia di tipi diversi di
recettori, devono essere organizzate per raggiungere un alto livello di discriminazione
olfattiva.
5. I recettori olfattivi presentano un’espressione zonale, ossia
i geni sono espressi esclusivamente entro zone ristrette che presentano simmetria bilaterale e
sono virtualmente identiche in tutti gli individui.
6. Gli assoni dei neuroni sensoriali dell’olfatto convergono su pochi
glomeruli del bulbo olfattivo.
7. La sensibilità del sistema olfattivo è probabile che derivi dalla capacità
dell’apparato di trasduzione di amplificare
efficacemente e terminare
tempestivamente l’effetto dei segnali.
8. Il riconoscimento dello stimolo odoroso da parte del recettore avvia una cascata di reazioni con
mediazione del secondo messaggero (cAMP) che porta alla depolarizzazione del neurone ed alla
genesi del potenziale d’azione. Possono essere attive anche vie basate su
secondo messaggero alternativo (IP3, cGMP).
9. La stimolazione prolungata o ripetitiva dell’apparato di
trasduzione genera adattamento o de-sensibilizzazione mediante processi a feedback negativo.
10. L’organo vomeronasale costituisce un sistema chemosensoriale accessorio che gioca
un ruolo di grande importanza nella rilevazione degli stimoli costituiti dai ferormoni.
11. I neuroni chemosensoriali dell’organo vomero-nasale sono altamente specifici e ciascuno, in genere, risponde ad un singolo stimolo utilizzando un meccanismo esclusivo di trasduzione sensoriale. A differenza dei neuroni dell’olfatto, che rispondono ciascuno a vari stimoli odorosi, queste cellule recettrici hanno un’alta selettività e sensibilità per il proprio ligando, con una bassissima soglia di attivazione (10-11 M).
12. Le proprietà diverse dei neuroni sensoriali per gli odori e per i ferormoni riflettono due diverse strategie di codifica:
a) i neuroni dell’olfatto hanno un ampio raggio di affinità per poter rispondere anche a nuovi odori ed adattarsi all’ambiente attraverso l’apprendimento olfattivo;
b) i neuroni rilevatori dei ferormoni devono invece rispondere efficientemente ed esclusivamente a un piccolo set di segnali inviati da individui della stessa specie.
Giovanni
Rossi & Giuseppe Perrella
***
Qui di seguito si riporta il testo delle 16 “note e notizie” (14 recensioni
più due note di tipo informativo) che, dal 2004 ad oggi, hanno trattato gli
argomenti più vicini al contenuto delle relazioni elaborate per questa serie di
incontri.
***
IL PRIONE
HA UN RUOLO NELL’OLFATTO
Il
ruolo dei prioni nella forma trasmissibile dell’encefalopatia spongiforme
bovina (malattia della “mucca pazza”) è ben definito, ma l’intervento di queste
proteine nei processi fisiologici del sistema nervoso dei mammiferi è poco
conosciuto. Rinviando alla scheda introduttiva di un aggiornamento consultabile
sul sito e, soprattutto, alle numerose recensioni nelle nostre “Note e Notizie”
per vari risultati della ricerca sulla proteina prionica, ricordiamo che,
sebbene questa molecola sia abbondantemente espressa nel cervello, non è stato possibile
riconoscere un preciso fenotipo negli animali da esperimento che ne sono privi
e, pertanto, molti ricercatori hanno ritenuto che non sia necessaria per alcuna
specifica attività fisiologica. Ma in uno studio recente di Firestein e
colleghi del Department of Biological Sciences della Columbia University di New
York, da esperimenti condotti con tre diverse linee di topi privi di PrPC,
è emerso un inaspettato ruolo nel sistema olfattivo (Le Pichon C. E., et al. Olfactory behavior and
physiology are disrupted in prion protein knockout mice. Nature
Neuroscience 12 (1), 60-69, 2009).
Al
lettore non specialista ricordiamo come la ricerca infruttuosa di un ipotetico
virus nelle encefalopatie trasmissibili animali, quali lo scrapie della pecora
e la BSE dei bovini, e in quelle umane come il Kuru (trasmesso fra indigeni
antropofagi per l’assunzione del cervello di persone portatrici), la malattia
di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e la malattia di
Gertsmann-Sträussler-Scheinker (GSS)[1][1], abbia condotto all’ipotesi di un agente
trasmissibile che non avesse la struttura di un microrganismo. Prusiner e
colleghi nel 1982 isolarono una sialoglicoproteina, cui diedero il nome di prion o
PrP (proteinaceous infectious particle) per
distinguerla da virus e viroidi, come maggiore costituente della frazione
infettiva, in grado di formare depositi amiloidi potenzialmente tossici. Sono
state poi riconosciute due isoforme con differenti caratteristiche
fisico-chimiche: la forma cellulare normale o
PrPC, ancorata alla membrana mediante glicosil-fosfatidil-inositolo, e quella
trovata come materiale aggregato nel tessuto infetto ed associata allo scrapie, PrPSc. Vogliamo ancora ricordare che in patologia umana si
osservano tre tipi eziologici di malattie da prioni: ereditarie, sporadiche ed
acquisite. Da numerosi studi risulta evidente che la comprensione del ruolo
fisiologico svolto da questa proteina, oltre a costituire un nuovo elemento di
conoscenza biologica, potrà contribuire alla comprensione di molti aspetti
rilevanti per la patologia.
La PrPC, estesamente espressa in molte aree
dell’encefalo, nel sistema olfattivo appare localizzata sia negli assoni
dei neuroni sensoriali periferici, sia in quelli dei neuroni centrali, pertanto
Firestein e i suoi colleghi della Columbia University hanno esplorato la
possibilità di un suo specifico ruolo nella funzione olfattiva.
In
una prova di rilevazione olfattoria, in cui si misurava il tempo impiegato dai
topi per recuperare una ricompensa nascosta sotto uno strato di materiale posto
sul fondo della gabbia, è risultato che i topi con
deficit di PrPC impiegavano un tempo maggiore per
eseguire la prova e talvolta non vi riuscivano affatto.
In
un altro esperimento, nel quale si studiava il comportamento esplorativo in
risposta alla presentazione ripetuta in successione di un odore, si è rilevato
che i topi privi di prione spesso non mostravano alcun interesse per odori nuovi.
Questi
risultati suggeriscono un deficit nella discriminazione olfattiva, confermato
dal fatto che in entrambe le prove il comportamento normale era ristabilito dalla selettiva espressione del gene di PrPC nei neuroni dei topi knockout.
Lo studio elettrofisiologico ha rivelato aspetti interessanti,
definendo con maggiore precisione l’effetto sull’odorato della delezione genica
artificiale.
Le
registrazioni mediante elettrodi hanno infatti evidenziato che lo stimolo
costituito da molecole aromatiche produceva un tracciato alquanto diverso in
assenza dei prioni endogeni: nel bulbo olfattivo, l’attività oscillatoria gamma
e gamma di alta frequenza appariva ridotta, mentre la successiva fase di
decadimento risultava prolungata. Questo tipo di attività elettrica si ritiene
che faciliti la codificazione degli odori da parte della corteccia olfattiva,
pertanto i ricercatori hanno esaminato le sinapsi dendro-dendritiche fra le
cellule dei granuli e le cellule mitraliche del bulbo olfattivo dei topi knockout. Con un protocollo di paired-pulse stimulation hanno trovato
una facilitazione dei potenziali post-sinaptici inibitori; un dato che
ulteriormente conferma un’alterazione funzionale nel bulbo olfattivo,
individuando un preciso elemento di fisiologia sinaptica. Il prosieguo della
sperimentazione chiarirà se vi è un nesso causale fra questa alterazione della
plasticità e le caratteristiche dell’attività oscillatoria.
In
conclusione, si deve notare che l’accertamento di questo importante ruolo
fisiologico svolto dalla PrPC, oltre ad incentivare ulteriori
studi per approfondire la conoscenza dei processi ai quali la
sialoglicoproteina prende parte nel sistema olfattivo e in altri sistemi
cerebrali, supporta la tesi dell’importanza della perdita funzionale della PrPC nella patologia da prioni che, troppo spesso, è ridotta
alle conseguenze dell’accumulo delle isoforme patologiche.
Infine,
vorrei invitare chi non l’avesse ancora fatto, a leggere la nota del professor
Rossi della scorsa settimana (Note e Notizie 17-01-09 Funzione
Olfattiva e Schizofrenia) e da questa risalire alle altre recensioni e rassegne che
danno un’idea di come sia mutata e di quanto si sia accresciuta, la
considerazione della chemorecezione nasale nell’economia funzionale
dell’organismo e della specie. Prese insieme, queste nuove acquisizioni che
hanno come punto di incontro il sistema olfattivo, possono essere considerate
tessere di un mosaico che, quando sarà compiuto, darà forma ad una parte
considerevole della neurofisiologia del domani.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani per
la correzione della bozza.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
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FUNZIONE
OLFATTIVA E SCHIZOFRENIA
Anosmia,
iposmia ed altre alterazioni dell’olfatto, sono state messe in relazione con
vari disturbi mentali, ma l’associazione più studiata rimane quella con la
schizofrenia. Una prospettiva particolare è stata assunta in queste ricerche da
Dolores Malaspina, psichiatra e studiosa dell’olfatto della New York
University, e dai suoi collaboratori del New York State Psychiatric Institute.
Ai risultati e alle opinioni del team newyorkese, lo scorso sabato 10
gennaio 2009 a Firenze un gruppo di soci di “Brain, Mind & Life” ha
dedicato un incontro di approfondimento e discussione.
E’
noto che i circa 12 milioni di cellule sensoriali olfattive[2][1], ciascuna delle quali provvista di 350
recettori diversi, ci consentono di rilevare informazioni provenienti
dall’ambiente in generale e dal corpo di altre persone in particolare, mediando
un ampio spettro di risposte che influenzano le nostre interazioni sociali.
Molti effetti della chemorecezione nasale rimangono inconsci e, per questo,
sono stati a lungo ignorati, ma la loro importanza appare sempre maggiore con
il progredire delle conoscenze. E’ stato dimostrato, ad esempio, che è
possibile fiutare la peculiarità antigenica MHC di una persona, e preferirla
per questo motivo; è noto che anche la nostra specie rileva ferormoni sessuali,
probabilmente mediante una via nervosa specifica (v. Note e Notizie 31-03-07 Il sesso
e il nervo sconosciuto)[3][2]; annusare il sudore di una persona che ha
paura, per effetto dei ferormoni di allarme, aumenta la vigilanza e
migliora le prestazioni cognitive; l’odore di una persona amica è preferito a
quello di un estraneo; infine, alcune preferenze relazionali e sociali sono
influenzate dagli odori.
Malaspina
e colleghi, su questa base, hanno ipotizzato che un danno della chemorecezione
nasale possa avere un ruolo nel determinare alcuni aspetti delle psicosi e, in
particolare, il ritiro sociale che spesso si osserva nella schizofrenia. A tale
scopo hanno misurato la competenza olfattiva dei pazienti schizofrenici, molti
dei quali con un basso grado di interazione sociale, e la hanno paragonata a
quella di persone non affette dal disturbo.
Il
primo degli studi discussi dai soci di BM&L risale al 2003, quando l’équipe
di New York sottopose 70 pazienti e 68
soggetti di controllo ad una prova di riconoscimento di 40 odori comuni, fra i
quali quelli del cioccolato, della pizza, del fumo di sigaretta e dei fiori di
lillà. Gli schizofrenici ottennero punteggi marcatamente più bassi, e il
sottogruppo costituito da psicotici con una maggiore espressione di sintomi
negativi, quali ritiro sociale, negligenza e trascuratezza personale, perdita di
motivazione ed estrema povertà di linguaggio, fece registrare i risultati
peggiori. Emerse una proporzione diretta fra il deficit sociale e quello
olfattivo.
Due
anni dopo, nel 2005, Malaspina e colleghi studiarono 26 adolescenti affetti da
forme di psicosi ad insorgenza precoce, caratterizzate da perdita di contatto
con la realtà, illusioni ed allucinazioni. Anche in questo studio emersero
stretti legami fra l’incapacità di riconoscere gli odori e l’isolamento
sociale. In particolare, i giovani che presentavano tipici sintomi
schizofrenici, incluso il ritiro dai rapporti con gli altri, avevano un’alta
probabilità di fallire nelle prove di riconoscimento osmico, mentre nessuno di
quelli che aveva ricevuto una diagnosi di disturbo bipolare, per la presenza di
sintomi tipici delle psicosi maniaco-depressive, manifestò deficit olfattivi.
Questi
risultati hanno suggerito al gruppo newyorkese che un difetto del senso
dell’odorato e delle altre funzioni a questo connesse, possa determinare
compromissione di attitudini ed abilità sociali. Si deve però osservare che il
nesso di causa/effetto non è stato dimostrato in questi lavori, e che i due
disturbi potrebbero originare parallelamente da cause genetiche e/o
epigenetiche, le quali potrebbero coesistere con o senza sinergia.
Da
alcuni è stato proposto che la fisiopatologia cerebrale sottostante la
schizofrenia distrugga aree cerebrali che controllano la motivazione sociale e
l’olfatto allo stesso tempo. E’ stato avanzato anche il paragone diretto con
malattie neurodegenerative come il Parkinson e L’Alzheimer che, in molti casi,
si accompagnano a perdita della funzione olfattiva.
Attualmente
Deborah Goetz, associata di ricerca del New York State Psychiatric Institute,
sta collaborando con Dolores Malaspina allo scopo di individuare le basi
morfofunzionali encefaliche dei deficit dell’olfatto e delle abilità sociali. I
risultati parziali di questi studi hanno rilevato alterazioni della corteccia prefrontale inferiore.
Malaspina
spera che le sue ricerche possano portare a nuovi trattamenti delle picosi
mediante farmaci che, acuendo e generalmente migliorando la funzione olfattiva,
possano accrescere la motivazione e la prestazione nei contatti sociali,
interrompendo alcuni circoli viziosi che si osservano nei disturbi con ritiro
relazionale.
E’
perfino superfluo sottolineare che fra i soci di BM&L-Italia, così come
nella comunità internazionale dei neurobiologi e degli psichiatri, prevalgono
le posizioni scettiche al riguardo. Ma la Malaspina ha ribadito quanto in
precedenza dichiarato in una conversazione con Josie Glausiusz: “In realtà è
attraverso il senso dell’olfatto che la maggior parte dei mammiferi costruisce
le relazioni sociali. Il cervello olfattivo è realmente il cervello sociale.”[4][3]
Le
numerose ed articolate critiche che sono state mosse a questa prospettiva,
richiederebbero uno spazio molto più esteso di quello concesso a questo breve
scritto, pertanto ci limiteremo a sintetizzare, in una frase, l’obiezione più
radicale: “La schizofrenia non è un difetto di abilità sociali” (Ludovica R.
Poggi).
Concludendo,
riteniamo di non errare affermando che, sebbene le aspettative della Malaspina
appaiano infondate, proseguire la ricerca in questa direzione potrà produrre
risultati interessanti, soprattutto se si cercherà di individuare la base
cerebrale di questo nesso apparente.
[Tipologia del testo: RESOCONTO E BREVE RASSEGNA]
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UN
MECCANISMO NELLA PREFERENZA DEGLI ODORI
Le
preferenze e le avversioni innate per gli odori, in molte specie animali, sono
codificate da specifici neuroni sensoriali che possono indurre comportamenti di
attrazione o di avversione. Uno studio condotto nel laboratorio di Bargmann,
Laboratory of Neural Circuits and Behavior dell’Howard Hughes Medical Institute
presso la Rockfeller University di New York, ha dimostrato che in Caenorhabditis
elegans un singolo neurone sensoriale può guidare entrambi i tipi di
comportamento in risposta allo stesso stimolo odoroso (Tsunozaki M., et al., A behavioral switch: cGMP
and PKC signaling in olfactory neurons reverses odor preference in
Caenorhabditis elegans. Neuron 59, 959-971, 2008).
Due
paia di cellule olfattive, i neuroni AWA e AWC percepiscono gli odori dai quali
il nematode è normalmente attratto e tre altre paia rilevano le molecole
odorose che generano evitamento. In precedenti esperimenti era stata dimostrata
la possibilità di desensibilizzare i vermi alla percezione di un odore, con il
risultato che il comportamento di attrazione o di repulsione si riduceva.
Lo
studio di Tsunozaki, Chalasani e Bargmann ha dimostrato che questi
comportamenti non solo si possono ridurre, ma anche revertire: in assenza di
cibo, l’esposizione per 2 ore al butanone, mutava il comportamento di Caenorhabditis
elegans da attrazione ad evitamento. La complessa sperimentazione ha
evidenziato che, modificando la segnalazione intracellulare, la stimolazione di
un singolo neurone può avere effetti opposti nell’output motorio.
In
particolare, la ridotta segnalazione DAG (diacil-glicerolo), portando ad una
riduzione dell’attivazione della PKC (protein kinase C) nel neurone AWCON,
potrebbe essere il meccanismo mediante il quale la mutazione gcy-28
causa l’evitamento del butanone.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
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IL GANGLIO
DI GRUENEBERG RILEVA IL SEGNALE DI ALLARME
L’importanza
dei ferormoni nell’uomo è stata confermata due anni or sono quando il Premio Nobel Linda B. Buck e il suo
collaboratore Stephen Liberles, dopo aver identificato nel topo una nuova
classe di recettori per questi composti volatili (TAAR, da trace
amino-associated receptor), hanno rilevato che la nostra specie possiede i
geni per almeno sei tipi di tali molecole recettoriali (Note e Notizie 30-09-06 Olfatto:
scoperta una nuova classe di chemosensori; Note e Notizie 31-03-07 Il sesso
e il nervo sconosciuto). L’influenza di questi segnali sul nostro comportamento
non è paragonabile a quella che si rileva in altri mammiferi, tuttavia rimane
molto interessante studiare le risposte fisiologiche che, verosimilmente,
nell’uomo sono molto simili a quelle rilevate negli animali, anche se
dell’elaborazione neuropsichica non abbiamo consapevolezza perché gli effetti
della percezione non superano la soglia della coscienza. Ciò sembra essere
vero, in particolare, per l’azione dei ferormoni sessuali e di allarme[5][1], perciò lo studio negli animali di
laboratorio di queste due forme di segnalazione a distanza assume rilievo anche
per la psicologia.
E’
noto che i ferormoni di allarme sono rilasciati nell’aria come segnale di
pericolo per gli appartenenti alla stessa specie, ma non si conoscono le basi
morfo-funzionali della recezione nei mammiferi; ora un lavoro condotto da
Broillet e collaboratori presenta la scoperta del sistema che consente la
rilevazione del messaggio (Brechbühl J.,
Klaey M. & Broillet M.-C. Grueneberg ganglion cells mediate alarm pheromone
detection in mice. Science 321, 1092-1095, 2008).
Il
Ganglio di Grueneberg (GG) è stato descritto per la prima
volta nel 1973 da Hans Grueneberg (o Grüneberg) e recentemente è stato
riconosciuto come sotto-sistema olfattivo
composto da 300-500
neuroni disposti a ciascun lato del naso, i cui assoni formano un fascicolo
pari che proietta al bulbo olfattivo. Per studiare struttura e funzioni di
questa formazione nervosa, i tre ricercatori hanno impiegato topi in cui i
neuroni olfattivi, inclusi quelli appartenenti al GG, erano marcati con la proteina fluorescente verde (GFP)[6][2].
L’organizzazione
del GG è stata studiata mediante microscopia elettronica a scansione e a
trasmissione, ed ha mostrato la presenza di grappoli di cellule gangliari
rotonde, ciascuna delle quali possedeva un assone e numerosi processi ciliari,
ossia strutture che costituiscono la sede più probabile per la recezione degli
stimoli chimici. Le cellule gangliari
rotonde (cellule GG)
apparivano avvolte da una guaina mielinica e collocate al di sotto di un
epitelio cheratinizzato, disposto a rivestire la cavità nasale e permeabile
alle sostanze idro-solubili.
Per
identificare gli stimoli specifici delle cellule GG, sono stati aggiunti vari
agenti chimici alla soluzione con la quale erano state perfuse le sezioni di
tessuto gangliare durante esperimenti di Ca2+-imaging.
L’unico stimolo che si è rivelato in grado di attivare le cellule GG è stato il ferormone d’allarme, precedentemente ottenuto da animali sottoposti a stress.
L’attivazione è stata rilevata sia in sezioni di tessuto nervoso prelevato da
topi neonati, sia nei preparati allestiti con cellule gangliari di topi adulti.
Per
verificare il ruolo fisiologico del GG sono stati realizzati esperimenti di
sezione del fascicolo assonico che proietta al bulbo olfattivo, in piccoli di
topo. A 30 giorni dall’intervento, l’esposizione degli animali al ferormone che
segnala il pericolo non produceva più la tipica risposta inibitoria (freezing
behaviour).
Questi
risultati sembrano una chiara identificazione della formazione nervosa indagata
quale sede di mediazione del segnale d’allarme inviato da membri della stessa
specie.
Il
Ganglio di Grueneberg è presente in tutte le specie di
mammiferi sottoposte a studio anatomico, inclusa la specie umana, pertanto è
probabile che i neuroni di questa struttura funzionino da rilevatori sensoriali di allarme in tutti i mammiferi e perciò possano
mediare anche una forma di influenza interumana consistente nella trasmissione
di segnali in grado di contribuire alla genesi di stati di allerta, ansia o
paura.
Gli
esiti di questo studio aumentano l’interesse intorno alla natura dei composti
prodotti in ambito umano e ai meccanismi molecolari della loro azione che, si
spera, saranno definiti nel prossimo futuro.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani per
la correzione della bozza.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
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UN NEURONE
OLFATTIVO PER LA TEMPERATURA ED ALTRE NUOVE
Le
condizioni di temperatura costituiscono un parametro fondamentale per la
sopravvivenza e la riproduzione degli organismi e, in effetti, l’intervallo di
temperatura entro cui è possibile la vita è molto breve. Non sorprende, perciò,
che questa variabile fisica abbia un’importanza che vada ben oltre la capacità
di rilevare il caldo e il freddo mediante cellule specializzate. Le variazioni di temperatura, infatti, interessano tutti i processi cellulari e, al
fine del mantenimento dell’omeostasi, innescano risposte trascrizionali, quali
l’espressione di geni inducibili dallo stress
(heat shock response) e risposte
comportamentali, quali la termotassi. Si comprende, dunque, l’importanza
generale della ricerca che indaga i processi mediante i quali un organismo
reagisce a condizioni termiche ambientali.
Due
studi recenti condotti su Caenorhabditis elegans, la specie di elezione fra i vermi
per questo genere di indagini, forniscono nuovi elementi sul circuito di
controllo e sui meccanismi molecolari che consentono la percezione delle
variazioni di temperatura e l’induzione delle risposte appropriate. Aggiunge
interesse a questi risultati il fatto che la segnalazione sensitiva di questi
organismi semplici è simile a quella dei vertebrati (Kuhara A., et al.
Temperature
sensing by an olfactory neuron in a circuit controlling behaviour of C. elegans. Science 320, 803-807,
2008; Prahlad V., Cornelius T. & Morimoto R. I. Regulation of the heat
shock response in Caenorhabditis elegans
by thermosensory neurons. Science 320,
811-814, 2008).
I
nematodi ed altri vermi, quando sono esposti a gradienti di temperatura,
migrano verso il valore termico corrispondente a quello al quale erano stati
precedentemente incubati; tale caratteristico comportamento prende il nome di
termotassi ed è possibile grazie ad un circuito basato su una coppia di neuroni
termosensori (AFD). Il Group of Molecular Neurobiology della Graduate School of
Science della Nagoya University (Giappone), guidato da Kuhara, ha accertato che
i vermi, per percepire la temperatura, oltre alle cellule note impiegano il neurone olfattivo AWC.
I
ricercatori hanno studiato gli effetti di una mutazione con perdita di funzione
di eat-16,
un gene che codifica un omologo del regolatore
nei mammiferi della
segnalazione eterotrimerica delle proteine G ed è richiesto per la recezione
degli odori. Gli esemplari di Caenorhabditis elegans privi di questo gene hanno mostrato
una termotassi difettosa, che poteva essere compensata dall’esclusiva
espressione del gene nel neurone
olfattivo AWC.
Oltre
a rivelare un nuovo elemento del circuito neurale che controlla la termotassi,
questi risultati evidenziano una similarità fra processi mediante i quali i
vermi percepiscono la temperatura e gli odori.
Il
secondo dei due lavori, condotto da Prahlad e colleghi del Department of
Biochemistry, Molecular Biology and Cell Biology della Northwestern University
di Evanston (IL, USA), rileva che rapidi aumenti di temperatura stimolano
l’espressione di chaperon proteins
per mantenere la corretta configurazione delle proteine e ristabilire
l’omeostasi cellulare in Caenorhabdtis
elegans. Poiché la heat shock
response in cellule isolate è avviata da proteine alterate nella
configurazione, si riteneva che fosse autonoma dal livello cellulare, ovvero
indipendente dalle cellule, ma gli esperimenti hanno dimostrato che, in questo
metazoo, tale reazione dipende dai neuroni termosensori AFD.
Le
mutazioni che compromettevano le funzioni dei neuroni AFD, impedivano
l’espressione della hsp70 (heat-shock protein 70) nelle cellule somatiche, per temporanei
aumenti della temperatura, indicando che i neuroni termosensori sono in grado
di regolare una risposta che interessa tutto l’organismo.
Questi
risultati potevano interpretarsi anche diversamente, attribuendoli ad una
reazione generale allo stress e non a
una risposta specificamente termica, perciò i ricercatori hanno deciso di
sottoporre a vaglio questa ipotesi, valutando gli effetti di uno stressor cellulare chimico come il cadmio. La verifica sperimentale ha confermato che i neuroni mediano
esclusivamente la risposta allo stress
termico.
Prahlad,
Cornelius e Morimoto hanno allora voluto verificare la risposta all’ormone di Dauer, un segnale ambientale che regola la crescita e il
metabolismo, ed hanno rilevato la mediazione di AFD.
I
ricercatori propongono un modello in cui questa perdita di autonomia cellulare
serve ad integrare reazioni comportamentali, metaboliche e dipendenti da stress,
per definire la migliore risposta dell’organismo alle variazioni ambientali.
Per
la somiglianza della segnalazione sensitiva dei metazoi con quella dei
mammiferi, questi due studi costituiscono un contributo importante per la
comprensione dei processi che consentono ai circuiti neuronici di esercitare un
controllo sulle cellule somatiche e di orchestrare il comportamento in risposta
a stimoli esterni.
L’autrice della nota ringrazia il Presidente della Società
Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, con il quale ha discusso
l’argomento trattato e invita a scorrere l’elenco delle “Note e Notizie” di
questo sito per recensioni di lavori di argomento affine.
www.brainmindlife.org
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UN
FERORMONE CON AZIONI DIVERSE IN MASCHI E FEMMINE
L’interesse
per i ferormoni, come molecole in grado di influenzare a distanza il
comportamento e la fisiologia dell’organismo di individui di una stessa specie,
è sempre crescente. Particolarmente in seguito alla scoperta di una nuova classe
di recettori i cui geni sono presenti anche nell’uomo, i TAAR (da trace-amine
associated receptors, così detti perché in grado di rispondere a tracce
lasciate da altri animali) da parte del premio Nobel Linda B. Buck in
collaborazione con Liberles S. D. (Note e Notizie 30-09-06 Olfatto:
scoperta una nuova classe di chemosensori), l’attenzione dei ricercatori sul
ruolo svolto dai ferormoni nella specie umana è enormemente cresciuto (si veda
anche Note e Notizie 03-05-08 Il bacio,
la sua fisiologia e la sua origine – quinta parte). Tuttavia, gli insetti rimangono
gli animali più studiati ed ambito di elezione nel quale si svolgono gli studi
paradigmatici della fisiologia di queste molecole.
Richard
Axel, Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina del 2004 (premio condiviso
con la già menzionata Buck), con un gruppo di lavoro del Dipartimento di
Biochimica e Biofisica Molecolare dell’Howard Huges Medical Institute della
Columbia University, guidato da Datta, ha condotto un interessante studio che
ha chiarito perché uno stesso ferormone (cVA) è in grado di promuovere due
comportamenti diversi nei maschi e nelle femmine del moscerino della frutta Drosophila
melanogaster (Datta S. R., et al.
The
Drosophila pheromone cVA activates a sexually dimorphic circuit. Nature 452, 473-477,
2008).
Nei
maschi di Drosophila il ferormone cVA (da cis-vaccinil acetato)
sopprime il comportamento di accoppiamento con altri maschi, mentre nelle
femmine ha un effetto di promotore della recettività verso l’altro sesso. I
ricercatori hanno dimostrato che il circuito neuronico attivato da questa
molecola presenta lievi differenze in grado di spiegare come un singolo
composto possa avviare patterns neurofunzionali tanto diversi.
In
entrambi i sessi, i recettori per cVA (Or67d) sono espressi in un subset
di neuroni olfattori che proiettano al glomerulo DA1 nel lobo antennale. Qui,
queste cellule formano sinapsi con neuroni di proiezione che innervano il corno
laterale del proto-cervello, che regola l’avvio del comportamento di
corteggiamento. In entrambi i sessi, sia i neuroni contenenti i recettori per
cVA, sia quelli di DA1 a loro associati, esprimono il gene fru,
importante regolatore del corteggiamento (complessivamente circa 2000 neuroni
nella struttura cerebrale dell’insetto esprimono questo gene).
Per
verificare se i differenti comportamenti indotti nei due sessi da cVA fossero
dovuti a dimorfismo sessuale del circuito attivato, i ricercatori hanno
espresso una proteina fluorescente verde fotoattivabile (PA-GFP), specificamente nei neuroni esprimenti fru.
La
fotoattivazione di PA-GFP, mediante l’illuminazione mirata
dei neuroni di proiezione di DA1, ha consentito agli autori di visualizzare i
percorsi individuali di innervazione del corno laterale.
I
ricercatori hanno riscontrato che le branche ventrali delle proiezioni
assoniche dei neuroni DA1 esprimenti fru, nel corno laterale, erano più
dense nei maschi che nelle femmine. Con successivi esperimenti genetici hanno
accertato che le specifiche varianti sessuali di fru erano responsabili
di questa differenza, regolando il dimorfismo sessuale del pattern di
proiezione.
In
particolare, l’espressione di fruM (variante maschile del
gene) nei neuroni di proiezione DA1 e in altri tipi neuronici da identificare,
è richiesta perché si abbia l’arborizzazione ventrale degli assoni nel corno
laterale, tipica del maschio.
Questo
lavoro, oltre ad identificare la base -in passato solo ipotizzata- del diverso
effetto di cVA su maschi e femmine, mostra come l’espressione di fotoproteine
costituisca un metodo straordinariamente efficace per tracciare i collegamenti
di singoli neuroni nel sistema nervoso in vivo.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani per
la correzione della bozza e invita a scorrere l’elenco delle “Note e Notizie”
di questo sito per recensioni di lavori di argomento correlato.
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IL BACIO,
LA SUA FISIOLOGIA E LA SUA ORIGINE
(QUINTA
PARTE)
UN RUOLO CERTO E UN
SIGNIFICATO DA APPROFONDIRE. Aver accertato che la prevalenza laterale nell’osculazione riflette
l’organizzazione neuromotoria dell’atto del baciarsi, non aggiunge molto al
quadro delineato in precedenza e, visto che la funzione di diretto accertamento
della compatibilità genetica espletata dal bacio non è stata ancora dimostrata,
l’attenzione sul valore biologico di questo comportamento si sposta
inevitabilmente altrove. In particolare, si focalizza su un dato certo:
baciarsi è un modo estremamente efficace per la trasmissione di ferormoni.
I ferormoni sono molecole biologiche prodotte da organismi animali e
rilasciate nell’ambiente esterno con funzione di segnale per individui della
stessa specie.
Nei
mammiferi, la ricezione del messaggio veicolato dai ferormoni è in genere
assimilata alla percezione degli odori nelle trattazioni divulgative, ma è
necessario aver presenti alcune differenze fondamentali. I ferormoni sono
composti di dimensioni maggiori di quelli che conferiscono profumo alle essenze
odorose e molti di essi sono inodori, inoltre l’elemento caratterizzante della
loro azione è costituito dall’innesco di risposte emozionali e sessuali, e tali
reazioni non richiedono l’intervento della corteccia cerebrale, a differenza di
quanto accade per la percezione olfattiva.
In generale, si distinguono ferormoni traccianti, che consentono agli animali di essere seguiti; ferormoni di allarme, che inducono uno stato di allerta negli animali che li captano; ferormoni di segnalazione che generano l’assetto funzionale dell’accoppiamento o dell’aggressione; ferormoni innescanti, che producono modificazioni fisiologiche di lungo termine[7][1].
Negli
animali, lo studio delle vie nervose attivate dai ferormoni ha condotto da
tempo al riconoscimento di una struttura specializzata, indipendente dalle
formazioni recettoriali olfattive, detta
organo vomeronasale;
questa formazione possiede un suo piccolo bulbo, accessorio del bulbo
olfattivo, e si collega con l’amigdala ed altri nuclei che mediano risposte
sessuali. Nei roditori, la stimolazione dell’organo vomeronasale mediante
ferormoni, determina la scarica di un flusso di ormoni sessuali nel torrente
circolatorio, ma l’azione non si limita ad effetti di breve termine, perché è
in grado di modulare la frequenza dell’estro, del comportamento riproduttivo e dell’ovulazione.
Alcuni
ricercatori hanno dimostrato un’attività funzionale nell’organo vomeronasale
umano, ma non vi sono prove di un suo effettivo ruolo fisiologico nella
mediazione della risposta ai ferormoni, perciò la maggior parte degli studiosi
ha continuato a considerarlo una struttura vestigiale nella nostra specie fino
alla scoperta, due anni or sono, di nuovi chemosensori che hanno indotto
l’avvio di nuove ricerche tuttora in corso. Si ricorda, in proposito, la nostra
presentazione nel settembre 2006 della scoperta, da parte del Premio Nobel
Linda B. Buck e del suo collaboratore Stephen Liberles, di questa nuova classe
di recettori (TAAR, da trace amino-associated receptor) presenti su cellule
diverse da quelle dell’olfatto ed in grado di legare ferormoni (Note e Notizie 30-09-06 Olfatto:
scoperta una nuova classe di chemosensori): la nostra specie possiede i geni
per almeno sei tipi di TAAR identificati nel topo.
Dunque,
anche se con modalità diverse ed ancora da accertare in dettaglio (si veda: Note e Notizie 31-03-07 Il sesso
e il nervo sconosciuto) la modulazione di funzioni emozionali e sessuali da parte
dei ferormoni è attiva nella nostra specie e, probabilmente, svolge un ruolo
spesso sottovalutato. Sarah Woodley e i suoi collaboratori della Duquesne University
sono impegnati in questi studi ed attribuiscono alle condizioni di scambio
ravvicinato un ruolo nella trasmissione di ferormoni.
D’altra
parte vi sono numerose evidenze della trasmissione di segnali a distanza in
grado di influenzare la regolazione endocrina umana, ed alcune di queste hanno
costituito una traccia storica per la ricerca sulla segnalazione volatile
interindividuale: si pensi al riscontro della tendenza a sincronizzarsi del
ciclo mestruale di tutte le ospiti dei dormitori femminili. Ma, ritornando ai
messaggi chimici uomo-donna, ricordiamo la preferenza emersa in molti studi da
parte delle donne per magliette, da loro annusate, appartenenti ad uomini il
cui sistema immunitario risultava geneticamente compatibile con il loro.
L’androstenolo,
composto presente nel sudore maschile, per la sua azione d’innesco
dell’eccitazione sessuale femminile è incluso nell’elenco dei ferormoni umani e
da tempo impiegato nella ricerca psicologica per valutare le influenze inconsce
sulle preferenze sessuali delle donne. La possibilità che l’androstenolo sia
rilasciato da parte di molte ghiandole, pur in assenza di sudore
macroscopicamente visibile, ne fa un buon candidato al ruolo di messaggero nel
corso dell’osculazione. Alcuni ormoni vaginali delle donne, detti copuline,
possono svolgere un effetto simile, infatti è stato dimostrato che, in qualità
di ferormoni sono in grado di aumentare l’appetito sessuale e innalzare il
tasso di testosterone negli uomini che le abbiano inalate[8][2].
Se
il bacio, dunque, determina una condizione di vicinanza tale da aumentare
notevolmente le possibilità di scambio di messaggi chimici volatili, non è però
indispensabile perché questi raggiungano i recettori, pertanto un suo ruolo
specifico potrebbe consistere nell’aumentare la durata degli scambi
ravvicinati, protraendo una condizione che favorisce un singolo partner
rispetto a tutti gli altri emettitori di ferormoni presenti nell’ambiente.
Questa
funzione è facilitata dal piacere determinato dal bacio stesso, in grado di prolungarne
la durata. Accantonando tutti i fattori psicologici, che peraltro possono
mutare nei casi specifici, una fonte elementare di piacere può essere
costituita dalla particolare forma di percezione tattile delle labbra e della
lingua.
Probabilmente
i dispositivi sensoriali di queste aree hanno un ruolo nel rendere gradevole e
speciale la percezione nell’osculazione rispetto ad altre esperienze sensitive
prossime a questa. Nella rappresentazione somatotopica del corpo nella
corteccia della circonvoluzione post-centrale, le labbra occupano un’area
sproporzionatamente grande, con dimensioni che superano di gran lunga quelle di
qualsiasi altro segmento, in virtù di un’altissima densità di recettori che si
traduce in un numero altrettanto elevato di fibre afferenti. A questa
particolarità anatomica, la cui ragione in chiave evoluzionistica non è ancora
nota, si aggiungono le peculiarità percettive della lingua, che portano a
stimare di dimensioni maggiori di quelle reali gli elementi non altrimenti
percepiti o conosciuti, per effetto di particolari forme di amplificazione del
segnale.
In
conclusione, se il bacio da manifestazione comportamentale del rapporto
madre-figlio evolutasi in funzione della nutrizione e dell’accudimento, è
divenuta una forma di scambio legato all’affettività della coppia, lo si deve
probabilmente ai vantaggi selettivi conseguenti al suo ruolo in funzione della
riproduzione. Se per tale ruolo sembra innegabile il rapporto con i ferormoni e
gli stati funzionali modulati da ossitocina e cortisolo, per conoscere tutti
processi che costituiscono la sua fisiologia e che potranno consentirci di
definirne in dettaglio il valore biologico, si dovrà ancora indagare molto.
L’autrice della nota ringrazia la
dottoressa Floriani per la correzione della bozza e i colleghi del Seminario
Permanente sull’Arte del Vivere.
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NEUROGENESI
INDOTTA DA FERORMONI MASCHILI
Centinaia
di siti internet e di spamming e-mails offrono profumi contenenti
ferormoni che, a loro dire, renderebbero ogni uomo irresistibile alle donne.
L’opinione pubblica, in tutto il mondo, è molto severa sulla vendita di questi
prodotti, non tanto perché se ne metta in dubbio l’efficacia, quanto perché si
ritiene e si spera che le femmine della nostra specie, per scegliere un
partner, abbiano ben altri principi e criteri che un desiderio sessuale
indiscriminato, indotto per inalazione. E’ certo che sulle femmine di topo e
ratto, che non si fanno troppi problemi morali e culturali, l’azione dei
ferormoni maschili funge da vero e proprio condizionamento, influenzando non
solo il comportamento riproduttivo, ma anche alcune funzioni
cerebrali come la memoria sociale.
Proprio
quest’influenza sulle funzioni cognitive dei roditori ha attratto l’attenzione
di molti ricercatori, che hanno provato ad indagare tutte le conseguenze
fisiologiche della stimolazione, attraverso i recettori specifici, da parte dei
messaggeri interindividuali legati al sesso.
La
memoria sociale e il comportamento riproduttivo sono mediati dal bulbo olfattivo e dall’ippocampo, due regioni in cui si verifica
neurogenesi nel cervello adulto: Mak e i suoi collaboratori della Facoltà di
Medicina dell’Università di Calgary (Canada), hanno ipotizzato e riscontrato
che nel cervello di femmine di topo adulto i ferormoni di maschi dominanti
inducono neurogenesi (Mak G. K. et al.
Male
pheromone-stimulated neurogenesis in the adult female brain: possible role in
mating behaviour. Nature Neuroscience 10 (8), 1003-1011, 2007).
I
ricercatori hanno esposto per 7 giorni ad effetti letterecci di maschi
dominanti, femmine di topo iniettate con 5-bromodeossiuridina (BrdU) per
marcare le cellule nervose neoprodotte nel loro cervello. Nel cervello delle
topoline è stato rilevato un incremento di cellule neoprodotte nella zona subventricolare (SVZ), dove nascono i progenitori che
migrano al bulbo olfattivo, e nel giro
dentato dell’ippocampo,
area in cui la neurogenesi sostiene la formazione di nuove memorie.
L’esposizione nelle stesse condizioni a materiali intrisi di escreti e secreti
di maschi castrati, le cui urine non contengono ferormoni, non ha prodotto
effetti neurogenetici.
Per
la produzione di nuovi neuroni, è risultata necessaria l’integrità
dell’epitelio olfattivo delle femmine, confermando la mediazione da parte dei
recettori per i ferormoni presenti sulle cellule di tale tessuto.
L’esperimento
ripetuto con l’influenza di ferormoni di maschi subordinati nella gerarchia
sociale, otteneva effetti di incremento della neurogenesi nella SVZ e nel giro dentato simili, ma di entità decisamente
minore di quella sortita dalle molecole prodotte dai maschi dominanti.
Impiegando
markers per cellule progenitrici e neuroni maturi, i ricercatori hanno
facilmente stabilito che gli elementi cellulari neonati per effetto dei
ferormoni maschili inalati dalle femmine, maturano divenendo cellule adulte
differenziate.
Esperimenti
successivi hanno dimostrato che la neurogenesi indotta nelle femmine dalle
molecole volatili maschili è mediata dall’ormone luteinizzante (LH) nel giro dentato e dalla prolattina (PRL) nel bulbo olfattivo.
Il
significato funzionale dell’effetto neurogenetico (per
questo argomento si vedano: Note e Notizie 08-09-07
L’esercizio fisico genera neuroni nell’ippocampo; Note e Notizie 22-09-07 Esercizio
fisico per la memoria spaziale) è stato messo alla prova mediante esperimenti di
“preferenza sociale”, i quali hanno dimostrato che le femmine preferivano i
maschi i cui ferormoni avevano indotto in loro neurogenesi, e che tali effetti
non si verificavano nelle femmine con difetto genetico di PRL o trattate con un
bloccante delle mitosi.
In
conclusione, i risultati di questa ricerca suggeriscono che la neurogenesi da
ferormoni può avere un ruolo nella selezione del partner, accrescendo la
memoria e la risposta alle molecole cui le femmine sono state esposte, ma
secondo la prevalenza gerarchica dei ferormoni dei maschi dominanti.
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UN FERORMONE CHE FAVORISCE LA COPULA E SCORAGGIA I RIVALI
E’
noto e studiato da molto tempo il ruolo dei ferormoni nel corteggiamento e
nell’accoppiamento di varie specie animali. L’importanza di queste molecole
nella nostra specie è stata apprezzata più di recente, anche grazie alla
scoperta di una nuova classe di recettori e ai nuovi studi sulla fisiologia del
nervo terminale (Note e Notizie 30-09-06 Olfatto:
scoperta una nuova classe di chemosensori; Note e Notizie 31-03-07 Il sesso
e il nervo sconosciuto).
I
processi che mediano gli effetti dei ferormoni sembrano seguire un paradigma
generale comune a tutte le specie, tuttavia i meccanismi molecolari della loro
azione sono in gran parte ignoti, perciò appaiono di estremo interesse le nuove
acquisizioni ottenute in questo campo da tre gruppi di ricerca indipendenti.
Queste
ricerche hanno focalizzato l’attenzione su un ferormone maschile del moscerino
della frutta e dell’aceto, Drosophila
melanogaster, il quale sembra attrarre le femmine e respingere gli altri
maschi che lo percepiscono. Si tratta dell’11-cis-vaccinil-acetato (cVA),
composto volatile prodotto dai maschi e trasferito alle femmine durante la
copula, con il risultato di un effetto anti-afrodisiaco esercitato sui
moscerini di sesso maschile che, percependolo, sono inibiti. In tal modo il cVA
previene il corteggiamento di femmine che si sono già accoppiate.
I
ferormoni sono rilevati da neuroni specializzati dell’epitelio olfattivo che,
in genere, esprimono un solo tipo di recettore, perciò i ricercatori hanno
lavorato per identificare il tipo di cellula nervosa che con il suo recettore
risponde specificamente a cVA.
Dickinson
e i suoi collaboratori hanno studiato il recettore OR67D, che può conferire
sensibilità a cVA quando ectopicamente espresso nei neuroni olfattivi
specializzati (Kurtovic, Widmer &
Dickson, A single class of olfactory neurons mediates behavioural responses to
a Drosophila sex pheromone. Nature 446, 542-546, 2007; per un commento si veda la
discussione editoriale: Nature 446, 502-504, 2007).
I
ricercatori hanno creato moscerini transgenici che non esprimono il gene Or67d e ne hanno monitorato il
comportamento relativo al corteggiamento. I mutanti corteggiavano altri maschi
con una frequenza maggiore del solito, ma continuavano normalmente a
corteggiare le femmine vergini come i moscerini geneticamente naturali. La
mutazione, però, sembrava ridurre la propensione delle femmine ad accoppiarsi.
Per
verificare se gli effetti noti del cVA siano mediati dal recettore OR67D, è
stato cosparso l’addome delle femmine con il ferormone: i maschi normali non
tentavano più l’accoppiamento, mentre quelli mutanti non percepivano il segnale
inibitorio e tentavano ugualmente di accoppiarsi.
Questo
esito della sperimentazione sembra dimostrare che OR67D è necessario e
sufficiente per mediare l’azione di cVA consistente nel promuovere
l’accoppiamento nelle femmine ed inibire il comportamento riproduttivo in altri
maschi.
Lo
studio condotto da van der Goes van Nanters e Carlson complica ed arricchisce
il quadro. Questi ricercatori hanno testato vari ferormoni, incluso cVA, per
individuarne i recettori. A tale scopo hanno impiegato un sistema in cui i geni
dei recettori endogeni di un particolare neurone sono sostituiti con quelli dei
recettori da testare. Per vedere quali recettori avrebbero risposto, hanno
posto le molecole in un capillare che è stato accostato alle antenne di
moscerini maschi e femmine.
Il
risultato è interessante perché ha dimostrato che, accanto a OR67D, anche
l’espressione di OR65A è in grado di conferire la capacità di mediare gli
effetti di cVA (van der Goes van Nanters
& Carlson, Receptors and Neurons for fly odors in Drosophila. Curr Biol.
17, 606-612, 2007).
Più
sopra abbiamo fatto riferimento all’inibizione del comportamento riproduttivo
indotto nel maschio dalla percezione di cVA sul corpo di una femmina, a questo
bisogna aggiungere che, quando un maschio vede frustrato il suo tentativo di
copula con una femmina già accoppiata, non proverà più ad accoppiarsi con altre
femmine. Tale fenomeno, convenzionalmente definito “memoria generalizzata”, è
attribuito all’ipotetica azione di un ferormone che genera avversione.
Griffith
e collaboratori hanno cercato di identificare la base cellulare e molecolare di
questa memoria generalizzata. A tale scopo hanno confrontato estratti ottenuti
da femmine vergini e già accoppiate, riscontrando nelle seconde tassi più alti
di cVA. La presenza di questo ferormone sessuale nella test-chamber era
in grado da sola di determinare nel maschio la formazione della memoria
generalizzata. I ricercatori hanno allora cercato di stabilire quali cellule
fossero indispensabili per questo apprendimento. Gli esperimenti hanno mostrato
che i neuroni esprimenti il recettore OR65A per cVA erano indispensabili per il
formarsi della memoria generalizzata (Ejima
A., et al. Generalization of courtship learning in Drosophila is mediated by
cis-vaccinil acetate. Curr Biol. 17, 599-605, 2007).
Si
può perciò desumere, dall’insieme delle tre ricerche, che l’azione di cVA
favorente l’accoppiamento sia mediata da OR67D, mentre quella che lo inibisce
sia tradotta da OR65A.
L’autrice della nota ringrazia il
presidente di BM&L-Italia con il quale ha discusso l’argomento trattato, ed
Isabella Floriani per la correzione della bozza.
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IL SESSO E
IL NERVO SCONOSCIUTO
Se
provate a chiedere a un neurologo quali siano i nervi cranici, molto
probabilmente vi elencherà le dodici paia di nervi che emergono dall’encefalo
e, magari, vi spiegherà che diagnosticarne la patologia costituisce una parte
non secondaria del suo lavoro. Provate a chiedergli di un nervo cranico numero zero o nervo terminale e, quasi sicuramente, vi dirà che
non esiste o che non lo conosce. Non gli si può fare di ciò una colpa, perché
il nervo così denominato che percorre la superficie inferiore dei lobi frontali
medialmente al nervo olfattivo, non è ancora descritto nella maggior parte dei
trattati di anatomia, forse a causa del mancato riconoscimento da parte degli
anatomisti del passato e di decenni di incertezze nell’attribuzione di un ruolo
funzionale indipendente.
Infatti,
mentre i nervi cranici canonici erano già conosciuti dai medici dell’antica
Grecia, e in Galeno (129-210 d.C.) ne troviamo una descrizione prossima a
quella della neuroanatomia macroscopica attuale, l’esile e fragile filo nervoso
terminale è rimasto sconosciuto fino a poco più di un secolo fa, perché nelle
dissezioni era invariabilmente asportato con le meningi.
E’
interessante notare che all’ipotesi dell’esistenza di questo nervo nella nostra
specie si è giunti per gradi. Nel 1878 Gustav Fritsch lo isolò per la prima
volta in un pescecane e, all’epoca, si ipotizzò che fosse una peculiarità di
pesci e mammiferi acquatici. Nei decenni successivi, molti studiosi provarono
ad isolarlo nelle specie più varie, col risultato del reperimento in quasi
tutti i vertebrati sottoposti a dissezione accurata. Non era ragionevole,
dunque, che mancasse nei primati, e perciò si decise di accertarne l’esistenza
nella nostra specie, sebbene alcuni scettici vi si opponessero argomentando che
se fosse esistito nel cervello umano non sarebbe sfuggito ai tanti valenti
anatomisti delle tre grandi scuole europee, ossia la francese, l’italiana e la
tedesca. Dopo la prima decade del Novecento, gli sforzi furono coronati da
successo e, nel 1913, si ebbe la prima descrizione scientificamente ratificata
del nostro tredicesimo nervo cranico.
Superato
l’ostacolo dell’identificazione, coloro che credevano nell’utilità di studiare
questo fascicolo di assoni, dovettero affrontare il problema del
riconoscimento. La maggior parte dei medici anatomisti e dei neurologi,
infatti, non accettava l’idea che a questo sottile filo nervoso si potesse
attribuire un’identità morfo-funzionale da nervo encefalico, adducendo varie
motivazioni e sollevando problemi che si possono riassumere nel modo seguente:
i 12 nervi spiegano i cinque sensi speciali e tutta la senso-motricità
cranio-facciale, quale sarebbe la funzione del tredicesimo?
Oltre
all’assenza di un ruolo fisiologico definito, un altro elemento di resistenza
al riconoscimento dell’identità di questa struttura nervosa, era costituito
dalla sua posizione. Infatti, la sua inclusione nel novero dei nervi
dell’encefalo, nel rispetto del rigoroso criterio topografico universalmente
adottato, avrebbe comportato il cambiamento dell’indicazione delle dodici paia,
costituito dal numero d’ordine che indica i nervi in perfetta successione
rostro-caudale. In altre parole, il nervo
terminale si sarebbe
dovuto indicare come I paio al posto del nervo olfattivo, il
quale avrebbe assunto la denominazione di
II paio, con la quale
si indica il nervo ottico, e così via, fino all’ipoglosso che sarebbe divenuto
il tredicesimo[9][1].
In
anatomia comparata si decise di adottare la definizione internazionale di
“nerve zero” o “terminal nerve” impiegata in zoologia marina.
Probabilmente
questi fattori hanno giocato un ruolo non secondario nell’indurre molti
studiosi ad accettare l’ipotesi che questo nervo “scomodo” non fosse altro che
un ramo del nervo olfattivo, pur in assenza di prove effettive e decisive al
riguardo.
Il
neurobiologo R. Douglas Fields, l’anatomista Leo Demski e il veterinario Sam
Ridgway, ebbero l’occasione di accertare l’esistenza di una funzione olfattiva
del nervo terminale studiando una balena pilota, morta per cause naturali (si
veda: Leo S. Demski, Terminal Nerve in Enciclopedia of Neuroscience. Third
Edition. Edited by George Adelman & Barry H. Smith. Elsevier 2004).
Le
balene, come i delfini, presentano sulla sommità del capo uno sfiatatoio dal
quale emettono vapori condensati con quel caratteristico getto che le rende
immediatamente riconoscibili. I biologi marini hanno ricostruito l’evoluzione
della balena da mammiferi acquatici in grado di respirare mediante narici
facciali, alle quali era strettamente connessa l’organizzazione rinencefalica
ed olfattiva tipica dei mammiferi terrestri. Nel corso di milioni di anni, le
cavità aeree di balene e delfini sono andate incontro ad un progressivo
spostamento verso l’alto, decisamente più vantaggioso per lo sfiato nell’aria,
e ad una progressiva perdita del senso dell’olfatto, accompagnata dalla
scomparsa del nervo olfattivo.
Fields
e colleghi, dunque, ritennero lo studio della balena un test molto
significativo, perché se il nuovo nervo cranico fosse stato solo un ramo del
nervo olfattivo, non sarebbe dovuto esistere nella balena.
La
cauta ed accurata asportazione della membrana leptomeningea da parte di Demski rivelò
due formazioni sottili e bianche che, dal cervello anteriore, si dirigevano
verso l’area dello sfiatatoio (R. Douglas
Fields, Sex and the secret nerve. Sci Am Mind 18 (1): 20-27, 2007).
La
presenza del nervo terminale nella balena consentiva di escludere una sua
funzione olfattiva e una sua dipendenza anatomica dal nervo dell’odorato e,
soprattutto, portava ad una conclusione tanto semplice quanto significativa:
qualunque sia il suo ruolo fisiologico, deve essere più importante dell’olfatto
per un cetaceo e tanto rilevante da essere conservato dalla selezione naturale
nei vertebrati filogeneticamente più vari e distanti.
Tali
considerazioni convergevano con quelle di altri studiosi e conducevano sulla
pista della fisiologia della riproduzione. L’associazione fra attività sessuale
e funzione dell’olfatto, così come il grande sviluppo del rinencefalo in molti
mammiferi, si può semplicemente spiegare con la priorità temporale che ha avuto
questo senso nel corso della filogenesi (si veda: G. Perrella et al., in
“Seminari del Cognitive Science Club”, 1990-1992). Il processo su cui si
basa l’olfatto, ossia rilevare molecole dell’ambiente associando loro una
risposta (associazione di un valore che, nell’evoluzione, diventa attribuzione
di un significato), costituisce la modalità sensoriale filogeneticamente più
antica, che ha un antecedente addirittura nei batteri. Nei primi animali
sessuati, l’attività automatica di saggio e vaglio di molecole esterne era ben
presente, e si è sviluppata al servizio delle due principali spinte selettive:
sopravvivenza e riproduzione.
Esattamente
vent’anni fa, nel 1987, Celeste Wirsig resecò il nervo terminale in criceti
maschi e rilevò che gli animali presentavano la stessa efficienza di quelli di
controllo nel trovare, mediante la percezione dell’odore, un biscotto nascosto;
la loro capacità di accoppiamento, però, risultava notevolmente compromessa.
Risultati accostabili a quelli di Wirsig si erano ottenuti nei pesci e, in
particolare, si cita spesso l’esperimento di Northcutt e Demski nel pesce
rosso: inviando una leggera scarica elettrica al nervo zero di un maschio,
senza stimolare il nervo olfattivo, si aveva l’istantaneo rilascio di sperma.
Il
collegamento con l’attività sessuale appariva evidente, ma rimaneva da stabilire
il nesso biologico.
Le
risposte della ricerca non si sono fatte attendere, e sono giunte dall’anatomia
e dalla biochimica.
Come
il nervo olfattivo, il nervo zero presenta terminazioni nelle cavità nasali, ma
le sue fibre afferenti si dirigono verso il setto e l’area preottica, dove
formano sinapsi con i neuroni dei nuclei
settali mediali e laterali, e con le cellule nervose dei tre nuclei preottici: periventricolare, mediale e laterale. Queste regioni cerebrali, nei
mammiferi, sono state messe in rapporto con eventi cruciali della fisiologia
riproduttiva, quali l’attrazione e la ricerca del partner, la
motivazione sessuale e l’innesco dell’assetto copulatorio. Infatti, i neuroni
di queste aree, oltre ad intervenire nella sete e nella fame quando si presentano
come bisogno urgente, controllano il rilascio di ormoni sessuali (in
particolare alte quote di GnRH). I nuclei del setto sono collegati mediante
innervazione reciproca (bidirezionale o rientrante) con l’amigdala,
l’ippocampo e l’ipotalamo, e il loro danno sperimentale
causa alterazioni nel comportamento sessuale ed altri squilibri funzionali che
si esprimono soprattutto con reazioni aggressive e disturbi della regolazione
neurovegetativa dell’assunzione di cibo ed acqua.
Un ultimo dato anatomico interessante, ma che non ha ancora trovato una
spiegazione se non ipotetica, è costituito dalle connessioni del nervo
terminale con la retina.
I ferormoni, composti di dimensioni maggiori di quelli che
conferiscono profumo alle essenze odorose, sono noti per l’azione di innesco di
risposte emozionali e sessuali[10][2]. Non è superfluo precisare, anche perché
in molte trattazioni divulgative sono assimilati a stimoli odorosi, che vari
tipi di ferormoni non hanno alcun odore e possono esercitare il loro effetto di
attrazione sessuale senza interessare la corteccia cerebrale. Traslando questo
dato alla realtà umana, si può osservare che la loro azione mediata dal nervo
terminale, a differenza di quanto accade per ogni olezzo, lezzo o fragranza che
superi la soglia fisiologica, non raggiunge la coscienza e si può rendere
responsabile di quelle condizioni in cui proviamo attrazione fisica per
qualcuno, indipendentemente dai suoi requisiti estetici e dalle nostre
preferenze.
E’
importante rilevare che, negli animali, lo studio delle vie nervose attivate
dai ferormoni ha condotto da tempo al riconoscimento di una struttura
specializzata, indipendente dalle formazioni recettoriali olfattive, detta organo vomeronasale; questa formazione possiede un suo piccolo bulbo,
accessorio del bulbo olfattivo, e si collega con l’amigdala ed altri nuclei che
mediano risposte sessuali. Nei roditori, la stimolazione dell’organo
vomeronasale mediante ferormoni, determina la scarica di un flusso di ormoni
sessuali nel torrente circolatorio, ma l’azione non si limita ad effetti di
breve termine, perché è in grado di modulare la frequenza dell’estro, del comportamento riproduttivo e dell’ovulazione.
Alcuni
ricercatori hanno dimostrato un’attività funzionale nell’organo vomeronasale
umano, ma non vi sono prove di un suo effettivo ruolo fisiologico nella
mediazione della risposta ai ferormoni, perciò la maggior parte degli studiosi
continua a considerarlo una struttura vestigiale nella nostra specie, e a
rivolgere la sua attenzione alle connessioni del nervo terminale.
A
settembre dello scorso anno, Diane Richmond presentava ai soci di BM&L la
scoperta, da parte del Premio Nobel Linda B. Buck e del suo collaboratore
Stephen Liberles, di una nuova classe di recettori (TAAR, da trace
amino-associated receptor) presenti su cellule diverse da quelle
dell’olfatto ed in grado di legare ferormoni (Note e Notizie 30-09-06 Olfatto:
scoperta una nuova classe di chemosensori)[11][3]. La Buck ha rilevato che la nostra specie
possiede i geni per almeno sei tipi di TAAR identificati nel topo.
Le
connessioni anatomiche e la mediazione della segnalazione dei ferormoni,
dovrebbero essere sufficienti per tratteggiare un profilo funzionale del nervo
terminale e giustificare nuove ricerche, ma il quadro è ulteriormente definito
da nuovi dati provenienti dall’embriologia.
L’abbozzo
del nostro nervo compare in un’epoca precoce dello sviluppo ed ha un ruolo
rilevante nell’embriogenesi neuroendocrina: tutti i neuroni del proencefalo che
produrranno GnRH usano la traccia del nervo zero fetale come direttrice di
migrazione per trovare la sede di destinazione cerebrale. Se i neuroblasti non
possono seguire tale via, si avrà nell’adulto la sindrome di Kallmann
caratterizzata da deficit dell’odorato ed impossibilità di sviluppo sessuale
oltre la pubertà.
Gli
studi fin qui condotti ci offrono, ormai, chiare evidenze che ci consentono di
affermare che il nervo terminale è parte di quell’insieme di strutture
cerebrali preposte al controllo neuroendocrino della riproduzione e, in
particolare, sembra contribuirvi creando un adattamento fondato sull’attualità
dei contatti e dei rapporti con individui dell’altro sesso.
Concludiamo
questa breve trattazione con un affascinante interrogativo.
Il
nervo terminale non è solo una struttura di ricezione, ma invia segnali diretti
all’esterno del cervello: quale sarà il loro significato?
Gli autori della nota ringraziano
Diane Richmond con la quale hanno discusso l’argomento trattato, ed Isabella
Floriani che ha collaborato nel riassumere un testo originariamente molto più
lungo.
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IMPARARE A
SENTIRE IL PROFUMO DELLE ROSE
Fra i sensi speciali, l’olfatto è rimasto il più misterioso e negletto soprattutto perché, non essendo alterato in patologie numerose ed invalidanti come la vista e l’udito, non ha attratto l’interesse e i capitali della ricerca medica, rimanendo relegato nella cultura collettiva al ruolo di curiosità scientifica da documentario televisivo o da articoli divulgativi per ragazzi. Eppure, per vari motivi, lo studio di questo senso ha avuto spesso un ruolo cruciale nella ricerca neuroscientifica. Basti pensare che nei mammiferi l’olfatto propone il rapporto anatomico più stretto ed immediato fra recettore e corteccia cerebrale e, in un certo senso, fra cervello e mondo esterno; il mezzo più sicuro per interpretare la segnalazione legata all’accoppiamento, perché le molecole odorose sono rilasciate dalle femmine nella fase recettiva dell’estro e non sono segnali presenti anche in altri periodi come quelli visivi; e, infine, un modello di informazione sensoriale direttamente integrata con un'altra (gusto) e prevalentemente agente sul comportamento attraverso processi non coscienti.
L’Italia ha avuto un’antesignana in questo campo di studi in Eleonora Giorgi, molto meno nota dell’attrice cinematografica sua omonima ma, a nostro avviso, ben più meritevole. La Giorgi, seguendo il codice di odori di Hainer e colleghi, è stata fra i primi ricercatori al mondo ad applicare modelli matematici allo studio della percezione delle molecole odorose. Da questi studi degli anni Settanta, si giunge alla prima applicazione della teoria del caos al cervello da parte di Skarda e Freeman (1987), basata proprio sul senso dell’olfatto.
Più recentemente, con l’assegnazione del premio Nobel nel 2004 a Richard Axel e Linda Buck che hanno individuato una vasta famiglia di geni dei recettori dell’olfatto e definito alcuni principi della fisiologia di questo senso, la percezione degli odori è definitivamente uscita dall’ombra delle aree di studio di minore importanza (Note e Notizie 06-10-04 Premio Nobel a Richard Axel e Linda B. Buck per la genetica e la fisiologia dell’olfatto).
Nonostante i notevoli progressi che sono stati compiuti da quando si definiva la necessità di ripartire lo studio in quattro distinti livelli (molecolare, neurale, psicofisico e comportamentale), molti ricercatori impostano i loro lavori assumendo che la qualità dell’odore possa essere interamente desunta dalla struttura chimica della molecola odorosa, senza tener conto che gli studi condotti nell’uomo hanno dimostrato che la conoscenza molecolare non è sufficiente per definire la qualità dell’odore. Infatti, lo stesso input olfattivo può generare percezioni diverse, dipendenti dall’apprendimento e dalle esperienze precedenti. Li, Luxemberg, Parrish e Gottfried, combinando l’esame mediante risonanza magnetica nucleare ad un paradigma di apprendimento percettivo, hanno osservato come l’esperienza sensoriale modifichi la percezione dell’odore e la sua codifica nel cervello umano (Learning to smell the roses: experience-dependent neural plasticity in human piriform and orbitofrontal cortices. Neuron 52, 1097-1108, 2006).
Il lavoro, che nel suggestivo titolo (Learning to smell the roses) anticipa l’importanza dell’apprendimento nell’esperienza percettiva del singolo, ha rilevato che, l’esposizione prolungata ad un profumo-target, aumenta sia la capacità di riconoscere odori a questo simili per caratteristiche qualitative, sia la capacità di riconoscere molecole appartenenti allo stesso gruppo funzionale del target. Negli esperimenti, all’accresciuta abilità di discriminazione olfattiva, faceva riscontro un aumento di risposte indotte da apprendimento nella corteccia piriforme ed orbito-frontale. In particolare si è rilevato che l’ampiezza dell’attivazione della corteccia orbito-frontale consentiva di prevedere un miglioramento nella prestazione alla successiva prova di discriminazione.
Un dato particolarmente interessante che emerge da questo studio, è che la rappresentazione neurale della qualità dell’odore può essere rapidamente modificata per effetto dell’esperienza, come in un processo di aggiornamento del codice tanto efficiente e veloce da non avere apparentemente uguali.
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UOMINI CHE
FIUTANO UNA PISTA COME CANI
Bisogna
riconoscere che, per una volta, i mass media hanno fatto buona
informazione in tema di scienza, anche se non si tratta di media di casa
nostra, ma di quelli inglesi ed americani.
Secondo
un vecchio adagio giornalistico, un cane che morde un uomo non fa notizia, ma
se un uomo morde un cane è da prima pagina; pertanto i risultati di una ricerca
che ha messo alla prova esseri umani in un’abilità tipicamente canina, per la
BBC e il Chicago Tribune, avevano i requisiti canonici ed esemplari di
quel colpo a sensazione che, in tutto il mondo, è indicato con la parola
inglese scoop.
Lo
scorso giovedì primo febbraio 2007, il gruppo di BM&L-Italia che studia i
sensi speciali, ha discusso sia i dati emergenti dalla sperimentazione sul
fiuto umano, sia la maniera in cui tali dati sono stati presentati e diffusi al
pubblico di lingua inglese nel mese di dicembre dell’anno appena trascorso (Leonie Welberg, Follow your nose. Nature Reviews
Neuroscience 8, 88, 2007).
Come
i cani, i volontari hanno mostrato di essere in grado di seguire la pista di
una traccia odorosa usando un pattern a zig-zag, e di acquisire,
dopo pochi giorni di pratica, maggiore efficienza e velocità nella prestazione.
Peter
Brennan, dell’Università di Bristol, ha rilevato che, sebbene la capacità dei
bambini di orientarsi seguendo l’odore della madre sia nota, non era mai stata
dimostrata scientificamente l’abilità di membri adulti della nostra specie, di
seguire una pista sulla base di una traccia profumata (BBC News Online, 18
dicembre 2006).
Le
prestazioni dei volontari erano migliori quando questi potevano usare entrambe
le narici, pertanto si è ipotizzato che l’impiego delle narici in coppia
consenta al cervello di rilevare quale delle due narici sia più vicina
all’odore, e ricavare da questa informazione un dato sulla direzione da
seguire. Neil Vickers, dell’Università dello Utah, ha dichiarato in proposito a
Scientific American: “Questa è la prima evidenza che c’è una qualche
separazione spaziale fra l’aria inalata dalle due narici, e che questa
differenza spaziale possa costituire un’informazione sulla via da seguire” (ScientificAmerican.com,
18 dicembre 2006).
Una
componente stereo-spaziale dell’informazione odorosa è stata dimostrata in
altri animali, ed alcuni ricercatori, come lo studioso di fisica sensoriale
Matthias Laska dell’Università svedese di Linköping, sostengono che esista un
unico meccanismo, dagli insetti all’uomo, per la localizzazione degli odori (NewScientist.com,
17 dicembre 2006).
L’abilità
di orientamento spaziale legata al senso dell’olfatto è stata ed è oggetto di
numerosi studi, ma i risultati di questa ricerca le conferiscono un rilievo del
tutto nuovo nella nostra specie, al punto che si ipotizza un ruolo fisiologico
nella vita quotidiana, non ancora conosciuto, perché verosimilmente legato ad
automatismi non coscienti. E’ possibile che l’orientamento verso una meta possa
impiegare come meccanismo accessorio l’olfatto e che, il prevalente sviluppo
nel corso della filogenesi delle elaborazioni visive a questo scopo, abbia reso
quasi superflue le informazioni spaziali olfattive, con una riduzione dei collegamenti
fra corteccia olfattiva piriforme e strutture corticali alla base della
coscienza.
Peter
Brennan ha auspicato che si studi il ruolo dell’olfatto nella capacità di
orientamento delle persone non vedenti, per accertarne le caratteristiche ed
esplorarne le eventuali differenze con le persone dalla vista normale.
Concludiamo
con un sorriso, suscitatoci dalle parole di Jay Gottfried della Northwestern
University di Chicago, il quale ha terminato il suo commento per il Chicago
Tribune, proclamandosi certo che, nonostante le superiori potenzialità
dimostrate in questa ricerca, per il momento l’uomo non sostituirà il cane
nella caccia alla volpe.
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OLFATTO:
SCOPERTA UNA NUOVA CLASSE DI CHEMOSENSORI
Il
ruolo dell’olfatto nella nostra vita quotidiana non è paragonabile nemmeno alla
lontana a quello della vista e dell’udito, ed è senz’altro inferiore anche a quello
del gusto. Eppure, sono a tutti note le potenzialità di questo senso grazie a
quei casi sensazionali di esperti in grado di riconoscere e distinguere, solo
annusandoli, centinaia di tipi di formaggi, profumi, vini, ecc. Sono
sufficienti piccoli differenze fra le molecole in grado di stimolare l’epitelio
olfattivo perché si possano percepire odori diversi. L’esempio più citato in
proposito è quello delle due forme isomeriche del carvone:
l’L-stereoisomero profuma di menta e il D-stereoisomero dà odore al comino (Cuminum
cyminum), impiegato come aroma nella preparazione di cibi e liquori (Kümmel).
La
base molecolare di un così elevato potere discriminativo è stata identificata
nei circa 1000 membri della famiglia dei recettori degli odori espressi dai neuroni
olfattivi. Una tale abbondanza di mezzi per questa modalità percettiva è in
genere spiegata in chiave evoluzionistica come vestigia dell’antica importanza
dell’olfatto nei nostri predecessori ancestrali.
Recentemente
è stato dimostrato che i neuroni olfattivi sono in grado di rispondere anche a
molecole, quali piccoli peptidi, che non si legano a tali recettori (si veda: Note e Notizie 08-04-06 Il fiuto
per il partner richiede geni immuni). Su questa base è stata postulata l’esistenza di un tipo
recettoriale indipendente da quelli già noti.
Linda
B. Buck e Liberles descrivono una nuova classe di recettori chemosensoriali
amino-associati, espressi in una piccola popolazione di neuroni sensoriali
olfattivi che non presentano i recettori classici (Liberles S. D. & Buck L. B., A second class of
chemosensory receptors in the olfactory epitelium. Nature 442, 645-650,
2006).
Linda
B. Buck, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, ha ricevuto il
premio Nobel per la Medicina con Richard Axel nel 2004, proprio per quello
straordinario lavoro che diede un contributo decisivo all’identificazione ed
alla descrizione di circa mille geni implicati nel controllo dei recettori dell’olfatto, alla caratterizzazione di questa vasta classe di proteine
e dei meccanismi molecolari di questa modalità percettiva (Note e Notizie 06-10-04 Premio
Nobel a Richard Axel e Linda B. Buck per la genetica e la fisiologia
dell’olfatto).
Alla
nuova famiglia di recettori olfattivi, i cui geni sono stati riscontrati
nell’uomo, nel topo e nei pesci, è stato dato il nome di “trace-amine associated receptors” (TAAR) perché verosimilmente in grado di
rispondere a stimoli rappresentati da “tracce” di altri animali. Almeno tre
tipi di TAAR, individuati nel topo, si sono
mostrati in grado di rilevare la presenza di amine volatili presenti nelle
urine e persistenti nell’aria: un tipo è in grado di rilevare un composto
correlato allo stress, mentre gli altri due rilevano molecole
maggiormente concentrate nelle urine del maschio; una di queste molecole è nota
come ferormone del topo.
Proprio
lo specifico riconoscimento di ferormoni, che in molte specie veicolano
messaggi di attrazione sessuale di fondamentale importanza per il successo
riproduttivo, supporta l’ipotesi di una funzione chemosensoriale distinta,
filogeneticamente più primitiva ed associata alle interazioni sessuali e
sociali degli animali.
L’autrice della
nota ringrazia Isabella Floriani per la collaborazione nella stesura del testo.
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IL FIUTO
PER IL PARTNER RICHIEDE GENI IMMUNI
Peptidi
del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) sono riconosciuti da neuroni
olfattivi e trasmettono informazioni impiegate per prendere decisioni nei
comportamenti sociali, secondo quanto emerso da una ricerca condotta sui topi
da Spehr e collaboratori (Essential role
of the main olfactory system in social recognition of major histocompatibility
complex peptide ligands. Journal of Neuroscience 26, 1961-1970, 2006).
Era
già stato accertato che i geni dell’MHC nei vertebrati, oltre al ben noto ruolo
in relazione alla risposta immune, sono in grado di influenzare funzioni
governate dal sistema nervoso centrale, quali la scelta del partner per
l’accoppiamento e vari aspetti del comportamento sociale, ma il lavoro del
gruppo di Spehr ha identificato un processo ritenuto impossibile alla luce
delle attuali conoscenze di fisiologia dell’olfatto, aprendo una nuova via per
la ricerca.
Due
strutture sensoriali, anatomicamente e fisiologicamente distinte, consentono ai
topi e ad altri roditori di rilevare segnali chimici elaborando risposte
specifiche: 1) l’epitelio olfattivo
principale,
equivalente alla regio olfactoria umana o epitelio dell’olfatto,
contenente le cellule sensoriali specifiche e 2)
l’organo vomero-nasale di Jacobson, in passato messo in relazione con la funzione gustativa e
con quella del corpo pineale. Attualmente si ritiene che l’epitelio olfattivo
sia in grado di rilevare solo molecole odorose volatili, mentre l’organo
vomero-nasale risponda al contatto diretto con una fonte di segnali chimici
socialmente rilevanti, effettuando una trasduzione per i sistemi neuronici
encefalici cui è collegato.
Gli
autori di questa ricerca hanno mostrato che durante situazioni di contatto
fisico diretto, implicanti il leccarsi e l’annusarsi, molecole non volatili ottenevano accesso
all’epitelio olfattivo principale. La registrazione di potenziali di campo locali ha
mostrato una rilevante sensibilità per bassissimi livelli di peptidi non
volatili dell’MHC, estesamente distribuita su tutta la superficie sensoriale
della mucosa; negli esperimenti di controllo con peptidi mutati non si
generavano risposte elettriche comparabili.
Gli
esperimenti volti ad identificare il meccanismo molecolare alla base di questo
processo, hanno rilevato la necessità di una segnalazione mediata dal cAMP perché i peptidi dell’MHC possano dar luogo ai potenziali di campo
osservati.
Lo
studio sui topi in vivo ha dimostrato il ruolo dei peptidi
dell’istocompatibilità nelle scelte sessuali dei maschi. Annusando urine di
femmine diverse i maschi esprimono preferenze ben definite: l’aggiunta di
peptidi MHC si è rivelata in grado di determinare la scelta, inducendo a
preferire anche femmine di una razza diversa. La preferenza influenzata dai
peptidi non volatili si riscontrava anche nei maschi privati della funzione
dell’organo vomero-nasale di Jacobson, confermando una mediazione pura da parte
delle cellule olfattive primarie. La preferenza indotta dai peptidi non
volatili non si manifestava nei maschi mancanti dei canali cationici olfattivi
dipendenti dai nucleotidi ciclici. Ripetendo gli esperimenti secondo un
“paradigma volatile” non è stato possibile influenzare le scelte dei topi,
ottenendo un’ulteriore prova dell’identificazione di una nuova modalità di
segnalazione nelle scelte sessuali e sociali.
L’autrice della nota ringrazia
Isabella Floriani per la correzione della bozza.
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PREMIO NOBEL A RICHARD AXEL E LINDA B. BUCK PER
LA GENETICA E LA FISIOLOGIA DELL’OLFATTO
Richard Axel e
Linda B. Buck sono
stati insigniti del Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina
2004.
Nel
1991 Axel e Buck pubblicarono insieme i risultati di una straordinaria ricerca
che dava un contributo decisivo all’identificazione ed alla descrizione di una
vasta famiglia di geni implicati nel controllo dei recettori dell’olfatto.
La
scoperta di questi geni, complessivamente stimati in circa un migliaio, andava
ben oltre l’interesse puramente genetico, perché gettava le basi per la
comprensione dei meccanismi fisiologici
della percezione degli odori.
Proprio
alla comprensione di questi meccanismi, Richard Axel dell’Howard Hughes Medical
Institute presso la Columbia University a New York e Linda B. Buck del Fred
Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, lavorando indipendentemente, si
sono dedicati negli anni successivi.
Il
loro lavoro ha contribuito in maniera decisiva alla comprensione del
funzionamento di tutto il sistema olfattorio dal livello molecolare a quello
cellulare. Esemplare a questo proposito la conferenza dal titolo “The Logic of Smell”, tenuta dalla Buck il 7 dicembre 2001 al Simposio dei Nobel (è stata davvero di “buon augurio”!) che si può ascoltare
scaricandola dal sito ufficiale della Fondazione Nobel (http://nobelprize.org/medicine/laureates/2004/buck-symp.html).
Axel,
intervistato alla radio svedese, dopo aver esternato la sua felicità ha detto
che non aveva mai pensato alla possibilità di vincere il premio Nobel con il
suo lavoro.
Nella
motivazione del premio si legge: “Il
senso dell’odorato è rimasto a lungo il più enigmatico dei nostri sensi. I
principi di base per il riconoscimento ed il ricordo di circa 10.000 odori
diversi non erano compresi.” Il prof. Sten Grillner del “Panel per il Nobel” del Karolinska
Institute continua: “Fino agli studi di
Axel e Buck il senso dell’odorato era un mistero”.
Nel
mese di maggio di quest’anno (vedi Note e
Notizie 04-05-04 “Olfatto e gusto: presentata la
seconda edizione del celebre manuale”) durante la presentazione dell’Handbook of Olfaction and
Gustation (Handbook of Olfaction
and Gustation. Neurological Disease and Therapy. Second edition. Edited by
Richard L. Doty. 1121 pp., illustrated. New York, Marcel Dekker, 2003. $250. ISBN 0-8247-0719-2), Giuseppe Perrella e Giovanni Rossi hanno
illustrato in sintesi il lavoro di Axel e Buck, sottolineandone la portata per
l’intero campo delle neuroscienze.
Il
valore del premio va ben oltre il suo equivalente venale di 10.000 corone
svedesi, ovvero 1.8 milioni di dollari, ed il prestigio personale di chi lo
consegue, perché esprimendo il giudizio di una commissione di alta competenza,
assume un ruolo di orientamento per la ricerca. Infatti, il conferimento del
massimo riconoscimento scientifico a questi due studiosi, premia un modello
metodologico che sembra davvero promettente per il progresso delle conoscenze
di fisiologia cerebrale negli anni futuri.
Come
di consueto i Premi Nobel saranno consegnati il 10 dicembre, giorno
dell’anniversario della morte di Alfred Nobel, avvenuta nel 1896.
BM&L- Ottobre 2004 (06-10-04)
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OLFATTO E GUSTO: PRESENTATA LA SECONDA EDIZIONE
DEL CELEBRE MANUALE
Presentata
dai soci di BM&L a Firenze la seconda edizione dell’Handbook of Olfaction
and Gustation, un’opera di riferimento per tutti i ricercatori e gli studiosi
che si occupano della fisiologia e della patologia di questi due sensi spesso
trascurati.
L’espansione
esplosiva delle conoscenze nel campo delle basi molecolari e fisiologiche del
gusto e dell’olfatto, durante la scorsa decade, è stata accompagnata da una
consapevolezza sempre crescente dell’importanza della funzione chemiosensoriale
nella salute come nella malattia. Gli autori di quest’opera (Handbook of Olfaction
and Gustation. Neurological Disease and Therapy. Second edition. Edited
by Richard L. Doty. 1121 pp., illustrated. New York, Marcel Dekker, 2003. $250. ISBN 0-8247-0719-2), che non ha equivalenti editoriali, hanno
sentito la responsabilità di riflettere questi sviluppi che accompagnano la
maturazione ed il progresso di questo settore, così come quello di tutte le
discipline correlate. Questo sforzo si è tradotto in 48 capitoli ed oltre mille
e cento pagine di alto valore scientifico e di estrema utilità pratica.
BM&L- Maggio 2004
(07-05-04)
[1][1] A questo novero appartiene anche l’insonnia familiare fatale (FFI) per la quale l’eziologia prionica è stata accertata in tempi più recenti.
[2][1] L’epitelio olfattivo della cavità nasale è costituito da tre classi di cellule: 1) cellule basali, distinte in orizzontali e globose, 2) cellule di supporto e 3) neuroni olfattivi o cellule sensoriali olfattive, elementi bipolari caratterizzati da un singolo dendrite dal quale si dipartono le cilia olfattive che si espandono nella mucosa con i loro recettori. L’assone delle cellule olfattive forma il primo nervo cranico che conduce gli stimoli al bulbo, dal quale le informazioni sono inviate alla corteccia. Una trattazione sintetica ed aggiornata della fisiologia olfattiva si trova in Siegel, Albers, Brady e Price, Basic Neurochemistry. Academic Press 2006; il testo di riferimento sull’argomento rimane l’Handbook of Olfaction and Gustation. Neurological Disease and Therapy. Second edition. Edited by Richard L. Doty. 1121 pp., illustrated. New York, Marcel Dekker, 2003. $250. ISBN 0-8247-0719-2. Il volume fu presentato in Italia dalla nostra Società scientifica, in un incontro in cui si previde l’assegnazione del Premio Nobel a Richard Axel e Linda B. Buck.
[3][2] Si consiglia la lettura di questa nota, proposta anche nella sezione “IN CORSO”, perché consente, seguendo i links ad altre recensioni, un rapido aggiornamento su alcuni aspetti dei nuovi ruoli riconosciuti alla chemorcezione nasale.
[4][3] Si veda: Sci. Am. MIND 19 (4): 44, 2008, dove la dichiarazione è riportata in un riquadro, nel contesto di un articolo di rassegna.
[5][1] Si veda, anche per una classificazione dei ferormoni in base al ruolo fisiologico, la già citata nota: Note e Notizie 31-03-07 Il sesso e il nervo sconosciuto.
[6][2] Osamu Shimomura (n.1928), Martin Chalfie (n.1947) e Roger Y. Tsien (n.1952), proprio lo scorso mercoledì 8 ottobre, sono stati proclamati vincitori del Premio Nobel per la Chimica “per la scoperta e lo sviluppo della proteina fluorescente verde, GFP”. Shimomura è stato il primo ad identificarla in Aequorea victoria; Chalfie l’ha impiegata in genetica come segnalatore dell’attivazione del promotore e, infine, Tsien ha chiarito come funziona e ha creato varianti ad azione più rapida, più luminose e di uno spettro di colori che va dall’azzurro al rosso, passando per il giallo e il lilla.
[7][1] Un volume abbastanza recente sui ferormoni,
ma già divenuto un “classico” dell’argomento, è il testo di Tristram D. Wyatt
(Pheromones and Animal Behavior. Cambridge University Press, 2003).
[8][2] Si veda alla pagina 26 di Chip Walters,
Affairs of the lips. Sci.
Am. Mind 19 (1): 24-29,
2008.
[9][1] Teoricamente si potrebbe concepire una soluzione sulla falsariga dell’VIII paio dei nervi cranici: per nervo stato-acustico si intendono due nervi distinti con diversi recettori, gangli, nuclei, vie nervose e funzioni; allo stesso modo i primi due nervi potrebbero essere inclusi nel primo paio, che si definirebbe olfattivo-terminale.
[10][2] I ferormoni (in alcune trattazioni si
legge feromoni, dall’inglese pheromone) sono molecole biologiche
prodotte da organismi animali e rilasciate nell’ambiente esterno con funzione
di segnale per individui della stessa specie. Si distinguono ferormoni
traccianti, che consentono agli animali di essere seguiti; ferormoni di
allarme, che inducono uno stato di allerta negli animali che li captano; ferormoni
di segnalazione che generano l’assetto funzionale dell’accoppiamento o
dell’aggressione; ferormoni innescanti, che producono modificazioni
fisiologiche di lungo termine. Un volume abbastanza recente sui ferormoni, ma
già divenuto un “classico” dell’argomento, è il testo di Tristram D. Wyatt
(Pheromones and Animal Behavior. Cambridge University Press, 2003).
[11][3] In quella nota si fa riferimento anche ad un altro dato assolutamente straordinario: peptidi del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) sono riconosciuti da neuroni olfattivi e, negli animali, influenzano decisioni sociali e relative all’accoppiamento (Note e Notizie 08-04-06 Il fiuto per il partner richiede geni immuni). Si può dire che, in un certo senso, le scelte “a naso” hanno trovato un loro fondamento biologico.