IL COLORE VISTO DAGLI UCCELLI IN UNA RASSEGNA DI BM&L

 

 

Il colore non è una proprietà della luce o degli oggetti che la riflettono, ma una sensazione che deriva dalla sintesi cerebrale delle informazioni percettive. Per questo il cervello umano, con le sue 32 aree corticali deputate all’elaborazione dell’esperienza visiva e con un’architettura funzionale che non ha uguali nel regno animale, sembra poter garantire alla nostra specie un’indiscutibile superiorità nella visione dei colori e di ogni altro aspetto della realtà. L’elaborazione cerebrale dipende, però, dai limiti biofisici, molecolari e cellulari del sistema recettoriale retinico, che appaiono per certi aspetti più angusti nell’occhio umano che in quello di altri vertebrati. La ricerca degli ultimi 35 anni ha dimostrato che uccelli, lucertole, tartarughe e molte specie di pesci, possiedono recettori retinici specifici per lunghezze d’onda del vicino ultravioletto (UV) di cui i mammiferi sono privi, ed ha fornito dati sulle caratteristiche dei fotopigmenti e sull’evoluzione delle strutture recettoriali. Tali progressi nelle conoscenze hanno indotto un gruppo di soci di BM&L ad approfondire la visione dei colori nelle specie aviarie proponendo, in un incontro che si è tenuto lo scorso giovedì 28 settembre, una rassegna dei principali studi condotti in questo campo.

L’occhio è uno straordinario fotosensore che può rilevare un singolo fotone e trasmettere il suo segnale al cervello; tutti i suoi costituenti contribuiscono a questo fine, ma il ruolo centrale è rivestito dalla retina, struttura nervosa fotosensoriale polistratificata costituita da vari tipi cellulari altamente specializzati. La risposta alla radiazione visibile avviene grazie a due tipi di cellule che prendono il nome dall’articolo esterno della loro struttura, che ha rispettivamente la forma di cono o di bastoncello. All’interno degli articoli sono impilati, come monete poste l’una sull’altra, una serie di sacchi costituiti da membrane che contengono i pigmenti visivi. Le cellule dei coni e le cellule dei bastoncelli, spesso dette semplicemente coni o bastoncelli, rispondono a lunghezze d’onda diverse in ragione del tipo di fotopigmento contenuto nelle membrane delle strutture sacculari. Per la loro sensibilità a lunghezze d’onda elevate, i bastoncelli sono specializzati nella discriminazione chiaroscurale indipendente dal colore, consentendo di distinguere un tono più chiaro o più scuro anche quando c’è una scarsa illuminazione come accade nella visione in ambienti naturali al crepuscolo o all’alba. Nella specie umana i coni, massimamente concentrati nella fovea retinica, sono specializzati nella discriminazione dei colori e se ne riconoscono tre tipi, in base alla curva di intensità di risposta allo spettro di frequenze, contrassegnati dal numero in manometri (nm) che esprime il massimo assorbimento del proprio pigmento: 424 (viola), 530 (verde), 560 (arancio). Complessivamente l’estensione del nostro spettro del visibile va dai 400 nm del viola più brillante ai 700 nm del rosso più intenso. Dai 300 ai 400 nm si è nel dominio dell’UV, oltre i 700 nm nell’infrarosso. Contrariamente a quanto ritenuto in passato, l’informazione proveniente da un singolo tipo di fotorecettore non è sufficiente per la caratterizzazione di un colore spettrale puro, che richiede, invece, una combinazione specifica di risposte dei tre tipi di fotopigmenti. Per questo motivo non è corretto parlare di coni rossi, gialli e blu come si faceva un tempo. Ad esempio, il cono massimamente attivo alle frequenze del giallo-aranciato, se stimolato da luce di 500 nm, che corrisponde ad un bel verdazzurro, o dalle onde di 610 nm di un rosso chiaro molto caldo, dà esattamente la stessa risposta. Pertanto, il cervello ha bisogno di un’alta attivazione degli altri due tipi di coni per vedere un blu-verde ed una loro minima attività per riconoscere il rosso-arancio.

Gli uccelli hanno quattro tipi di coni caratterizzati da picchi di risposta rispettivamente a 370, 445, 508, 565 nm. Il primo, reagendo alle frequenze elettromagnetiche dell’UV (300-400 nm), costituisce l’elemento che maggiormente caratterizza le specie aviarie ed attrae l’attenzione dei ricercatori.

In una prospettiva evoluzionistica le differenze nella dotazione di coni sono state spiegate mediante l’analisi del DNA delle specie contemporanee e la ricostruzione dei principali eventi selettivi.

Si ritiene che tutti i vertebrati primitivi avessero quattro tipi di coni, conservati nel tempo dagli uccelli e da varie specie di rettili e pesci, ma persi in parte dai mammiferi progenitori, la cui vita notturna non richiedendo elevata discriminazione dei colori, avrebbe favorito un adattamento visivo basato su due soli tipi di coni. Dopo l’estinzione dei dinosauri, quando comincia la grande diversificazione dei mammiferi con lo sviluppo della linea che diede origine ai primati del Vecchio Mondo, il gene di uno dei due pigmenti deve essere andato incontro a una duplicazione seguita da mutazione, con il conseguente sviluppo di un nuovo pigmento ed un terzo tipo di coni.

La nostra origine dai primati del Vecchio Mondo spiegherebbe perché possediamo tre coni anziché due come la maggior parte dei mammiferi.

La presenza di quattro coni negli uccelli si accompagna a peculiarità nella visione dei colori, prima fra tutte la capacità di “vedere” nel vicino UV. La storia della scoperta della capacità di alcuni animali di percepire la luce ultravioletta comincia nel 1882 con gli esperimenti sulle formiche di un naturalista ed archeologo amico di Charles Darwin, Sir John Lubbock Lord Avenbury, il quale osservò che in presenza di luce UV le formiche trasportavano le proprie pupe in aree oscure o poco luminose. Nel secolo successivo, Karl von Frisch e la sua scuola dimostrarono che formiche ed api non solo erano in grado di vedere la luce UV come un colore, ma potevano adoperarla per l’orientamento nella luce diffusa e riflessa del cielo, quale elemento di una bussola celeste.

Nei decenni successivi furono sollevati molti dubbi e critiche circa gli esperimenti che dimostravano la capacità degli insetti di vedere come un colore definito e distinto le lunghezze d’onda invisibili all’occhio umano; tali riserve sono state tenute nel debito conto dai ricercatori che indagano la visione negli uccelli. Timothy H. Goldsmith e i suoi allievi hanno concepito ingegnosi esperimenti, poi divenuti procedure-modello per molti gruppi di ricerca, in grado di fugare ogni dubbio sulla percezione visiva dell’UV nei volatili (Timothy H. Goldsmith, What Birds See. Sci. Am. 295 (1), 50-57, 2006).

Per cercare di comprendere l’esatto ruolo svolto da un sensore dell’ultravioletto nei volatili, ripartiamo dalla visione umana. La definizione delle informazioni cromatiche che la retina invia attraverso il corpo genicolato laterale alle aree visive primarie della nostra corteccia cerebrale, richiede la partecipazione di tutti e tre coni e, come abbiamo già rilevato, è sbagliato attribuire un colore ad un tipo di cono, perché dal pattern complessivo di attivazione dei tre diversi fotorecettori emerge la connotazione della tinta. Applicando questo principio alla visione degli uccelli, che sfrutta il cono con optimum nell’UV, ci si rende conto che la gamma di tinte percepite è necessariamente diversa. Si tende perciò a parlare di visione tetraconica degli uccelli, contrapposta alla visione triconica umana. Non è invece corretto parlare di tricromia e tetracromia perché i recettori non sono colori dalla cui miscela deriva la tinta percepita.

L’indagine di molti gruppi di ricerca ha focalizzato la propria attenzione sul ruolo che possono avere nella vita degli uccelli le colorazioni rilevate mediante quattro fotopigmenti, e, considerato il frequente dimorfismo sessuale della livrea che dal pavone al cardellino vuole un maschio più intensamente colorato, si è cercato di stabilire se tinte da noi non percepite hanno un ruolo nella scelta operata dalle femmine per l’accoppiamento. A tale scopo il gruppo di Muir Eaton ha studiato 139 specie aviarie in cui il piumaggio e l’aspetto complessivo sono assolutamente identici nel maschio e nella femmina. Lo studio, che impiegava la misurazione delle lunghezze d’onda riflesse dalle piume, ha dimostrato che in oltre il 90% delle specie esaminate l’occhio degli uccelli riconosceva differenze di colore fra maschi e femmine assolutamente invisibili all’occhio umano e delle quali, naturalmente, gli ornitologi non avevano potuto tener conto nei loro studi sull’accoppiamento.

Un team di ricerca internazionale guidato da Franziska Hausmann ha scelto, invece, di comparare la parte del piumaggio rilevante per il corteggiamento a quella ritenuta neutra a tal fine, per vedere se vi fossero differenze significative nelle tinte occulte all’occhio umano. Il risultato ha mostrato che la componente UV della colorazione era di gran lunga più frequente nelle penne delle parti della livrea importanti per la scelta riproduttiva che in quelle ottenute da altre parti del corpo.

Ricercatori svedesi, francesi ed inglesi hanno rilevato che nello storno (Sturnus vulgaris) e nella cincia blu (Parus caeruleus, un parente della cinciallegra), le femmine prediligono i maschi le cui piume presentano una maggiore riflessione nella lunghezza d’onda dell’UV. Non potendo immaginare come gli uccelli vedano tali tinte, si può supporre che siano più belle delle altre ai loro occhi. Chiedendosi, in una chiave evoluzionistica darwiniana, in cosa consista il loro valore nell’adattamento selettivo, si è fatta una scoperta interessante: la riflessione delle lunghezze d’onda UV dipende dalla struttura sub-microscopica delle piume, la quale si altera in molte condizioni di malattia, costituendo perciò un buon indicatore di salute dell’uccello.

Amber Geyser e Geoffrey Hill studiando Guiraca caerulea -un passeriforme dalla bella livrea- sono andati oltre, rilevando che i maschi dal blu più brillante e ricco di componenti UV, hanno maggiori dimensioni corporee rispetto alla media, controllano un territorio più vasto con prede più abbondanti e, soprattutto, si dedicano alla nutrizione dei piccoli con maggiore frequenza degli altri maschi della stessa specie.

E’ noto che un vantaggio selettivo basato sulla percezione visiva può riguardare allo stesso tempo la nutrizione e la riproduzione, come nel caso di quelle scimmie dai genitali coloratissimi, azzurri e rossi, che nel periodo estrale assumono una tinta vermiglia in tutto simile a quella acquisita al termine della maturazione dal frutto preferito da questi primati. Dunque, si è voluta esplorare la possibilità che la percezione dell’UV presenti vantaggi per le specie aviarie anche nelle attività volte alla ricerca e alla scelta del cibo.

Ricercatori tedeschi guidati da Dietrich Burkhardt hanno dimostrato che la superficie lustra e cerosa di molti tipi di frutta e bacche è in grado di riflettere frequenze UV che potrebbero segnalarne la presenza agli uccelli.

Jussi Viitala e i suoi colleghi dell’Università di Jyväskylä in Finlandia hanno scoperto che piccoli falconi chiamati kestrels (simili al nostro gheppio, ossia il Falco tinnunculus o falco torraiolo) sono in grado di localizzare visivamente le tracce di arvicole, roditori campestri che costituiscono una delle loro prede preferite. E’ noto che tali piccoli mammiferi lasciano scie odorose di feci e urine, ma non si riusciva a comprendere come facessero i falconi a percepirle, fino a quando è stato rilevato che la traccia riflette una radiazione ultravioletta rilevata a grande distanza dagli uccelli e invisibile ad altri animali.

 

LETTURE DI APPROFONDIMENTO

 

Note e Notizie 23-01-04  Visione nell’ultravioletto: riconosciuta la base molecolare.

Note e Notizie 15-01-05  Retina: basi molecolari della neurogenesi.

Note e Notizie 18-09-05  Due CAM nello sviluppo dell’occhio.

Note e Notizie 18-09-05  Le cellule CGRFI vedono prima dei recettori della retina.

Note e Notizie 22-10-05  Scoperto l’enzima che rigenera la rodopsina.

 

Gli autori ringraziano Isabella Floriani che ha sintetizzato in questa nota il testo presentato ai soci di BM&L.

 

Nicole Cardon & Giuseppe Perrella

BM&L-Settembre 2006

www.brainmindlife.org