SEROXAT E SUICIDIO: UN PO’ DI CHIAREZZA 

 

 

Nei giorni scorsi le agenzie giornalistiche hanno dato con grande rilievo la notizia che l’antidepressivo Seroxat è in grado di accrescere la spinta al suicidio nei pazienti che lo assumono. L’effetto dirompente, con lo strascico di discussioni e controversie iniziate alla televisione inglese nella quiete di fine agosto, rimbalzate in tutto il mondo ed attualmente protratte sul “web” nelle molteplici forme che questo consente, è comprensibile. Infatti, se si scopre che un farmaco può causare la conseguenza più grave del disturbo che dovrebbe curare, è legittimo che chi lo assume -in primo luogo- ed il resto della pubblica opinione, si indignino oltre che allarmarsi.

Alle numerose richieste di chiarimenti e di spiegazioni scientifiche “non di parte” che abbiamo ricevuto, rispondiamo con questa nota, rimandando all’incontro con i nostri soci esperti di neuropsicofarmacologia ogni ulteriore approfondimento.

Mettendo da parte la grande quantità di sciocchezze scritte da agenzie e giornali (ad esempio, non si tratta di una ricerca compiuta dagli autori della pubblicazione che avrebbero “scoperto” questa proprietà, ma di una meta-analisi sulla documentazione non pubblicata di 16 ricerche “farmaco vs placebo” eseguite in passato, durante la fase di sperimentazione clinica) si deve rilevare l’anomala pubblicità che questo studio dell’Università di Oslo ha ricevuto (Aursnes I., e coll. Suicide attempts in clinical trials with paroxetine randomised against placebo. BMC Med 3 (1): 14 [Epub ahead of print] Aug 22, 2005).

Infatti, in tutto il mondo si pubblicano centinaia di lavori di questo genere ogni settimana, senza alcuna attenzione da parte dei mass-media. La risonanza ricevuta da questo articolo è in gran parte da attribuirsi ad una campagna che da anni sta conducendo un’organizzazione britannica di nome “MIND” e lo staff di “PANORAMA”, un programma della BBC.

PANORAMA si è occupato per la prima volta del Seroxat nel maggio del 2003, poi ha dedicato una trasmissione nel marzo del 2004 e, recentemente, è ritornata sull’argomento: in tutti i casi si è servita della consulenza di MIND che sembra impegnata in una crociata contro la casa produttrice. Secondo questa organizzazione il pericolo maggiore è dato dal fatto che il Seroxat è in assoluto l’antidepressivo più venduto. Il “Times” riporta che lo scorso anno è stato prescritto all’incirca 2 milioni e quattrocentomila volte.

Passiamo, ora, alla considerazione degli aspetti scientifici.

La paroxetina, prodotta dalla casa farmaceutica Glaxo-Smith-Kline con il nome di Seroxat (un altro brand-name della stessa molecola è “Sereupin”) è un antidepressivo appartenente alla classe degli inibitori selettivi della ricaptazione (SSRI) fra i quali si annoverano molecole come la fluoxetina (Prozac, Fluoxerene, Fluoxetina), la fenoxetina, la fluvoxamina (Maveral, Fevarin, Dumirox), il citalopram (Elopram, Seropram) e la sertalina (Zoloft). Queste molecole sono quasi sprovviste degli effetti collaterali anticolinergici degli inibitori della ricaptazione adoperati in passato (imipramina, amitriptilina) e risultano più efficaci nel determinare effetti sullo stato psichico complessivo e sull’umore.

Sebbene alcuni di questi farmaci, come la fluoxetina, sembra che espongano meno frequentemente a cadute dell’umore e a conseguenti spinte autodistruttive, è bene aver presente che la farmacodinamica e la farmacocinetica di tutti gli SSRI è simile ed il principio su cui si basa il loro impiego è identico. E’ proprio questo principio ad essere sbagliato e, a quanto pare, i principali effetti positivi di medio termine mostrati da alcune di queste molecole in recenti sperimentazioni animali (è stato testato il Prozac, ad esempio) sono dovuti alla loro capacità di stimolare la neurogenesi e non all’effetto di inibitori della ricaptazione. In proposito si veda l’intervista rilasciata dal nostro presidente a Nicole Cardon (sezione RUBRICHE: Interviste).

 E’ vero che costantemente si rileva nei pazienti con depressione di lunga durata, accanto alla riduzione di volume dell’ippocampo, quella di tre amine biogene che fungono da neurotrasmettitori: noradrenalina, dopamina e serotonina. Ed anche vero che la maggiore specificità di quest’ultima nella mediazione dei processi alla base del tono dell’umore psichico l’ha resa da decenni bersaglio ideale della farmacoterapia antidepressiva. Tuttavia, aumentarne la disponibilità sinaptica alterando l’equilibrio di un processo fisiologico come la ricaptazione, non vuol dire aumentarne la quantità biosintetizzata dall’organismo e, soprattutto, non vuol dire agire sulle cause e sui processi patogenetici in atto in quell’organismo (si rimanda ancora all’intervista citata in cui si propone un esempio molto efficace).

I problemi posti dai nuovi antidepressivi sono di portata più generale e non possono essere ridotti ad un singolo prodotto farmaceutico: BM&L si è occupata lo scorso anno del loro impiego in età pediatrica (si veda in NOTE E NOTIZIE del 18-09-04: “BAMBINI A RISCHIO… DI ANTIDEPRESSIVI).

Non è possibile in questa sede affrontare il lungo e complesso problema della diagnosi e della terapia delle condizioni depressive, per cui ci limiteremo a dire che, nella risoluzione della patologia depressiva, attualmente il ruolo terapeutico principale è ancora svolto dal cervello stesso e dai processi di recupero messi in atto dal tessuto nervoso e dalla glia, che includono la neurogenesi in aree come l’ippocampo in cui la depressione ha determinato la perdita di neuroni. Un buon trattamento psicoterapico non fa altro che aiutare il nostro cervello. La riduzione o la eliminazione dello stress o delle cause di frustrazione-limitazione all’origine del disturbo, le relazioni affettive, le condizioni di vita, lo stato psico-fisico generale e le esperienze sociali, possono influire positivamente determinando delle condizioni mentali il cui substrato funzionale è rappresentato da un’estesa attivazione genetica, sinaptica, cellulare e sistemica.

In assenza di questo correlato fisiologico, si rischia che l’azione degli SSRI, invece di funzionare da innesco per attività psico-fisiche che alimenterebbero a “feed-forward” l’attività ed il metabolismo cerebrale, finisca per accelerare lo svuotamento dei depositi di neurotrasmettitore nel ridotto numero di circuiti attivi. Non meraviglia, perciò, che proprio una delle molecole più efficaci nella ricaptazione di serotonina possa essere la maggiore candidata ad un “effetto depressivo paradosso”, che -a nostro avviso- tanto paradossale non è, perché questi farmaci non sono realmente “antidepressivi”, ma solo sofisticati stimolatori di vie nervose che obbediscono ai criteri “hardware” della biologia cerebrale, diversi dai criteri “software” delle diagnosi psicopatologiche e della nostra quotidiana esperienza mentale. 

 

BM&L-Settembre 2005

www.brainmindlife.org