INTERVISTA
a Giuseppe Perrella
presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia
Errori
nella ricerca, nuove acquisizioni sulla Depressione e sullo Stress, scoperte
sul Cervelletto che ne cambiano la tradizionale connotazione fisiologica
_______________________
NICOLE CARDON – Recentemente hai sostenuto che nella ricerca applicata si trascurino
molte acquisizioni neurobiologiche. Perché dici che ciò altera o tradisce
il senso della conoscenza?
GIUSEPPE
PERRELLA – Dico che spesso, concentrandosi sul meccanismo più noto di un
processo funzionale complesso, ci si comporta come se tutto il resto non
esistesse. Ad esempio da un trentennio la ricerca sui farmaci antidepressivi è
focalizzata sugli inibitori del re-uptake. La differenza teorica sostanziale
fra i triciclici impiegati già tre decenni fa e farmaci come il Prozac,
consiste in un meccanismo d’azione più selettivo che inibisce la ricaptazione
della serotonina, aumentandone la quantità e, quindi, l’effetto post-sinaptico.
Ci si comporta come se tutti gli altri processi ed eventi che si verificano dal
livello cellulare a quello sistemico fossero ininfluenti e la patogenesi della
depressione fosse da ascriversi ad una riduzione di neuromediatore nello spazio
intersinaptico…
NICOLE CARDON – Oggi di cosa bisognerebbe tener conto?
GIUSEPPE
PERRELLA – Tante cose. Da alcuni anni le nuove tecniche di neuro-immagine hanno
dimostrato che, in condizioni di stress cronico e nella depressione che ne
deriva, una struttura cerebrale come l’Ippocampo si riduce di dimensione del
10-20%…
NICOLE CARDON – Per la perdita di neuroni, come è stato dimostrato da tempo
nei topi sottoposti a stress cronico?
GIUSEPPE
PERRELLA – Esattamente.
NICOLE CARDON – E in condizioni fisiologiche le cellule perse sono
rigenerate.
GIUSEPPE
PERRELLA – Certo. Per questo puntare sulla neurogenesi è probabilmente molto
più appropriato che tentare di compensare la riduzione di effetto dei
neurotrasmettitori, cosa peraltro artificiosa e non correlata con la patogenesi
del danno. La base razionale di questa ricerca farmacologica risale all’ipotesi
patogenetica della depressione che, negli anni Settanta, postulava un difetto
di produzione/effetto di alcuni neurotrasmettitori. Alla luce delle conoscenze
attuali, basarsi sull’inibizione del re-uptake
per curare la depressione, equivale a somministrare farmaci che
impediscano l’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule periferiche a
persone risultate ipoglicemiche perché mangiano poco.
NICOLE CARDON – Ma studi clinici controllati condotti su grandi numeri,
così come esperienze ambulatoriali in tutto il mondo, sembrano dimostrare
l’efficacia di farmaci come il Prozac.
GIUSEPPE
PERRELLA – E’ vero. Ma noi sappiamo che molti di questi farmaci stimolano la
neurogenesi negli animali di laboratorio e, cosa non trascurabile, questo
effetto richiede circa trenta giorni per prodursi: lo stesso tempo osservato in
clinica perché si abbia un’apprezzabile azione antidepressiva nella maggior
parte dei pazienti.
NICOLE CARDON – Quindi, il Prozac funziona perché stimola la rigenerazione
neurale fisiologica che lo stress avrebbe inficiato?
GIUSEPPE
PERRELLA – E’ già da un po’ che sostengo questa ipotesi, anche se l’esatto
meccanismo non è ancora noto e questi farmaci potrebbero agire per diverse vie,
alcune delle quali sottoposte a variabili di cui non teniamo conto. Ciò
spiegherebbe l’inefficacia in alcuni casi.
NICOLE CARDON – A cosa pensi quando dici “per diverse vie”?
GIUSEPPE
PERRELLA – Penso, ad esempio, al fatto che la sperimentazione dei nuovi
inibitori della ricaptazione come fluoxetina, fenoxetina, fluvoxamina,
citalopram, zimelidina, fenfluramina e mazindolo, fu avviata con la
consapevolezza che queste molecole avessero altre proprietà rilevanti da un
punto di vista neurofisiologico, ad esempio si sapeva che la d-fenfluramina e
il mazindolo agissero più da liberatori della serotonina che da inibitori della
ricaptazione e così via…
NICOLE CARDON – Ma poi, studiandoli solo per la capacità di inibire la
ricaptazione, si è dimenticato tutto il resto.
GIUSEPPE
PERRELLA – Si, si è dimenticato il motivo per cui si impiegavano gli inibitori
della ricaptazione e si è elaborata la cosiddetta “teoria della ricaptazione”
per spiegare la patogenesi della depressione. Una sorta di tautologia.
NICOLE CARDON - Una congettura costruita ad hoc.
GIUSEPPE
PERRELLA – Come accadde per la “Down Regulation”: scoperto che il meccanismo
d’azione di alcuni antidepressivi era in parte identico a quello dei
neurolettici fenotiazinici che avevano effetto deprimente, si diede la massima
importanza all’attivazione di questo meccanismo di regolazione in grado di
spiegare l’effetto paradosso e, su questa base, si aggiunsero dettagli a queste
congetture.
NICOLE CARDON - Tutto ciò non aveva nulla della teoria. Una teoria
scientifica razionalizza in forma coerente gli elementi logici derivanti da un
quadro esauriente di dati sperimentali certi, no?
GIUSEPPE
PERRELLA – Si, ma soprattutto una teoria patogenetica deve spiegare come si
genera il danno.
NICOLE CARDON – Giusto. Ricordo, però, che qualcosa di simile era stato
fatto in passato con l’ipotesi della “carbolina” o sbaglio?
GIUSEPPE
PERRELLA – Ti ringrazio per questo riferimento, non me ne ricordavo più. La
molecola era esattamente la 6-metossi-tetraidroβ-carbolina (6-MTC): la
follia raggiunse l'acme. Si trattava di questo: si vide che l’imipramina,
che con l’amitriptilina rappresenta il primo inibitore della ricaptazione
impiegato come farmaco antidepressivo, aveva dei siti di alta affinità nel SNC
diversi dai recettori conosciuti. La 6-MTC era in grado di bloccare questi
siti, per cui si disse che la 6-MTC (farmaco di sintesi) doveva essere
l’antidepressivo naturale. Poi si trovò un endocoide, veramente
naturale, capace di legarsi a quei siti e, senza averne determinato la
struttura chimica, lo si indicò come antidepressivo endogeno, aggiustando un
po’ il tiro, anche se la sostanza rimaneva invariata. No, la beta-carbolina non
era parte di una teoria patogenetica seria, ma solo una conseguenza del dogma
proposto a farmacologi e clinici come “teoria della ricaptazione”.
NICOLE CARDON – Peraltro mai accettato dai neuroscienziati e, che io
sappia, da molti psichiatri.
GIUSEPPE
PERRELLA – Naturalmente.
NICOLE CARDON – E’ quasi come se certi settori della ricerca applicata si
fossero creata la propria ricerca di base dalla quale dipendere. Una ricerca di
base faziosa, non credi?
GIUSEPPE
PERRELLA – Non direi così. O, in un certo senso, direi che questo vale per la
ricerca condotta in seno o per iniziativa delle case farmaceutiche, un tempo
vista con molto sospetto, considerata impura perché condizionata da specifici
interessi, ed oggi, troppo spesso, equiparata a quella promossa da istituzioni
indipendenti. A rigore, però, anche se si tratta di progetti condotti con i
metodi della ricerca di base, non si può dire che appartengano concettualmente
a questa.
NICOLE CARDON – Non appartengono concettualmente…Non ti sembra un’idea un
po’ romantica della ricerca di base in un’epoca in cui accade che un genetista,
tra i maggiori esperti di malattia di Alzheimer, come Dennis Selkoe, sia
comproprietario di una casa farmaceutica che produce farmaci basati sulla sua
teoria dell’amiloide; che il suo duro e puro oppositore Allen Roses, anche lui
proveniente dalla ricerca di base, sia diventato direttore di ricerca di
un’azienda farmaceutica e che Fred Gage, come abbiamo visto in questi giorni,
per compiacere i suoi finanziatori si abbassi a vendere per perle le sue biglie
di vetro?
GIUSEPPE
PERRELLA – Può darsi. Mi rendo conto che sostenere questa distinzione possa
apparire come un’idea romantica di purezza, ma si tratta semplicemente di un
giudizio scientifico che riconosce l’utilità di due categorie concettuali
distinte, nell’interesse di tutto ciò che afferisce ad entrambe. E’ una
distinzione imprescindibile: così come è necessario che io sappia in termini di
struttura molecolare e meccanismi di funzione cosa sia fisiologico per
distinguerlo da ciò che è patologico. Non è una tradizione che si mantiene per
nostalgia della storia delle grandi scuole, ma una necessità logica, prima
ancora che metodologica. Monopolizzando la ricerca con i loro capitali, costoro
possono comprarsi le carriere, non il nostro buon senso.
Tornando
alle basi neurobiologiche dell’impiego degli antidepressivi, penso di aver
risposto con questo esempio alla tua domanda sul perché ritenga che talvolta la
ricerca applicata alteri o tradisca il senso della conoscenza.
NICOLE CARDON – Risposta esauriente, con un esempio efficace. Ma il
ricercatore indipendente cosa deve fare, oltre che rifiutarsi di lavorare a
progetti concepiti secondo tesi precostituite che non condivide?
GIUSEPPE
PERRELLA – Può dedicare un po’ del suo tempo al confronto dialettico, per
attrarre l’attenzione della comunità scientifica internazionale su ciò che
ritiene erroneo. Ma ciò che più conta è che man mano che si accumula conoscenza
se ne tenga conto e che le iper-semplificazioni operative,
dettate dalla necessità di procedere in assenza di dati sufficienti, rimangano
tali nella consapevolezza dei ricercatori e dei medici. Altrimenti si rischia
che si cristallizzino in forma unica ed esclusiva e, per pigrizia intellettuale
dei ricercatori e convenienza economica dei finanziatori, si sostituiscano al
vasto e complesso panorama dei dati e dei concetti che emergono dalla ricerca.
NICOLE CARDON – Rimanendo alla depressione, da decenni si indagava su
un’ipotesi patogenetica che considerava la depressione reattiva conseguenza
dello stress. Una teoria che oggi nessuno più mette in dubbio, ma che appariva
ragionevole e fondata già trent’anni fa. Alcuni gruppi di ricerca, senza
diritto di tribuna, hanno continuato a produrre risultati interessanti in
questo campo, assolutamente ignorati dalla ricerca finanziata dall’industria
farmaceutica che, solo di recente, sembra averli scoperti. Non pensi che questo
abbia rallentato molto il progresso delle conoscenze?
GIUSEPPE
PERRELLA – Senza dubbio. Il finanziamento di un maggior numero di progetti
sull’ipotesi dello stress e in generale sui processi determinanti lo stato
depressivo, a scapito di tante ricerche-fotocopia su farmaci dal medesimo
meccanismo d’azione, avrebbe consentito di conseguire risultati in tempi molto
più brevi. Infatti solo di recente è stata definita con precisione questa
patogenesi. In estrema sintesi i passi fondamentali della depressione da stress
si possono così riassumere: 1) eventi coscienti stressanti o minacciosi
riconosciuti ed elaborati dalla Corteccia Cerebrale raggiungono l’Amigdala, che
può essere attivata allo stesso modo anche da evocazioni o stimoli elaborati
inconsciamente; 2) l’Amigdala rilascia il Corticotropin Releasing Hormone (CRH
o CRF) che stimola neuroni del Tronco Encefalico ad attivare l’Ortosimpatico
attraverso il Midollo Spinale, mentre per un’altra via si attiva l’ACTH; 3) la
Midollare del Surrene in risposta all’attivazione dell’Ortosimpatico rilascia
Adrenalina, mentre la Corticale stimolata dall’ACTH produce Glucocorticoidi,
l’effetto di questi ormoni su cuore, polmoni, muscoli, vasi ed altri tessuti,
prepara l’organismo alla fuga o all’attacco; 4) se lo stress diventa cronico, i
Glucocorticoidi attivano il Locus Coeruleus che, mediante la Nor-Adrenalina,
stimola l’Amigdala a produrre CRH innescando il circolo vizioso responsabile
del danno che si manifesta con i sintomi della depressione.
NICOLE CARDON – Dunque, ora si sa come lo stress provoca la depressione, ma
quali sono i danni accertati nella malattia depressiva?
GIUSEPPE
PERRELLA – Quattro effetti si rilevano costantemente: la deplezione di
noradrenalina, serotonina e dopamina e, come abbiamo visto, la riduzione di
dimensione dell’Ippocampo.
NICOLE CARDON – Noi conosciamo i dati di molte ricerche sull’apparente
perdita di calibro dell’Ippocampo, ma esistono delle buone trattazioni divulgative?
GIUSEPPE
PERRELLA – In lingua italiana? No, che io sappia; se si eccettuano dei
riferimenti nell’ultimo libro di Joseph Le Doux…
NICOLE CARDON – Anche in Inglese.
GIUSEPPE
PERRELLA – Douglas Bremner, direttore del centro per la tomografia ad emissione
di positroni della Emory University di Atlanta, per oltre dieci anni ha
studiato l’effetto dello stress acuto e cronico sul cervello misurando la
riduzione di dimensione dell’Ippocampo con la Risonanza Magnetica Funzionale.
Il suo campione va dai veterani della guerra del Vietnam ai sopravvissuti
dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Ha pubblicato quest’anno un
libro divulgativo sull’argomento…
NICOLE
CARDON – L’ ho letto, è “Does the stress damage the brain?”. Pubblicato da Norton a New York.
GIUSEPPE
PERRELLA – Ma non ne avete fatto una recensione per il sito, finora.
NICOLE CARDON – No. Ritornando alla cascata di eventi stress-depressione,
tutto sembra cominciare con il CRH, non saresti avverso in linea di principio a
farmaci anti-CRH come antidepressivi?
GIUSEPPE
PERRELLA – Vedi, se si prende un trattato di Fisiologia Umana di qualche tempo
fa si legge che il CRH o CRF…
NICOLE CARDON – Dove “F” sta per “factor”, perché un tempo tutti questi
peptidi prodotti dal cervello non si chiamavano ormoni, “hormon”…
GIUSEPPE
PERRELLA – Esattamente. Dicevo si legge che il CRF è un peptide di 41
aminoacidi che ha la funzione selettiva di stimolare le cellule adrenocorticotrope
dell’Ipofisi, che a loro volta immettono in circolo ACTH diretto a stimolare la
corticale del surrene che dalle cellule della zona fascicolata immette nel
torrente circolatorio i glucocorticoidi…
NICOLE CARDON – Per i quali si descrivevano solo bersagli periferici e non
si accennava al cervello…
GIUSEPPE
PERRELLA – Soprattutto voglio dire che oggi sappiamo che i CRH o CRF sono una
famiglia di peptidi prodotti anche dai neuroni dei nuclei amigdaloidei, ma non
solo, cui si possono attribuire molte funzioni. Tu ed altri neurobiologi di
BM&L avete pubblicato una nota sull’interazione del CRH con il recettore R2
in neuroni del Tronco Encefalico nella mediazione di effetti dello stress e del
desiderio compulsivo. Una nota che, non solo apre una finestra sui numerosi
processi in cui probabilmente il CRH svolge un ruolo, ma che ci ripropone la
complessità di cui parlavo prima.
NICOLE CARDON – Ad esempio la BP ritenuta inibitrice che, in questo caso,
si rivela importante per l’azione del CRF-R2 sul potenziamento degli NMDA?
GIUSEPPE
PERRELLA – Anche, ma più specificamente dico che il CRF in quel caso svolge un
ruolo parziale in un meccanismo di memoria, probabilmente attivando un sistema
di amplificazione basato sulla ripetizione…
NICOLE CARDON – In piccolo il sistema che anni fa ipotizzavi fosse alla
base della ripetitività istologica dell’Ippocampo?
GIUSEPPE
PERRELLA – Certo, ma terrei distinte le due questioni. Di passaggio, dico solo
che secondo la mia teoria alcune sostanze di abuso e lo stress potrebbero avere
in comune un corto-circuito che si inserisce sui sistemi di amplificazione
ripetitiva fisiologicamente attivati da stimoli esterni inducenti il “fight or flight” e da stimoli sessuali.
Ritornando a ciò che stavo cercando di articolare a proposito del CRF, voglio
dire che in molti laboratori è in corso la sperimentazione di farmaci in grado
di bloccare i recettori per il CRF dei neuroni del Tronco Encefalico e sembra
che abbiano efficacia sugli equivalenti sperimentali della depressione. Sono sicuramente in grado di bloccare il
circolo vizioso dello stress. Ma il problema è che anche in questo caso
agiremmo in base ad una visione parziale. Fino a non molto tempo fa si vedeva
il CRF solo in funzione del sistema endocrino, ora si scopre che si tratta di
una pedina sulla complessa scacchiera della fisiologia cerebrale: a quanti
processi che non conosciamo prende parte? Adoperare dei bloccanti del CRF
quante altre funzioni cerebrali altererebbe? Non lo sappiamo. Ed è difficile
saperlo perché i piccoli sistemi di circuiti, così come i singoli meccanismi
molecolari, sono per definizione in equilibrio fra loro e tendono a compensarsi
costantemente in vivo.
NICOLE CARDON – Ritieni, quindi, metodologicamente scorretto anche usare i
CRH-blockers come antidepressivi?
GIUSEPPE
PERRELLA – Azzardato, direi.
NICOLE CARDON – Ma non credi che secondo questi criteri gran parte se non
tutta la ricerca in neuropsicofarmacologia sarebbe azzardata?
GIUSEPPE
PERRELLA – No, non credo. Sicuramente ogni qual volta si individuano processi
patogenetici si possono cercare farmaci con una base più razionale, e si è in
grado di non interferire con troppi processi sconosciuti, agendo “alla cieca”.
Agendo alla cieca si adoperavano farmaci in grado di aumentare l’effetto
dell’acetilcolina per trattare i problemi di memoria da trauma, perché nei topi
si era visto che funzionavano. Oggi fa ridere la cosa, pensando alla
complessità del meccanismo che si forzava, aumentando innaturalmente la
disponibilità nel cervello di una delle molecole che intervengono nella
regolazione biochimica del delicato processo di formazione delle memorie. Si
sa, infatti, che l’acetilcolina si lega ai recettori NMDA come primo segnale,
essendo l’effettore il glutammato in un complesso di processi che include la
regolazione da parte del NO attraverso la back-diffusion per la redistribuzione
spaziale del segnale…
NICOLE CARDON – Si drogava un sistema normalmente attivato dal complesso
delle funzioni vitali di percezione, moto e relazione in genere. Cosa peraltro
inefficace perché il sistema non si lasciava forzare più di tanto…
GIUSEPPE
PERRELLA – Certo, ma la cosa era folle perché non aveva nessuna base razionale
in un supposto meccanismo patogenetico. Al contrario, la L-DOPA nel Parkinson
ha una base razionale nel meccanismo patogenetico di perdita dei neuroni
dopaminergici della Sostanza Nera che la producono e la decarbossilano a
dopamina, il neurotrasmettitore che raggiunge i nuclei della base. Si tratta di
una sorta di “terapia sostitutiva”. E funziona nell’ambito di un sottosistema
ben conosciuto; inoltre la L-DOPA è un precursore che si sottomette ai sistemi
di regolazione dei neuroni che la captano e la trasformano nel prodotto finale
carente, la dopamina. E, in questo caso, si tratta del controllo motorio
mesencefalo-striatale e non di funzioni psichiche. Si potrebbero fare molti
esempi. Ad un livello più elevato di quello del controllo motorio le cose sono
più complesse e più delicate, per cui si dovrebbe procedere con maggior
prudenza, invece si opera con maggior disinvoltura…
NICOLE CARDON – Mi puoi fare un esempio?
GIUSEPPE
PERRELLA – Certo. Ad esempio sappiamo ancora poco sul ruolo svolto nel sistema
nervoso centrale dal neurotrasmettitore chiamato “Sostanza P”: fra i pochi dati
certi c’è il legame al recettore NK-1. Poiché all’inizio degli anni Novanta si
dimostrò che i composti che si legavano al recettore NK-1 erano in grado di
prevenire lo sviluppo di alcuni elementi della risposta allo stress, sono state
avviate numerose ricerche su animali e trials clinici per testare il
peptide P come antidepressivo.
NICOLE CARDON – Ma potrebbe funzionare.
GIUSEPPE
PERRELLA – E’ possibile, si. Anzi, direi che è molto probabile. Inoltre la
sperimentazione farmacologica è concepita in modo tale che non si rischia né la
tossicità, né l’inefficacia. Almeno, apparentemente. Un tempo l’efficacia dei
neurolettici da impiegare nelle psicosi acute nella fase di sperimentazione
animale si valutava misurando l’entità di allungamento della palpebra delle
scimmie antropomorfe: si sono fatti molti progressi.
NICOLE CARDON – Quindi si dovrebbe puntare alla stimolazione della
neurogenesi nella terapia della depressione?
GIUSEPPE
PERRELLA – E’ più fisiologico e più ragionevole.
NICOLE CARDON – “Più fisiologico” lo capisco, ma perché “più ragionevole”?
GIUSEPPE
PERRELLA – Perché la depressione causa uno scompenso negli equilibri funzionali
di processi complessi che non conosciamo bene e che, in condizioni
fisiologiche, per motivi di “economia” biologica tendono all’equilibrio. In
altre parole è più ragionevole ripristinare delle condizioni che consentano al
sistema nervoso di riequilibrare se stesso.
NICOLE CARDON – I glucocorticoidi riducono i livelli di un fattore
neurotrofico in grado di stimolare la neurogenesi, il BDNF. Si sa, inoltre, che
molti antidepressivi possono accrescere la produzione di BDNF. Potrebbe essere
un buon antidepressivo, pardon, uno stimolatore della neurogenesi che favorisca
condizioni per uscire dalla depressione?
GIUSEPPE
PERRELLA – Si studia già il BDNF per questo scopo iniettandolo nei ventricoli
cerebrali di ratti con alti livelli di glucocorticoidi. Un altro approccio
accettabile è quello del gruppo di Robert Sapolsky, ossia la terapia genica che
induce la produzione di una maggiore quantità di un enzima che scinde i
glucocorticoidi; purtroppo non sembra molto efficace. Devo dire che la
questione dei fattori neurotrofici come farmaci antidepressivi mi fa pensare
che anche tu, inconsapevolmente, hai assunto uno schema mentale che ti porta a
non tener conto di qualcosa che conosci.
NICOLE CARDON – Non capisco.
GIUSEPPE
PERRELLA – Sai quali sono gli stimolatori di gran lunga più efficaci della
neurogenesi nel cervello dei mammiferi adulti?
NICOLE CARDON – Non ricordo l’esatta gerarchia delle molecole.
GIUSEPPE
PERRELLA – Un ambiente vario e ricco di stimoli percettivi e cognitivi, un’intensa
attività fisica ed esperienze affettive gratificanti, insieme rappresentano la
più potente stimolazione per la genesi e la differenziazione di nuovi neuroni e
nuove sinapsi. La differenza con l’azione in vivo di uno o più fattori
neurotrofici è abissale. Perché pensare necessariamente in termini di farmaci?
NICOLE CARDON – Giusto. Si, è vero: i topini che giocano felici insieme con
vari compagni in ambienti costantemente
variati dai ricercatori, hanno un’elevata neurogenesi, sinaptogenesi ed aumento
dello spessore della corteccia cerebrale. Allora i farmaci nelle nevrosi e nelle
sindromi depressive non servono?
GIUSEPPE PERRELLA – Servono eccome!
Serve impiegare le giuste molecole alle giuste dosi per interrompere i circoli
viziosi che impediscono tutto ciò che può portare alla neurogenesi, primo
elemento per ripristinare condizioni che consentano il “recupero mediante
l’uso”. E’ più importante puntare su farmaci che agiscono più sui rapporti
esistenti fra sistema nervoso ed apparati periferici, come i tranquillanti
minori che agiscono sulle fibrocellule muscolari, che su presunti
“antidepressivi specifici”. Così come è necessario ristabilire i normali ritmi
sonno-veglia tenendo conto della qualità del sonno, ecc. Ma questo discorso ci
porterebbe lontano.
NICOLE CARDON – E’ proprio vero che se un sapere non lo si usa, si perde.
La neurogenesi nei topi di laboratorio è la spiegazione di un fenomeno di
aumento delle dimensioni del cervello da sempre conosciuto ed attribuito solo
alla sinaptogenesi.
GIUSEPPE
PERRELLA – Pensa al Cervelletto: ricordo che in passato, quando dei terapisti
della riabilitazione mi ponevano domande sulle lesioni cerebellari, mi era
difficile far capire loro che il cervelletto poteva intervenire in molte delle
funzioni che trovavano alterate, perché erano abituati a pensare a questa
struttura solo come un regolatore della postura e della coordinazione. Quando
rammentavo loro che il neurologo faceva diagnosi di lesione cerebellare sulla
base della triade “nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita”, ovvero
che già la semeiotica classica si basava anche su un disturbo del linguaggio,
ne erano stupiti.
NICOLE CARDON – Certo, perché non vi si pensa più, anche se è su tutti i
libri…
GIUSEPPE
PERRELLA – Infatti, per molto tempo si è data importanza al ruolo del
Cervelletto nella coordinazione motoria, nell’equilibrio, nei movimenti rapidi
e cosiddetti balistici, come colpire un bersaglio con un gesto rapido.
Abbastanza curiosamente si ricordava l’importanza nei tuffi, perché molti
mammiferi acquatici presentavano un lobulo flocculo-nodulare del cervelletto
molto più sviluppato nelle specie in grado di tuffarsi con movimenti rapidi e
precisi.
NICOLE CARDON – Complessivamente una struttura
fondamentale per il movimento.
GIUSEPPE PERRELLA – Esattamente. Oggi la visione della
fisiologia cerebellare è completamente diversa. Sembra che l’intervento dei
suoi centri e delle sue vie sia più esteso e importante nelle funzioni
sensoriali che in quelle motorie. In effetti, era sbagliato cercare di
applicare il paradigma sensitivo/motorio efficace nello studio di una struttura
come il Midollo Spinale, ad esempio, in cui il grado di complessità è ancora
basso e le funzioni rispecchiano l’anatomia di un segmento del sistema nervoso
centrale dominato dalle vie ascendenti e da quelle discendenti. Il cervelletto,
da oltre mezzo secolo considerato dai neurologi la struttura più importante del
sistema extrapiramidale, ovvero del “sistema nervoso degli automatismi
sensomotori”, era noto come luogo di procedure, di “circuiti stampati” in grado
di correggere, adattare, integrare e temporizzare funzioni neoencefaliche, ad
esempio intervenendo nella modulazione dei circuiti riverberanti della base del
cervello. Tutto ciò, che da oltre trent’anni era ben noto, come si può vedere
consultando il trattato di fisiologia di Vernon Mountcastle nelle vecchie
edizioni, non voleva affatto dire che il cervelletto fosse una struttura
motoria. Semplicemente il suo intervento sulla motricità era più evidente,
schematizzabile, comprensibile in termini di concetti semplici appartenenti
alla cultura comune.
NICOLE CARDON – Puoi fare qualche esempio a proposito delle nuove acquisizioni sulle funzioni cerebellari?
GIUSEPPE PERRELLA – Si,
anche se ci sarebbe da parlare tanto che occorrerebbero ore intere e, sai, che
ho l’Eurostar alle 14 e 54 e quindi non mi potrò trattenere ancora per molto…
NICOLE CARDON – Cercherò di organizzare qui a Firenze un journal club “interno”
sul cervelletto nei prossimi giorni, intanto anticipaci qualcosa per i
visitatori del sito!
GIUSEPPE
PERRELLA – Certo. La prima cosa da dire è che il cervelletto sembra contribuire
a determinare la velocità e la precisione nella percezione sensoriale tanto
quanto si ritiene che faccia per l’esecuzione motoria. Come modulatore di
schemi interviene in tutti quei processi neoencefalici che hanno nella
corteccia pre-frontale e nei centri correlati la sede maggiormente studiata,
come le funzioni di working memory, di memorizzazione di dati a breve termine,
di attenzione, di elaborazione reattiva. Funzioni cerebellari intervengono nel
modulare le emozioni, l’ideazione anticipatoria, le rappresentazioni mentali,
la simbolizzazione, così come l’organizzazione e l’articolazione del linguaggio
verbale. Inoltre il cervelletto è attivo anche nel sonno.
NICOLE CARDON – Una grande quantità di “utilities” diremmo con il
linguaggio degli informatici.
GIUSEPPE
PERRELLA – Si potrebbe azzardare anche un’altra metafora: un programma che
consente di definire i tempi di esecuzione di parti di altri programmi, di
sintetizzare programmi diversi, di scegliere integrando una grande messe di
informazioni.
NICOLE CARDON – Capisco, certo come si fa a definire in termini di
“prodotto” cosa ha fatto il “programma-cervelletto” e cosa non ha fatto?
GIUSEPPE PERRELLA – Esattamente, è proprio questa la difficoltà. Ad esempio si è visto che persone con danni per lesione diretta o compressione del cervelletto avevano prestazioni inferiori alla media nella discriminazione di due toni, così come nel riconoscimento di parole quasi omofone in inglese come rapid (rapido) e rabbit (coniglio). In questo caso sembra che l’accuratezza, la capacità di modulare la prestazione su una gamma di gradazioni sia stata compromessa dalla lesione cerebellare.
NICOLE CARDON – Molto interessante. Questo è stato riscontrato anche per
funzioni diverse da quelle uditive?
GIUSEPPE
PERRELLA – Si. E credo che appartenga a questa stessa categoria concettuale, se
non fisiologica, la riduzione della gamma di emozioni in adulti e bambini con
lesioni cerebellari. Dopo aver acquisito la lesione si riscontra, in molti,
un’apparente scomparsa della sensibilità a piccoli stimoli piacevoli o
spiacevoli in grado di emozionarli e, all’opposto, un eccessivo turbamento per
emozioni che in precedenza producevano un effetto moderato. Come se fossero
quasi apatici, torpidi o iposensibili al di sotto di una certa soglia ed
esagerati qualora questa soglia venga superata. Al Massachusetts General
Hospital hanno condotto su bambini ed adulti esperimenti che sembrano
confermare questa ipotesi nel confronto con la media delle risposte normali.
NICOLE CARDON - Sono un po’ più estremi, perdono le sfumature intermedie,
è così? Ed è stato confermato un ruolo nella dislessia?
GIUSEPPE PERRELLA – Bisognerebbe prima
definire con precisione il concetto di dislessia e, a mio avviso, rivederlo
rispetto all’attuale definizione troppo ampia e generica. Tuttavia la risposta
può essere affermativa in linea generale per le dislessie patologiche di un
certo grado, perché in questi casi si è dimostrato un livello marcatamente più
basso di attività cerebellare rispetto ai normodotati. D’altra parte questo lo
si è riscontrato in altre condizioni etichettate come disturbi
dell’apprendimento. La base neurofunzionale potrebbe essere la stessa.
Ovviamente quando si riscontrano più lesioni o una generale atrofia-ipotrofia,
con i criteri di imaging funzionale non possiamo distinguere quanto la minore
attività cerebellare sia causa, quanto sia effetto di altri deficit.
NICOLE CARDON – Se hai ancora
qualche minuto volevo chiederti…
GIUSEPPE
PERRELLA – Si, certo ho
ancora un po’ di tempo.
NICOLE CARDON – Nei casi in cui si conosce e si prevede la sequenza
temporale dei sotto-processi, non si potrebbe con le tecniche di imaging
funzionale più recente misurare i tempi per definire la localizzazione
cerebellare di una parte dell’algoritmo?
GIUSEPPE
PERRELLA – No. Perché, come sai, i tempi di percorrenza degli stimoli lungo le
vie nervose, si misurano in decine di millisecondi, mentre tecniche come la
PET, per acquisire ed elaborare i dati di ogni scansione, richiedono almeno 40
secondi. La PET e la SPECT hanno ottima risoluzione funzionale, bassa
risoluzione spaziale e sono cieche ai processi di elaborazione.
NICOLE CARDON – E la PET-TC?
GIUSEPPE
PERRELLA – Migliora di gran lunga la risoluzione spaziale della PET, che come
tutte le indagini di Medicina Nucleare è una fotografia della funzione, non
della morfologia. Per lo studio della funzione ci sono oggi anche tutte le
varianti funzionali della Risonanza Magnetica Nucleare che era all’inizio
l’immagine morfologica e statica per eccellenza; è la cosiddetta fRMN, con le
tecniche che adoperano il chemical shift, ecc. Ma il problema è dato dalla
velocità dei processi biofisici e biochimici di conduzione e trasmissione del
potenziale lungo gli assoni. E’ un problema di risoluzione temporale.
NICOLE CARDON – Non si può fare nulla per superare questo gap?
GIUSEPPE
PERRELLA – Per la risoluzione temporale bisogna ricorrere ai Potenziali
Cognitivi Evocati ed alla Magnetoecefalografia, ma in questo caso ci si scontra
con altri limiti.
NICOLE CARDON – Scusa la parentesi,
torniamo al cervelletto, Dicevi?
GIUSEPPE
PERRELLA – Non ricordo, comunque gli studi di neuroimaging sono e saranno
ancora molto importanti per capire il ruolo del cervelletto. L’anno scorso uno
studio di neuroimaging condotto presso il National Institute of Mental Health
ha inequivocabilmente dimostrato che i bambini affetti dalla sindrome di
Deficit dell’Attenzione con Iperattività avevano tutti il cervelletto più
piccolo delle dimensioni normali.
NICOLE CARDON – Incredibile. Pensavo che alla base di questa sindrome ci
fosse solo un ridotto numero di connessioni inibenti nella corteccia
neoencefalica, in termini di interneuroni differenziati e sinapsi inibitorie,
come accade per effetto di lievi lesioni ipossiche neonatali.
GIUSEPPE
PERRELLA – Non si sa, però, quanto l’ipoplasia cerebellare sia rilevante ai
fini delle manifestazioni della sindrome.
NICOLE CARDON – Ma, da quello che hai detto, sembra che i neurofisiologi
e i neurobiologi che conoscano bene l’anatomia e la fisiologia del cervelletto
non siano stati sorpresi da queste scoperte. Tu non hai trovato niente di nuovo
o sorprendente nei risultati più recenti?
GIUSEPPE
PERRELLA – Si, personalmente sono stato colpito dall’attivazione del
cervelletto nella fame, nella sete e in persone che avvertono sensazioni
claustrofobiche e fame d’aria. Forse perché le nozioni “classiche” ci portano a
ritenere il controllo delle funzioni vegetative completamente affidato ai
centri ipotalamici, troncoencefalici e midollari e le emozioni come una
questione di rapporto fra il lobo limbico e la corteccia. Lo stesso Joseph Le
Doux ne è rimasto veramente sorpreso. Se questi dati saranno confermati dovremo
concepire delle procedure cerebellari di cui si servono anche i sistemi
vegetativo e limbico. Ma continueremo questo discorso in un seminario…
NICOLE CARDON - Certo, magari nel journal club o in un seminario, vedremo
cosa si riuscirà ad organizzare. Ti ringrazio e ti do appuntamento a giovedì
prossimo qui a Firenze e, al più presto, per una nuova intervista.
BM&L-Ottobre 2003
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