PERCHE’ LA RISONANZA MAGNETICA FUNZIONALE INGANNA

 

 

L’interpretazione delle immagini cerebrali e, in particolare, di quelle ottenute mediante Risonanza Magnetica Funzionale (RMF o fMRI da functional Magnetic Resonance Imaging) per lo studio della fisiologia dell’encefalo, ha costituito un argomento di interesse, riflessione e dibattito da parte dei soci di BM&L-Italia fin dalla nascita della società scientifica, ed è stata oggetto di scritti pubblicati su questo sito (si veda, ad esempio: Note e Notizie 25-05-05 Una nuova frenologia con la risonanza magnetica funzionale, e si scorra l’elenco delle “Note e Notizie” per gli altri).

Oggi, anche alla luce dell’accertamento del ruolo degli astrociti nella mediazione fra neuroni e flusso ematico alla base della formazione delle immagini, vogliamo riassumere in sei paragrafi i motivi che ci inducono a dubitare delle conclusioni fisiologiche -anche quelle più estesamente condivise- tratte unicamente dai risultati ottenuti con questa metodica.

 

Reazione cerebrale ad un ambiente artificiale. Il soggetto da esaminare è posto entro uno spazio angusto che, di fatto, è il lume di uno tubo nel quale sa di dover rimanere passivamente immobile; l’ideale immobilità assoluta del capo è facilitata da rincalzi di materiale sintetico all’interno del dispositivo di adattamento alla superficie cranica (head coil) che, in gergo, si chiama “gabbia”. In queste condizioni, è noto che il 20% delle persone sviluppa sintomi claustrofobici ma, a questa stima scientifica di una sintomatologia ben definita, si devono aggiungere reazioni ansiose minori, stati di allarme e allerta che spesso non sono dichiarati, sia per una scelta del soggetto, sia perché non del tutto coscienti. Oltre le reazioni psichiche di disagio, è ragionevole supporre che anche la semplice consapevolezza del luogo e dello stato così particolare e insolito in cui ci si trova, possa generare una risposta neurale non del tutto irrilevante per molte delle prove cui si sottopongono i soggetti.

In altre parole, la condizione percepita dalla persona introdotta nell’apparecchio per la fMRI negli esperimenti standard, in cui preme dei bottoni mentre vede delle immagini, è ben diversa da quella di chi esegue le stesse prove seduto comodamente davanti ad uno schermo in un ambiente spazioso e ben illuminato, ed è poco probabile che nelle due condizioni si abbiano patterns neurofunzionali identici.

 

Le scansioni sono misure indirette dell’attività neuronica dell’encefalo. Dalla sua introduzione avvenuta negli anni Novanta, la fMRI è stata impiegata in oltre 19.000 studi, anche se non si conosceva la base cellulare dei processi sfruttati per ricavare i reperti indicatori di attività. Mriganka Sur, con i suoi colleghi del MIT, recentemente ha individuato le cellule mediatrici, aggiungendo alle interpretazioni delle immagini un livello di complessità del quale, d’ora innanzi, si dovrà tenere conto.

Studiando il cervello di furetto mediante tecniche di microscopia bifotonica, i ricercatori del MIT hanno rilevato che la risposta neuronica registrata nell’ordine dei millisecondi, è seguita dall’attivazione degli astrociti alcuni secondi dopo, con un intervallo di tempo che corrisponde a quello richiesto dal flusso sanguigno per attivare le regioni cerebrali nella fMRI. Quando è stata bloccata la funzione degli astrociti, i neuroni cerebrali del furetto hanno continuato a rispondere agli stimoli visivi come accaduto negli esperimenti precedenti, ma non si è più avuto il caratteristico incremento del flusso ematico locale che è alla base delle immagini funzionali.

La fMRI misura, in realtà, l’attivazione degli astrociti, la cui diretta partecipazione alla trasmissione del segnale (in alcuni casi) e alla redistribuzione dell’eccitazione (più in generale) è attualmente oggetto di intense ricerche. Il sistema gliale astrocitario agisce di concerto con i neuroni, ma è pur sempre un esteso e variato insieme cellulare diverso, soggetto ad influenze genetiche ed ambientali distinte da quelle delle cellule nervose.

 La funzione è dunque rilevata indirettamente e, pertanto, la fedeltà delle rappresentazioni si suppone non sia assoluta, anche se la collocazione topografica delle aree attive è molto più precisa di quella ottenuta in precedenza con SPET e PET, perché si avvale della metodica con la più alta risoluzione spaziale e tonotopica che si conosca. E’ opportuno ricordare, in proposito, che in passato non era possibile ottenere immagini dell’encefalo in vivo, eccetto tracce radiologiche elaborate al computer (tomografia computerizzata o TC) dei suoi volumi e della sua densità in sezioni trasversali (orizzontali)[1]. Soltanto la RM, infatti, ha consentito di realizzare una tomografia del cervello vivente, diretta in ogni piano di sezione e capace di visualizzare la sostanza bianca[2] e le aree grigie corticali e nucleari, evidenziando con estrema precisione il disegno anatomico di centri e vie, così come il profilo di tutte le formazioni molli che alloggiano nelle strutture neurocraniche e vertebrali.

Anche la straordinaria resa morfologica della metodica di base, tuttavia, non è esente da limiti, e vediamo perché.

Come è noto, la MRI si basa sulla proprietà intrinseca di nuclei atomici come quello di idrogeno (H) di ruotare (spin) ciascuno con un proprio verso, allinearsi per effetto di un campo magnetico e, quando investiti da un impulso a radiofrequenza (RF), “risuonare”, ossia cedere energia riportandosi allo stato precedente. Le differenze nel segnale emesso dai singoli nuclei costituiscono la base per la ricostruzione computerizzata dell’immagine[3]. La frequenza della risonanza dipende dalla forza del campo magnetico, che varia lungo la struttura tubolare dell’apparecchio ed è lievemente più alta all’estremità cefalica, dove la risposta protonica del tessuto cerebrale sarà lievemente diversa.

Si deve anche notare che l’allineamento riguarda una proporzione di circa uno per un milione di atomi (sul totale di circa sette octilioni di atomi che costituiscono il corpo) che possiamo ritenere sufficiente per la resa morfologica e in generale per fini medici, ma non abbiamo parametri di riferimento certi per affermare che sia adeguata per fornire le risposte ai quesiti funzionali dei ricercatori.   

 

I colori esagerano gli effetti dell’attività focale, creando un artificioso squilibrio rispetto all’attività globale. La differenza nei livelli di attivazione è in genere minima e, in ogni caso, mai particolarmente marcata; in una gamma non molto estesa, l’estremo maggiore si considera convenzionalmente espressione di elevata attività. Nella procedura di attribuzione del colore comunemente adottata, si colora in rosso un aumento funzionale facilmente rilevabile, sottraendo tutto ciò che, più o meno arbitrariamente, si considera “rumore”. Un’area con un’apprezzabile incremento funzionale diviene, così, una macchia intensamente rossa con margini artificialmente e nettamente delimitati rispetto allo sfondo costituito da vari toni del grigio. Una simile immagine suggerisce un blocco neurale concentrato di attività che, di fatto, non è stato registrato. Ben si comprende che una sezione di encefalo che presenti, ben distanti sulla sua superficie, alcuni di questi spots, all’interno dei quali la massima intensità è rappresentata dal giallo-bianco[4], induca l’osservatore a figurarsi una funzione per moduli separati con piccole aree, corrispondenti ai picchi di attività, alle quali attribuire il ruolo principale nel compito fisiologico in esame.

 

Le stesse aree dell’encefalo si attivano in molte funzioni e per varie ragioni. Al condizionamento dovuto alla realizzazione delle immagini, nell’interpretazione del loro significato si aggiunge la tendenza ad associare un’area esclusivamente alla funzione più studiata fra quelle alle quali prende parte. Ad esempio, se si mostra ad un volontario la fotografia di sua moglie e si rileva una chiazza rossa e gialla in corrispondenza del nucleo del giro del cingolo, si conclude che costui ha manifestato sentimenti conflittuali per la consorte, perché è ben noto che i neuroni di questa formazione si attivano nel conflitto. Si trascura che il nucleo del giro del cingolo, per ciò che ne sappiamo, partecipa ad altre 57 funzioni distinte.

Si pensi alla corteccia prefrontale di destra che si attiva in tutte le prove che, per diversi motivi, risultano difficili per il soggetto. Questa stessa area è risultata attiva, insieme con altre, quando una persona pensa al denaro e ciò è stato sufficiente perché alcuni studiosi di economia la considerassero un “centro cerebrale” di proprio interesse.

L’amigdala, che più correttamente dovremmo definire complesso nucleare amigdaloideo, nella routine interpretativa è associata quasi esclusivamente alla paura e solo raramente all’eccitazione sessuale, ma l’attivazione dei suoi neuroni segnala una sorpresa gradita o la presenza di stimoli percettivi collegabili a sensazioni di piacere, sia di tipo biologico elementare sia, in dipendenza della nostra sensibilità e formazione, di tipo artistico e culturale. Così, l’amigdala segnala la presenza nel nostro campo visivo di un piatto appetitoso, di una bella ragazza, di un’auto di lusso, di uno straordinario dipinto, di una scultura grandiosa, e si attiva anche alle prime note del nostro brano musicale preferito[5].  

Quando le attribuzioni funzionali sono fatte sulla base di consolidate conoscenze che vedono convergere i dati di anatomia clinica, a lungo dominanti in neuropsicologia, con quelli elettrofisiologici, la probabilità che siano corrette è molto più elevata. Ma anche in questi casi, che riguardano le basi neurali distinte delle funzioni percettive, cognitive, linguistiche e affettivo-emozionali, si commettono errori se le funzioni concepite secondo l’esperienza fenomenica che tutti ne abbiamo, sono confinate nella loro interezza in un comparto cerebrale. Ad esempio, si è soliti attribuire alla corteccia neoencefalica l’elaborazione razionale ed alle strutture troncoencefalico-limbiche quella affettivo-emotiva ma, probabilmente, una parte importante della peculiarità di ciascuna funzione dipende dal tipo di interazioni fra la corteccia e le strutture degli altri segmenti dell’encefalo.

Si deve anche osservare che le aree cerebrali possono essere attivate da vari stimoli, ma la logica di attivazione seguita dall’organizzazione cerebrale può essere diversa dalla logica presunta dal ricercatore.

 

Le immagini sono il prodotto di compilazioni statistiche. Durante una sessione sperimentale, che può durare da 15 minuti a 2 ore, lo scanner scatta istantanee della rapida attività neuronica solo ogni due secondi, realizzando da centinaia a migliaia di immagini. Concluso l’esperimento, si fanno correzioni per i movimenti del capo, per le differenze di dimensione fra i cervelli e per le variazioni anatomiche nella posizione delle principali strutture. Si allineano, poi, le immagini dei singoli soggetti, si combinano i dati e si estraggono le medie di tutto il campione. Si impiega un software statistico per convertire i dati grezzi nelle immagini e per correggere gli effetti di “disturbo” determinati da tutte le altre possibili variabili.

E’ importante ricordare, dunque, che le immagini fMRI dei comuni studi sperimentali non riproducono l’attività dell’encefalo di una singola persona, ma sono elaborazioni statistiche dell’intero pool di volontari, dalle quali viene escluso ogni elemento “estremo” o ritenuto spurio e, sia pur lievemente, si altera il dato in due modi: rinforzando il reperto di maggioranza su un piccolo numero e, come abbiamo visto in precedenza, enfatizzando il contrasto delle aree più attive.

 

La specificità funzionale non è confinata in singoli agglomerati di pirenofori, ma è il prodotto di complesse elaborazioni di rete in parte mute al rilievo fMRI. E’ vero che un certo numero di reti neurali interconnesse appare localizzato o raccolto in forme morfologicamente simili ad unità modulari, ma il complesso delle conoscenze neurobiologiche degli ultimi decenni ci indica chiaramente che la maggior parte dell’organizzazione morfo-funzionale macroscopica dell’encefalo è costituita da reti estese e distribuite. Generalmente si indicano come esempi di localizzazione funzionale le aree visive primaria e secondaria, e le aree di Broca e Wernicke, ma anche questi esempi sono appropriati se ci riferiamo a parti di una funzione. Infatti, la funzione visiva nel suo complesso impegna 32 aree corticali e, anche se la lesione nell’area di Broca è sufficiente per causare una grave afasia motoria, per la comunicazione verbale è necessaria l’attività di numerosi centri sottocorticali e la partecipazione di altre aree della corteccia.

Da notare anche che la stessa fMRI ha permesso di rilevare la partecipazione del cervelletto alla maggior parte delle funzioni sensoriali e motorie testate, rivelando l’intervento di questa struttura nell’elaborazione percettiva, nel linguaggio, nel sonno, nell’attività alimentare, ecc. (Si veda: Intervista a Giuseppe Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze).  

Un altro e non meno importante problema è dato dalla ratio che sottende il modo in cui si cerca il sostrato di una funzione specifica. La maggior parte dell’attività cerebrale non è indotta da stimoli come quelli adoperati negli esperimenti, ma è spontanea. Pertanto, per poter riconoscere le “figure funzionali” in un esperimento stimolo/risposta, bisognerebbe essere in grado di distinguere ed escludere lo “sfondo” costituito dall’attività spontanea. A questo scopo, in alcuni studi sono stati elaborati disegni sperimentali molto accurati, ma sembra che i risultati ottenuti in tal modo non si siano discostati molto da quelli attesi con protocolli standard.

E’ opinione comune che la costante attività della miriade di reti locali e globali che costituiscono l’encefalo umano, assicurerebbe il controllo autonomo basale e la funzione psichica di base attuale mediante eventi neurotrasmissivi di brevissima durata e processi di più lunga durata che non richiedono apporti extra da parte del flusso sanguigno, ossia mediante due modalità funzionali che sfuggirebbero al rilievo da parte della fMRI. Ma è necessario ricordare che si ritiene ciò solo in via ipotetica, perché non si sa quasi nulla di questa attività di fondo e non si può escludere che i circuiti attivati durante gli esperimenti, nelle risposte a stimoli sfruttino processi di base o abbiano componenti mute alla fMRI.

 

L’autore ringrazia Giuseppe Perrella, Presidente della “Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia”, con il quale ha discusso ed elaborato il manoscritto.

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-Dicembre 2008

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: NOTA DI AGGIORNAMENTO]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Perché quelle sagittali e coronali (verticali) non sono ottenute dal fascio diretto di raggi X, ma sono ricostruzioni elettroniche (MPR) realizzate mediante un software e basate sui dati delle sezioni trasversali poste in pila; di fatto si tratta di immagini fittizie, inutili per lo studio del cervello.

[2] Soprattutto le acquisizioni in T2 hanno costituito una vera e propria rivoluzione nel campo della diagnostica, consentendo di studiare e seguire le malattie demielinizzanti dell’encefalo, le lesioni da ictus, i tumori, ecc.

[3] Si rimanda ai trattati di diagnostica per immagini per una precisa descrizione delle basi fisiche e tecnologiche della metodica.

[4] La gamma cromatica, impiegata da decenni in metodiche di medicina nucleare quali SPET e PET, è ben nota a medici e ricercatori, ma ciò non rende immuni da effetti suggestivi legati alla psicologia della percezione.

[5] Sembra che l’amigdala si attivi anche quando si odono, ad un concerto, frequenze gravi come quelle dei timpani e degli ottoni bassi ad un volume molto elevato. In questo caso, pur avendosi ugualmente la mediazione dell’area 41 come in ogni percezione acustica, la risposta-segnale è maggiormente assimilabile a quella prodotta dalla paura.