DIBATTITO

LA TERAPIA GENICA

 

 

 

E IL CASO GELSINGER

 

Alcuni soci di BM&L-Italia hanno dato vita ad un dibattito che, prendendo le mosse dal caso del diciottenne Jesse Gelsinger morto nel corso di un esperimento di terapia genica, ha spaziato su molti argomenti riguardanti i problemi della ricerca su esseri umani.

Utile premessa alla comprensione del dibattito può essere la lettura della nota dello scorso anno ("Jesse Gelsinger sognava una cura per tutti quelli che soffrono di mali come il suo" in Note e Notizie, 31-10-03) con la quale si introdusse una prima discussione su questo tema e della nota a questa correlata ("Glioma: la viroterapia come nuova frontiera" in Note e Notizie, 25-10-03).

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SONO INTERVENUTI: RITA CADONI, NICOLE CARDON, ISABELLA FLORIANI, MONICA LANFREDINI, OLIVIER MATHIEU, GIUSEPPE PERRELLA, LUDOVICA POGGI, DIANE RICHMOND, FILIPPO RUCELLAI.

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LA TERAPIA GENICA E IL CASO GELSINGER

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Nicole Cardon: Poiché ho l’ingrato compito di avviare il dibattito e non ho avuto il tempo di prepararmi un discorso introduttivo, mi limiterò a richiamare alla mente qualche riferimento alla nota apparsa sul nostro sito che voi tutti conoscete. Jesse Gelsinger era un ragazzo di diciotto anni affetto da una forma lieve di deficit di ornitina-transcarbamilasi (OTCD), una condizione ereditaria che nel suo caso si era espressa con una malattia del fegato non molto grave. Jesse, che sognava una cura per tutti coloro che erano affetti da una patologia come la sua, fu incluso fra i volontari per la sperimentazione clinica di una nuova terapia genica presso l’Istituto per la Terapia Genica Umana dell’Università della Pennsylvania. Degli Adenovirus modificati, fungendo da vettori, avrebbero dovuto portare nelle sue cellule epatiche una copia del gene sano, ossia in grado di codificare correttamente l’ornitina transcarbamilasi, eliminando gli effetti del deficit. Dopo quattro giorni dalla somministrazione il ragazzo morì. Al di là dell’imperizia dei ricercatori e delle norme più severe introdotte dall’FDA, mi sembra di ravvisare una generale imprudenza nella sperimentazione su esseri umani in ambiti che richiederebbero prima una migliore conoscenza di base. Conoscete la mia opinione, sicuramente impopolare, ma che ho già espresso nella nota: è presto per la terapia genica.

 

Diane Richmond: Un ricercatore è, insieme, uno studioso e un esploratore: è qualcuno che sente la tensione dell’avventura di scoprire, che ha … Come si dice in italiano? Ardimento?

 

Isabella Floriani: Azzardo.

 

Diane Richmond: Non era questa la parola che cercavo… Anche se, certo, cercare veramente il nuovo può essere un azzardo. Voglio dire che è uno che sente la tensione positiva della sfida, l’entusiasmo di provare ad illuminare il buio di uno spazio ignoto. Anche se magari non troverà mai nulla di nuovo. La differenza fra un critico della letteratura e un pioniere della scienza è questa, a mio parere. Il ricercatore non ha solo rapporti con idee e concetti ma studia la materia, trova cose che può vedere, anche se nella dimensione molecolare. Trova davvero qualcosa…

 

Filippo Rucellai: D’accordo sullo spirito di avventura del ricercatore che sfida il rischio, ma dovrebbe farlo a proprie spese, non rischiare la vita di altri…

 

Nicole Cardon: Appunto, come Ricketts e Prowazek che si immolarono per la scoperta della rickettsia che causa il tifo esantematico…

 

Monica Lanfredini: Quella era la stagione epica ed eroica della ricerca che emergeva da una diversa realtà socio-antropologica… Non imperava il relativismo, la frammentazione del senso, la soggettività dei valori, il potere economico-finanziario delle imprese di ricerca…

 

Filippo Rucellai: Gli scienziati avevano i pantaloni con le pezze al culo e non erano miliardari come Fred Gage…

 

Diane Richmond: Soprattutto avevano una loro struttura interiore di tipo fortemente morale, sia che fosse laico-filantropica, come accadeva per gli agnostici, sia che fosse d’ispirazione cristiana…

 

Nicole Cardon: Concordo senz’altro, ma non vorrei che ci allontanassimo dalla questione che stavamo specificamente affrontando, in un discorso generale e generico sul bel tempo che fu che, magari, non è mai esistito… Perché la ricerca non regolamentata e protetta, affidata solo alla responsabilità del ricercatore ha, nella storia, prodotto crimini e mostruosità e, a dire il vero, anche i suicidi per “salvare” il mondo mi fanno rabbrividire. Non dimentichiamoci che è stato il Tribunale di Norimberga che processava i criminali nazisti a fissare -ricordo perfino la data: il 19 agosto del 1947- le norme sulla sperimentazione umana che dichiaravano obbligatorio il consenso, e tutte le condizioni che ne definivano i vincoli etici…

 

Ludovica R. Poggi: E la dichiarazione di Helsinki del 1964 che definisce i suggerimenti per la sperimentazione umana, riferendosi alla missione del medico che deve essere quella della salvaguardia della salute delle persone, impegnando ogni suo sforzo di conoscenza al compimento di questa missione…

 

Nicole Cardon: Si, si, sono molte le dichiarazioni, i codici

 

Ludovica R. Poggi: No, voglio dire che sentendo certi dibattiti televisivi sembra che sia nato tutto con la bioetica ieri mattina…

 

Filippo Rucellai: Quello della bioetica è un altro colossale business…

 

Nicole Cardon: Sono d’accordo con Ludovica, certo. Ma stavo cercando di articolare un altro pensiero. Voglio dire che se cercare il nuovo comporta dei rischi, questi devono esse “calcolati” sulla base di ciò che già si conosce per la tutela del volontario che si offre alla sperimentazione. Questo non è stato fatto nel caso di Gelsinger e, temo, in molti altri casi in cui formalmente si rispettano leggi e regolamenti, ma materialmente  -per servire altri interessi- li si infrange.

 

Monica Lanfredini: Chiedo scusa, ma volevo inserirmi al punto del riferimento al Tribunale di Norimberga. Perché è uno spunto estremamente interessante per collocare il nostro dibattito in uno spazio storico. Dal Medioevo, per tutta l’Età Moderna fino all’epoca contemporanea, l’Europa è stata dominata dall’etica ebraico-cristiana. Dopo la fine del Sacro Romano Impero, il potere continua, pur trasgredendola nel proprio operato, ad impiegare e diffondere la morale cristiana alla quale sono sempre ispirati i codici legislativi. Avremo, poi, i cattolicissimi sovrani e, con la riforma luterana, i rigorosissimi protestanti in frequenti posizioni di potere politico-culturale; abbiamo la monarchia anglicana nelle isole britanniche che consentirà, nei secoli, l’espressione del puritanesimo, e così via. Questa tradizione ha dato luogo a leggi protettive e prudenti nei confronti della vita umana, ma che non esitiamo a definire oscurantiste ogni volta che abbiano impedito il progresso delle conoscenze. Dal divieto di fare autopsie, che progressivamente portò il sapere medico ad una decadenza frenata solo da quelle scuole mediche che, per vie avventurose, avevano custodito il sapere anatomico degli antichi Greci…

 

Filippo Rucellai: Scusami, ma temo che l’excursus storico ci porti lontani, immagino che parleresti del salvataggio da parte dei medici ebrei, via traduzione in arabo dei testi ippocratici, della cultura scientifica in medicina e dell’evoluzione dell’etica greco-romana in epoca pre-cristiana…

 

Monica Lanfredini: No, no, finisco subito, prometto! Volevo solo dire che il riferimento al Tribunale di Norimberga è stimolante, perché in quel periodo, nel Novecento, il nazismo ha rappresentato l’unica grande eccezione ideologica al cristianesimo. La concezione dell’uomo nazista si fondava largamente su un neopaganesimo costruito a tavolino da ideologi, scienziati e storici del Terzo Reich, per i quali tutti è necessario il prefisso pseudo-. L’ideologia di fondo del nazismo era un neopaganesimo, non un cristianesimo aberrante, come scrivono in questi giorni giornalisti e presunti intellettuali. Pensate alle sfilate di carri montati da donne nude, sorta di baccanti della mitologia germanica! Hitler e gli ideologi del nazismo erano cristiani tanto quanto i giacobini erano monarchici: era la cultura di nascita cui si opponevano. Cristo batte Platone con la tesi estremistica della uguale dignità di tutti gli uomini che assomiglia all’ “egalité” che, insieme con altre componenti micidiali, aveva creato i presupposti per il lassismo, la crisi economica ed il degrado della Repubblica di Weimar, dalle cui ceneri nasce il nazismo, proprio come Platone aveva profetizzato nel VIII libro della Repubblica. E’ importante, a mio avviso, averlo presente.

 

Ludovica R. Poggi: Non conosco questo passo della Repubblica di Platone, cosa dice?

 

Isabella Floriani: Ne so una parte a memoria: “Accade che chi si dimostra disciplinato venga dipinto come un uomo senza carattere, un servo. Accade che il padre impaurito finisca col trattare i figli come suoi pari e non è più rispettato, che il maestro non osi rimproverare gli scolari e che questi si facciano beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti dei vecchi e per non sembrar troppo severi i vecchi li accontentino. In tale clima di libertà, e in nome della medesima, non v’è più rispetto e riguardo per nessuno. E in mezzo a tanta licenza nasce, si sviluppa, una mala pianta: la tirannide”.

 

Monica Lanfredini: Brava, Isabella!

 

Giuseppe Perrella: E’ una pagina immortale, comincia così: “Quando un popolo divorato dalla sete di libertà si trova ad avere coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo…”. E’ interessante notare che l’esperimento di morale non cristiana del nazionalsocialismo hitleriano abbia portato in Europa a quegli orrori. Ma il nazismo non è stata  l’unica esperienza socio-culturale non cristiana…

 

Monica Lanfredini: Nell’Ottocento abbiamo una forte morale laica in Europa in due soli grandi esempi: quello francese con tutti gli epigoni e proseliti di Voltaire, Rosseau e Montesquieu, e quello italiano delle grandi figure risorgimentali, prima fra tutte quella gigantesca di Giuseppe Mazzini che, da Londra e attraverso la Giovane Europa, ebbe una straordinaria influenza sul pensiero politico continentale. Ma la questione è che i valori sostanziali come l’assoluto rispetto della vita, dell’infanzia, della donna, del lavoro, delle persone economicamente deboli, oppresse ed ammalate, eccetera, sono identici. La differenza è nella sfera delle libertà individuali e nei limiti posti al rispetto delle opinioni altrui.

 

Giuseppe Perrella: Hai citato Rousseau, ma tralasci la parte illuministica del pensiero di Kant che viene spesso citata come la maggiore radice laica del pensiero mitteleuropeo, se si eccettua Hegel…

 

Monica Lanfredini: Si, perché considero Kant un cristiano camuffato…

 

Giuseppe Perrella: Scusa, completa l’articolazione del tuo pensiero. Dicevi -se ho ben capito- che il quadro legislativo relativo ai diritti dell’uomo -come diremmo con linguaggio attuale- per secoli è stato largamente influenzato dalla morale cristiana per cui ce ne lamentiamo considerandone gli aspetti negativi quale freno per lo sviluppo della scienza, come nel caso del divieto della dissezione dei cadaveri, le persecuzioni e le condanne del Tribunale della Santa Inquisizione, di cui prendiamo a simbolo Galileo Galilei, e così via. Ma, per contro, non abbiamo ancora assistito allo sviluppo di una morale laica come prodotto di una cultura coerente ed omogenea che si traduca nella forma delle leggi e nella solidità di paradigmi e costumi.

 

Monica Lanfredini: Perfettamente. Non avrei potuto dirlo meglio. Ora la questione che voglio porre e che credo sia centrale e prioritaria, quanto può esserlo una premessa che è anche un tema per il dibattito  -non me ne voglia Nicole, ma le sue interessanti tesi rientrano in questa cornice-  è questa: non possiamo pretendere la soluzione dei problemi come quello della morte di Gelsinger dalle leggi. Gelsinger è morto nonostante i rigidi regolamenti della FDA. Come dice spesso Giuseppe, si devono prima fabbricare gli uomini!

 

Giuseppe Perrella: La bildung

  

Diane Richmond: Ma come si fabbricano gli uomini se non attraverso le leggi degli affetti, della morale e del cuore che si imparano in famiglia e le leggi dello Stato che si imparano a scuola e, nel corso della vita, come cittadini?

 

Monica Lanfredini: Si, ma in questo modo tutto è legge… Mi riferivo alle leggi come forme scritte, espressione degli obblighi dati dalla classe dominante…

 

Filippo Rucellai: Ma non è così in democrazia… Ci vorrebbe un giurista. Stasera non ce ne sono.

 

Nicole Cardon: Le leggi sono espressioni della cultura dei legislatori e, in forma più lata, di una società…

 

Diane Richmond: Forse sono troppo pragmatica, stile common law, ma credo che, di fatto, sia necessario fare ricorso a dei divieti. Pochi, pochissimi limiti, per non frenare l’entusiasmo e il desiderio di sapere che ti portano a fare ricerca, ma chiari. Certo, anch’io preferirei che le regole derivassero da un insieme omogeneo e che quell’insieme coincidesse con la mia filosofia, ma non è così, oggigiorno…

 

Nicole Cardon: Lo so, tu dici leggi e regolamenti che impediscano di fare troppa filosofia e cadere nella psicologia delle giustificazioni, ossia di bias come quella della dissonanza cognitiva, che inducono il trasgressore di una regola a sostenere che è ingiusta e, magari, tendere ad eliminarla…

 

Filippo Rucellai: Vedi Berlusconi.

 

Ludovica R. Poggi: Non facciamo politica, anzi, partitica!

 

Monica Lanfredini: Se Nicole interpreta correttamente quello che pensa Diane, sintetizzerei dicendo che volete delle leggi che vi impediscano di fare errori e vi dicano come comportarvi moralmente, in modo da potervi occupare solo di scienza scaricando ad altri il problema morale…

 

Nicole Cardon: No, è molto più complessa la questione. Semplicemente interpretavo una parte del pensiero di Diane perché per anni abbiamo discusso di queste cose. Cercavo di dire, per quanto mi riguarda, da cittadina americana non mi sento rappresentata dalla legge dell’amministrazione Bush che vieta la sperimentazione sulle cellule staminali embrionarie. Non so se Monica considera chi è di turno all’amministrazione del paese classe dominante… Ma io non mi sento “dominata”…

 

Monica Lanfredini: No, diciamo che parlavo più in una prospettiva storica, non pensando al divieto sul “nuclear transfer” di Bush… Voglio dire che le leggi sono espressione di una cultura, non nascono dal nulla…

 

Diane Richmond: Forse quella sintesi che ha fatto Monica potrebbe andare bene per me, non per Nicole. In altre parole, il mio pensiero è semplice: credo che sia quasi impossibile vietare veramente la ricerca in democrazia: una legge sbagliata si può trasgredire facilmente, o indebolire. Bush è costretto a finanziare, in parte, gli istituti privati che fanno “nuclear transfer”; solo quelli pubblici non possono farlo: per loro si applica il divieto della legge. Negli USA non si può facilmente vietare qualcosa che sia privato. Nicole si pone più dilemmi morali.

 

Nicole Cardon: Certo, mi pongo più problemi morali, ma specificamente su ciò che concerne il tema del nostro dibattito. Mi sembra che si stia finendo fuori strada. Sulle staminali ho anch’io opinioni certe. Il problema è la sperimentazione sull’uomo di vettori virali per la terapia genica e di virus per la viroterapia dei tumori: siamo partiti dai gliomi.

 

Filippo Rucellai: Nicole, tu dici che anche se è vero quello che dice Monica…

 

Isabella Floriani: La professoressa Lanfredini dice, come Solone, che per avere leggi migliori ci vogliono cittadini migliori…

 

Monica Lanfredini: Esatto.

 

Filippo Rucellai: Appunto, ma Nicole dice: “comunque sia, dobbiamo parlare di terapia genica e viroterapia”, sbaglio?

 

Nicole Cardon: Non sbagli, dico questo.

 

Filippo Rucellai: Allora, anche se le tue tesi le hai esposte per iscritto, rilancia per il dibattito il concetto-chiave da discutere!

 

Nicole Cardon: Noi, con le nostre competenze dobbiamo fornire la base di riferimento in tutta onestà al responsabile del progetto di ricerca e, salendo la scala dei referenti, a tutti quelli che parlano di ricerca senza conoscerla, fino legislatore. Noi che sappiamo, abbiamo la responsabilità. Dobbiamo dire che la ricerca di base è ancora in alto mare e che i ricercatori clinici che sperimentano sull’uomo, millantano certezze che noi non possiamo dare loro. Sono assolutamente imprudenti, in molti casi, a mio avviso.

 

Giuseppe Perrella: A volte si ha l’impressione che certi direttori o responsabili di ricerca, dopo aver semplificato ed alterato in chiave estremamente ottimistica la realtà del proprio lavoro per la stampa, per le reti televisive, per gli sponsors, eccetera, finiscano col credere in ciò che dicono, dimenticando la realtà…

 

Diane Richmond: E’ vero, ad esempio la terapia del Parkinson con stem cells o cellule staminali del sistema nervoso, viene proposta nelle interviste e nei servizi di TV, radio, web, giornali, riviste, in America e in Europa, come attuale ed efficace… Invece è ancora solo una possibilità…

 

Giuseppe Perrella: Che ha dato risultati deludenti o addirittura negativi…

 

Diane Richmond: Si l’anno scorso, ricordo, ti sei confrontato con Stuart Butler al San Raffaele di Roma su questo tema e lui riferiva della sua diretta esperienza al Burden Institute di Bristol, assolutamente negativa e della review dei casi trattati nel Regno Unito, che era tutt’altro che positiva… L’avrebbero impiegata di corsa per il Papa, no?

 

Giuseppe Perrella: Infatti. Sappiamo ancora troppo poco… Lo dicevo anche ad Antonella Spolaor, quando mi chiedeva consiglio per Luca Coscioni, il presidente dei Radicali Italiani ammalato di Sclerosi Laterale Amiotrofica. Dopo il primo intervento di impianto di cellule staminali eseguito da Boccaletti non mi è sembrato che il decorso della malattia abbia subito un arresto, anzi…

 

Nicole Cardon: Boccaletti. Già. Uno che dice che la glia è un tessuto di sostegno di cui non si conosce altra funzione, non è uno di cui ci si può fidare… Troppo ignorante, anche per un chirurgo!

 

Diane Richmond (ridendo): Nicole, attenta che qui registrano tutto!

 

Nicole Cardon: Ok, lo dirò a voce più alta! Ma, per favore, ritorniamo a Gelsinger.

 

Monica Lanfredini: Si, ma prima di entrare più nello specifico di Gelsinger, qual è la vostra opinione sulla libertà di ricerca?

 

Nicole Cardon: Giuseppe può sintetizzartela meglio, perché da questo punto di vista noi tre [con Diane Richmond, n.d.r.] abbiamo la stessa visione.

 

Giuseppe Perrella: Massima e completa libertà per la ricerca di base in vitro; limitazioni per la ricerca sull’animale e sull’uomo. Ma è meglio parlarne dopo, per non perdere il filo del dibattito…

 

Nicole Cardon: Dunque, provavo a dire che se cercare il nuovo comporta dei rischi, questi devono esse “calcolati” sulla base di ciò che già si conosce per la tutela del volontario che si offre alla sperimentazione. Ho detto che questo non è stato fatto nel caso di Gelsinger e, temo, non si faccia in molti altri casi in cui solo formalmente si rispettano leggi e regolamenti, ma materialmente li si infrange.

 

Giuseppe Perrella: Viviamo in una società che sembra aver perso l’essere e per questo sia costretta a surrogarlo con le forme della sua rappresentazione come il comportamento, la mascherata del vestirsi, gli oggetti che ciascuno esibisce come status symbol e che, di fatto, rimandano ad un altro vuoto di senso… Concordo con Monica quando denuncia il difetto di formazione, la mancanza di una bildung delle persone. E questo direttamente si collega al rispetto formale delle regole, tradite nella sostanza, di cui parlava Nicole. Se tu credi profondamente nella lealtà e nel valore della vita umana, non fingerai che una metodica terapeutica o sperimentale sia più efficace o più sicura di quanto non sia in realtà…

 

Monica Lanfredini: I valori etici rispettati dagli uomini del Risorgimento, che li rendono così nobili ai nostri occhi, non venivano dalle leggi di uno Stato.

 

Giuseppe Perrella: Ma da una realtà culturale le cui radici antropologiche costituivano qualità umana. Anche se, quando parliamo di soggetti storici, dovremmo ricordare la differenza di prospettiva che c’è fra l’essere di fronte ad una persona reale ed ascoltare il racconto di una sua descrizione e, prudentemente, supporre che si possa essere più vicini ad un mito che ad una realtà.

 

Diane Richmond: Monica, Giuseppe dice che mitizzi gli eroi del Risorgimento! Scherzo.

Conosco ricercatori che non capiscono nulla di quello che fanno, né se ne preoccupano minimamente; al più hanno un superficiale know-how delle tecniche che impiegano, poi, una sfrenata ambizione di carriera e molte idee nutrite di astuzia per soddisfarla.

 

Filippo Rucellai: Mi interessava quella questione dei regolamenti etici, perché io ho letto saggi ed articoli di bioetica e, mi sembra, che gli esperti di quel settore si siano anche creati una propria storia, scegliendosi i propri “antenati”… non si parla di Norimberga, Helsinki…

 

Ludovica R. Poggi: Non sempre, i libri che si propongono come manuali o trattati di bioetica generalmente hanno un’introduzione storica molto ecumenica. E’ sull’origine della bioetica come disciplina che esiste una “mitica” ed una “mistica” di settore.

 

Filippo Rucellai: L’altro anno quando è venuto a Firenze Monsignor Ersilio Tonini, ho sentito che ne dava la stessa origine dei bioeticisti di sinistra: una disciplina nata in seno ad una facoltà di ingegneria americana.

 

Nicole Cardon: La bioetica è una cavolata, di quelle che vengono riempite di tante cose giuste che poi, alla fine, ti sembra anche accettabile. Voglio dire che è uno dei nuovi contenitori di mercificazione culturale che serve a vendere un finto-nuovo prodotto che si realizza mettendo insieme morale, deontologia e codici del passato con qualche nuova idea che appaia come la morale del nuovo millennio ai gonzi che non vedono che si tratta di una piccola coperta che copre a stento l’unica cosa veramente nuova: gli interessi economici legati alle nuove biotecnologie.

 

Ludovica R. Poggi: E’ un’analisi terribile!

 

Diane Richmond: Troppo pessimistica, forse. Hai detto: “ti sembra anche accettabile” cosa intendi?

 

Nicole Cardon: La messinscena. Ma solo se dimentichi perché e come è veramente nata: nasce dalle commissioni interdisciplinari. Una commissione etica e deontologica in un ospedale, in una facoltà di medicina, ecc., è sicuramente un’ottima cosa. A patto che i partecipanti siano veramente interessati in scienza e coscienza agli argomenti trattati e veramente preparati per affrontarli; altrimenti meglio fare ricorso alla cultura scritta, all’etica filosofica del passato, all’umanesimo laico o, se si vuole, alle grandi religioni ed appellarsi alla coscienza individuale dei professionisti.

 

Diane Richmond: Ricorderei, per il dibattito, che la nascita istituzionale della bioetica si fa risalire alla fondazione da parte dello psichiatra Willard Gaylin e del filosofo Daniel Callahan dell’Institute of Society, Ethics and Life Sciences, a New York nel 1969.

 

Filippo Rucellai: Ma non era l’Hastings Center il primo istituto di bioetica? Prima di venire al dibattito ho sfogliato gli indici di un paio di annate della rivista Hastings Center Report sperando che ci fosse qualcosa di utile per essere più preparato…

 

Diane Richmond: L’Institute of Society, Ethics and Life Sciences è popolarmente noto come Hastings Center: è la stessa cosa.

 

Filippo Rucellai: Il popolo ringrazia per la precisazione!

 

Giuseppe Perrella: Un’altra rivista di prestigio che tratta argomenti di bioetica è quella pubblicata dall’Università di Princeton: Philosophy and Pubblic Affairs.

 

Monica Lanfredini: Un punto di riferimento importante è anche l’Encyclopaedia of Bioethics del 1978.

 

Nicole Cardon: Come dicevo: un contenitore creato per le idee di una lobby, che poi viene riempito di tante cose giuste e, alla fine, ti sembra anche accettabile. L’Encyclopaedia of Bioethics è un prodotto realizzato da una lobby cattolica, quella di Joseph e Rose Kennedy che fondarono l’Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics, per combattere l’aborto, ovvero la lobby pro-choice

 

Monica Lanfredini: Non lo immaginavo…

 

Nicole Cardon: E’ tutto così… C’è da farsi poche illusioni. Diane ha citato i fondatori dell’Hastings, ma non ha detto i veri motivi per cui fu creato: Daniel Callahan era l’animatore di una potente lobby a favore dell’aborto; una lobby di sofisticati Manhattan’s New Yorkers e Fat Cats, di quelli che frequentano psicanalisti da 300 dollari a seduta ed ogni giorno, consultato il listino di borsa, hanno il problema di gettar via pacchi di dollari. Quei finanziatori pubblicarono e distribuirono a meraviglia il libro di Callahan, un grosso volume a favore dell’aborto…

 

Diane Richmond: Si, ma hanno anche promosso il libro di Grisez contrario all’aborto, mi sembra…

 

Nicole Cardon: Grisez, che aveva pubblicato il suo libro lo stesso anno, veniva usato da Gaylin e Callahan come finto avversario facile da battere nelle conferenze pubblicitarie; a Grisez, che non aveva altro di meglio, andava bene… Poi anche Grisez ha trovato la sua lobby potente nei Francescani d’America e continua a lavorare ad una monumentale opera di teologia morale di cui sono già stati pubblicati alcuni volumi.

 

Diane Richmond: D’altra parte noi Americani nell’essere partigiani non siamo spudorati come i Francesi o ipocriti come gli Inglesi, siamo una via di mezzo. Il nostro politically correct è un fatto di costume, una sorta di obbligo del good mannered citizen, una scatola che può essere piena o vuota… Ma, per saperlo, bisogna guardarci dentro.

 

Nicole Cardon: Le lobbies che hanno creato la bioetica americana soprattutto intorno a problemi quali aborto ed eutanasia, oggi si occupano di cellule staminali embrionarie e di ogni argomento che riguardi diritto, medicina e morale. Ma il punto è che nascono come gruppi di interessi e nella loro “anima vitale”, cioè politico-economica, rimangono tali. Il look, come si può dire in Italiano? La faccia, la forma, l’aspetto, il vestito di queste lobbies è rappresentato dalla pubblicistica, dalla convegnistica e dai loro apparati di comunicazione, ma il loro potere si esercita attraverso le commissioni. Oggi le lobbies che fanno più paura sono quelle delle compagnie di biotecnologia che sostengono la brevettabilità dei prodotti di origine umana che qui in Europa già avete, in parte, per legge e che, per fortuna, negli USA non è ancora passata.

 

Isabella Floriani: Tu dici che l’etica deve essere parte di una visione del mondo e non il prodotto di un compromesso ideologico-morale e, talvolta, politico-economico su singoli problemi?

 

Nicole Cardon: Una commissione di bioetica é un po’ come un tribunale che applica le leggi, come un medico al letto del paziente che adatta il suo sapere nosologico al caso concreto: né gli avvocati e i giudici inventano nuove leggi durante il processo, né il medico al letto del paziente si inventa una nuova malattia per spiegarsi i sintomi. Se i primi vogliono fare delle leggi studieranno il processo legislativo e cercheranno di divenire legislatori, così il medico se vuole “scoprire” (non inventare di fantasia!) una nuova sindrome, lo farà da ricercatore. Talvolta i bioeticisti hanno creato una subcultura per loro ignoranza di tutto quanto era stato studiato ed indagato in quel campo. Parlo da ignorante che, negli ultimi anni, anche grazie a voi, ha studiato molta filosofia.

 

Ludovica R. Poggi: Mons. Tonini sosteneva una tesi cara alla sinistra, ossia che a fronte di un eccessivo potere, come quello che la scienza e la tecnologia consentono oggi all’industria biotecnologica e farmaceutica, è necessario un maggiore impegno nel controllo. La bioetica aiuta il controllo democratico.

 

Nicole Cardon: A parte che Tonini parlava della necessità di un’accresciuta responsabilità per bilanciare l’aumento di potere dell’uomo sull’uomo, devo dire che non parlava di controllo democratico per mezzo della bioetica: ero presente. Più che altro ne giustificava la nascita con l’esigenza di garantirsi, di difendersi dal potere assunto da chi fosse stato in grado di servirsi delle nuove possibilità fornite dal progresso delle conoscenze. Vi ricordate: trascrivemmo la conferenza e la affidammo ad Ilaria Macrì per Life?

 

Isabella Floriani: Me lo ricordo, si: ero, come sempre, fra i trascriventi.

 

Monica Lanfredini: Si, lo ricordo anch’io.

 

Filippo Rucellai: Ma, dunque, Norimberga, Helsinki? Dite anche a me qualcosa sull’argomento?

 

Ludovica R. Poggi: Quando furono processati i capi nazisti che non riuscirono a fuggire all’estero, al famoso processo di Norimberga, furono sciorinate una serie raccapricciante di mostruosità compiute da queste bestie, presentate come attuazione di progetti di ricerca. Sperimentazioni su esseri umani trattati molto peggio dei ratti e dei topi di laboratorio. Ad esempio, prendevano delle persone che avevano internato nei campi di sterminio -che ci siamo abituati a chiamare Ebrei o Giudei come facevano loro- e li lasciavano morire in camera iperbarica registrando i tempi e i modi della morte, guardandoli attraverso un vetro e filmando il tutto; altri venivano scorticati vivi e la loro pelle conciata e, poi, impiegata per farne dei paralume ed altri accessori per la scrivania… Insomma, sapete tutti le atrocità che venivano fatte passare per scienza… 

 

Filippo Rucellai: Donne imbalsamate e impagliate ed altri rituali macabri che avevano importato dalle antiche popolazioni buddiste del Tibet da cui sarebbe discesa la razza ariana secondo una fantasia delirante di un gerarca pseudo-antropologo…

 

Ludovica R. Poggi: Quel tribunale sancì la necessità che ogni essere umano, in qualsiasi posto del mondo, per prendere parte ad una ricerca come soggetto da esperimento dovesse essere capace legalmente, fisicamente e psichicamente di esprimere il proprio consenso. Sancì che fosse a questo fine totalmente libero e non soggetto a pressione, costrizione, frode o inganno; e che dovesse conoscere bene lo scopo della ricerca, le condizioni, i tempi e i modi della sua conduzione in ogni dettaglio e, soprattutto, i rischi. Queste norme, che naturalmente ho riferito in sintesi approssimativa, venivano poi recepite dalla Dichiarazione di Helsinki del 1964. Dopodiché verranno tutte le regolamentazioni successive fino ai nostri giorni.

 

Isabella Floriani: Molto interessante! Non lo sapevo.

 

Filippo Rucellai: Neanch’io.

 

Giuseppe Perrella: Vorrei, però, fare delle precisazioni al riguardo. Per secoli gli esperimenti sull’uomo non sono stati regolati da alcuna legislazione, rimanendo affidati all’etica medica condivisa dai ricercatori e largamente ispirata alla più antica tradizione deontologica della professione ippocratica. Queste regole non scritte prendevano convenzionalmente il nome di “codice della fraternità scientifica”. Di fatto, gli esperimenti sull’uomo erano rarissimi e, generalmente, limitati a quelli effettuati su se stessi da parte dei medici. Claude Bernard nel 1865, nella sua celebre introduzione al Trattato di Medicina Sperimentale, pur sottolineando l’importanza della sperimentazione sull’uomo, esprime una grande prudenza affermando, cito a memoria: “il principio della moralità medica e chirurgica sta nell’evitare esperimenti sull’uomo potenzialmente pericolosi per un dato individuo, persino se il risultato potrebbe essere altamente vantaggioso per la scienza e, in definitiva, per la salute di tanti altri.”

 

Ludovica R. Poggi: Saggio e prudente lo scopritore del glicogeno! Se non ci fossero stati i Nazisti non ci sarebbe stato bisogno del Tribunale di Norimberga.

 

Giuseppe Perrella: Proprio su questo volevo precisare. Ludovica ha riassunto, in realtà, alcune norme del Codice di Norimberga. Si tratta di un vero e proprio codice, il primo della storia a regolamentare la ricerca su esseri umani. Fu stilato nel 1947, proprio sotto la spinta emotiva degli accertamenti dei crimini di cui diceva Ludovica. Le norme di questo codice furono immediatamente assunte dall’Associazione Medica Americana (AMA) e dall’Accademia delle Scienze di Francia…

 

Ludovica R. Poggi: Si, è vero ho detto Tribunale di Norimberga, invece di Codice di Norimberga.

 

Giuseppe Perrella: Scusa la pignoleria, Ludovica, ma mi sembrava importante ricordare la natura di codice di quel documento, visto che è stato il primo del suo genere. Infatti, questa prima regolamentazione diede luogo ad una grande riflessione in tutto il mondo civile, che si espresse nella Dichiarazione di Ginevra del 1948 dell’Associazione Mondiale della Sanità -il nome che si dava allora alla World Health Organization- che proclamava il vincolo assoluto e prioritario dell’attività del medico: la salute del paziente come primo e fondamentale scopo

 

Nicole Cardon: Interessante: la sperimentazione veniva consentita solo come atto medico e, in quanto tale, nell’interesse del paziente-cavia. Scusa l’interruzione, continua.

 

Giuseppe Perrella: Ma, forse, il documento più interessante di questo periodo è il Codice Internazionale di Etica Medica al quale si deve un principio spesso citato da coloro che sono del tutto avversi alla pratica della sperimentazione umana: ogni atto passibile di indebolire la resistenza fisica o mentale di un essere umano può essere usato soltanto nell’interesse di quest’ultimo. Il Codice Internazionale di Etica Medica fu redatto nel 1949 ed incluse tutto il testo della Dichiarazione di Ginevra dell’anno prima, documento che, poi, non era altro che una versione aggiornata del Giuramento di Ippocrate.

 

Filippo Rucellai: Ed Helsinki?

 

Giuseppe Perrella: La Dichiarazione di Helsinki del 1964, cui faceva riferimento Ludovica, è il documento ufficiale preparato dalla XII Assemblea dell’Associazione Medica Mondiale e si basa in larga misura sul codice internazionale che include la dichiarazione del 1948. Il riferimento al Codice di Norimberga è, perciò, indiretto. E’ vero, come diceva Nicole, sono molte le dichiarazioni e i codici: dopo Helsinki in Italia, ad esempio, abbiamo la Carta di Venezia nel 1969 elaborata dalla Società di Scienze Farmacologiche Applicate.

 

Diane Richmond: Come sempre accade, ad una assenza di leggi seguono criteri troppo restrittivi. Leggi e regolamenti sono fondamentali per la ricerca, ma devono essere ragionevoli ed applicabili. Non so voi, ma io ho letto in parte quei documenti e, se ricordo bene, escludevano di fatto la ricerca biologica sulla persona umana viva. E’ vero?

 

Giuseppe Perrella: Direi di no, anche se la preoccupazione di vietare, limitare e tutelare prevale al punto che possa apparire così. Escluso tutto ciò che i codici ritengono inaccettabile, come l’alto rischio di morte o di un danno irreversibile, rimane un ambito di scelta in cui si applica l’arbitrio del volontario che, attualmente, riceve sempre un compenso in danaro e viene informato su argomenti scientifici complessi che, spesso, richiederebbero una formazione propedeutica per essere compresi realmente. Per questo ritengo che non possano essere oggetto di semplice informazione, a meno che non si vogliano fornire dati già interpretati. Ad esempio: non posso fornire dati numerici statisticamente significativi sul rischio legato alla condizione dell’esperimento perché, proprio in quanto sperimentale, è nuova e pochi o nessuno al mondo vi si è sottoposto. Allora le probabilità di rischio si desumeranno dalla conoscenza del sistema biologico che costituisce l’ambiente in cui si opera e del protocollo sperimentale che specifica le operazioni che saranno compiute. Questo ci riporta al problema come lo ha sollevato Nicole.

 

Filippo Rucellai: Il presidente ha rimesso la palla al centro.

 

Nicole Cardon: Capite cosa dico? In altre parole, coloro che possono veramente concepire in maniera fondata gli elementi di rischio non grossolanamente prevedibili, sono proprio i ricercatori esperti nel campo su cui si conduce la ricerca. E, se quelli che informano il soggetto sono gli stessi che condurranno la sperimentazione o una commissione della stessa istituzione in cui si svolge lo studio, si può configurare una sorta di “conflitto di interessi” che può indurre gli sperimentatori a “presentare” a voce e nei documenti con maggiore risalto gli aspetti rassicuranti, allo scopo di non perdere il volontario. Questo, a mio avviso, è quanto si può essere verificato nel caso di Gelsinger. A parte, naturalmente, le negligenze denunciate dall’FDA che ho riportato nella nota pubblicata in “Note e Notizie” il 31 ottobre del 2003. Per cui ritorna il problema di chi e come giudica il rischio attuale legato a quella sperimentazione.

 

Isabella Floriani: Se le cose stanno davvero così, il problema mi sembra di difficile soluzione. Perché se gli unici in grado di valutare il rischio sono quelli che studiano quello stesso argomento, allora il conflitto di interessi si potrebbe configurare anche quando chi informa il soggetto è un altro gruppo di ricerca, perché in tal caso l’interesse del team concorrente sarebbe nel cercare di scoraggiare i volontari prospettando sempre un grado di rischio inaccettabile, per evitare che i propri rivali conducano la sperimentazione. Non so se ho capito quanto si diceva… Se è così, non se ne esce!

 

Diane Richmond: No, non stanno così le cose. Prima d’ogni altra chiacchiera, bisogna aver presente due punti: 1) Esistono organismi internazionali di controllo che definiscono per tutti il grado di rischio accettabile; 2) L’interesse del ricercatore è trovare una risposta alle proprie domande, non eseguire a tutti i costi quell’esperimento in quel modo. Poi, alla sperimentazione si arriva sempre attraverso un processo controllato da tutta la comunità scientifica: non siamo più ai tempi in cui lo scienziato era una sorta di genius loci isolato -ho detto bene in latino?- o, peggio, un originale chiuso in un fosco antro buio ed inquietante…Questa è ill-fiction! Come si dice?

 

Filippo Rucellai: Fantascienza malata.

 

Isabella Floriani: Antiquata, direi.

 

Ludovica R. Poggi: Si, decisamente antiquata: questo è il prototipo dell’alchimista. Ma volevo dire che ai due punti che hai citato, Diane, aggiungerei che ogni istituto di ricerca ha i suoi organismi interni di controllo che, a loro volta, devono rispettare degli standards per essere riconosciuti dagli organismi internazionali.

 

Nicole Cardon: Questo che dite riguarda la struttura ideale, che in parte corrisponde alla realtà sostanziale, ovvero vi corrisponde quando si abbiano le persone giuste al posto giusto. In parte è solo facciata. Apparenza.

 

Diane Richmond: Si, ma le regole che tutelano i soggetti da esperimento non sono apparenza

 

Nicole Cardon: Forma.

 

Diane Richmond: Che funziona, perché c’è l’obbligo di rispettarle ed un efficace sistema di controllo…

 

Nicole Cardon: Che non ha funzionato nel caso di Gelsinger…

 

Diane Richmond: E’ l’eccezione. Ma, poi, l’intervento dell’FDA ha reso ancora più severe le norme…

 

Nicole Cardon: Perché c’è scappato il morto e c’è stata una denuncia. L’FDA aveva approvato quel protocollo e lor signori dormivano sonni tranquilli… Se il ragazzo non fosse morto non avremmo mai saputo delle trasgressioni di fatto delle regole da parte dei ricercatori…

 

Diane Richmond: Ma è l’eccezione…

 

Nicole Cardon: Temo di no: dovremmo poter verificare di persona… Siamo in un periodo di decadenza culturale e morale del mondo più sviluppato e forse è vero, come dice Monica, che si devono costruire prima gli uomini da un punto di vista morale…

 

Diane Richmond: Non vedrei un peggioramento dell’Umanità per un caso di imprudenza…

 

Nicole Cardon: Credo che sia la punta emergente di un iceberg. Vorrei controllare quella ricerca che si fa reclutando persone sane…Si prendono poveracci senza lavoro, magari depressi e privi di prospettive, disposti a fare qualunque cosa per dieci dollari e gli si danno 100 dollari al giorno… Vuoi che si leggano dozzine di pagine di “consenso informato” spesso scritte in gergo legale e vuoi che le capiscano? Che abbiano voglia di capirle?

 

Diane Richmond: D’accordo, ma non credo che vi siano casi di “abuso” su queste persone…

 

Nicole Cardon: Di esposizione ad un rischio eccessivo, che te ed io non accetteremmo al loro posto…

 

Diane Richmond: E’ un problema di scelta individuale… Quanta gente fuma sapendo i rischi che corre? Vi sono state persone, lo sai, che il 12 settembre del 2001 hanno preso l’aereo nella stessa area mettendo in conto di morire…

 

Giuseppe Perrella: Distinguerei chi è indotto dalla minaccia della malattia come Gelsinger da chi sceglie di fare il volontario nella sperimentazione di una tecnica o di un farmaco, o il volontario sano nei gruppi  di controllo…

 

Diane Richmond: Giustissimo, anche queste distinzioni sono importanti…

 

Nicole Cardon: D’accordo. Ma, continuando le mie riflessioni, tutti quelli che sono spinti da cause di forza maggiore come la malattia e la povertà hanno una ridotta capacità critica o volontà o possibilità -decidete voi- per giudicare il rischio…

 

Diane Richmond: Verità sacrosanta! Ma riguarda tutti gli aspetti della vita, non solo la ricerca…

 

Nicole Cardon: Ma nella ricerca si fidano di te e, correlativamente, al diminuire della loro capacità di valutare aumenta la tua responsabilità…

 

Diane Richmond: Normata, governata e regolata da protocolli severi. L’attività dell’Office of Research Integrity dei National Institutes of Health è un esempio dell’efficacia del sistema di controllo, non solo tecnico, ma anche deontologico della ricerca…

 

Nicole Cardon: Si, che da noi si applica solo al sistema pubblico. Questo vale per la deontologia della ricerca come per l’etica sul lavoro. Hai visto le porcate che ha fatto la Celera Genomics di Rockville nella genome race? Tutto legale. Quella gente senza scrupoli sarebbe passata sul corpo di chiunque pur di tagliare per prima il traguardo. Leggi i nomi di quelle persone: sono presidenti e membri di alcuni di quegli organismi di controllo nei quali hai fiducia cieca…

 

Diane Richmond: Non ho fiducia cieca… Sai che la penso come te su queste questioni, solo che il bicchiere pieno a metà tu lo vedi mezzo vuoto, io mezzo pieno… A forza di vederlo mezzo vuoto dimentichi pessimisticamente tutto ciò che funziona e contribuisce a farci ben sperare per il domani…

 

Nicole Cardon: Forse.

 

Giuseppe Perrella: Certo, mi viene in mente Dennis Selkoe, la cui industria farmaceutica di famiglia produce farmaci basati sulla sua teoria dell’amiloide: ogni volta che il suo ufficio-stampa comunica l’inizio della sperimentazione umana di nuova molecola, i titoli della sua azienda schizzano così in alto che i suoi investimenti assumono la forma di natanti e beni immobili in località turistiche da sogno…

 

Nicole Cardon: Nel caso Gelsinger una compagnia di tecnologia genetica forniva un quarto del finanziamento del laboratorio! E’ questo intreccio perverso che Diane vuole ignorare, ma che esiste!

 

Diane Richmond: Non nego che esista. Non nego una patologia del sistema, solo che ho una visione diversa dalla tua su come si possano far andar meglio le cose. Si devono moltiplicare le commissioni indipendenti che diano premi e riconoscimenti di prestigio ai ricercatori che fanno cose realmente valide: fare ricerca solo per amore della conoscenza e nel rispetto della persona umana dovrà essere sempre più conveniente.

 

Nicole Cardon (sorridendo): Come? Facendo nascere divinità munifiche e misericordiose che convertano le fondazioni e i rappresentanti politici in santi benefattori che premiano i buoni con finanziamenti ed incarichi di prestigio e puniscono i cattivi sequestrandogli i panfili e le ville?

 

Diane Richmond: Scherza pure, ma tu sai bene che se ci fosse una maggiore attenzione per la scienza da parte dell’Amministrazione, come c’è stata con Clinton, non sarebbe difficile creare le volontà politiche per una meritocrazia etica. Una fondazione presidenziale che ogni mese premia il giovane “genio” onesto che si è rotto la testa per trovare un risultato sarebbe un bel ritorno di immagine…

 

Nicole Cardon: Roba da College del Middle Mountain o da High School di piccoli villaggi: non funziona! L’immagine di un presidente la fa l’allunaggio sulla luna, i 12 milioni di nuovi posti di lavoro in due anni di Bill Clinton, che so, la cattura di Bin Laden, se è ancora vivo, la resa in massa di al-Qaeda, il dimezzamento del prezzo del petrolio…

 

Monica Lanfredini: Siamo decisamente andati fuori tema…

 

Isabella Floriani: Le due Americane sono incontenibili… Soprattutto sulle questioni di casa propria…

 

Filippo Rucellai: Io lo trovo interessantissimo.

 

Ludovica R. Poggi: faremo un altro dibattito su questo argomento.

 

Nicole Cardon: Scusateci, era diventato un dialogo fra noi… Voglio dire che è all’interno della cultura di chi fa ricerca che bisogna fare un po’ i conti: problemi come il caso Gelsinger non si affrontano con la politica…

 

Diane Richmond: So che vuoi dire! Anzi, dirò apertamente che so come la pensi, Nicole, anche se non lo hai ancora detto. Credo che immagini dei gruppi di ricerca di base che facciano da supervisori ai gruppi di ricerca clinica.

 

Nicole Cardon: E’ una soluzione. Veramente io pensavo a commissioni di ricercatori di base, divise per area, che valutino i progetti di ricerca che implicano sperimentazione su esseri umani. Mi sembra un’idea fondata.

 

Diane Richmond: Idea che si basa sulla tua fiducia nel potere del sapere. Un potere la cui bontà cresce al crescere del sapere. Ma la gente non la pensa così. Non si sentono garantiti. Ci vedono tutti nella stessa lobby: si fidano di più di un controllo effettuato da giuristi e filosofi della morale: esterni al nostro “mondo”.

 

Nicole Cardon: Molte commissioni e comitati di controllo, attualmente, si basano sull’ipocrita finzione che tutte le istituzioni di un certo prestigio si equivalgano per competenza. Un ricercatore di ortopedia clinica che si è occupato tutta la vita di creare nuove protesi ed ortesi, ma che ha nel suo curriculum molti lavori di genetica dell’artrite reumatoide e simili, solo perché forniva i pazienti ai colleghi genetisti, è ora in una commissione di controllo dell’NIH che valuta ricerche che adoperano vettori retrovirali: che accidente vuoi che ne capisca? Se tu fai ricerca di base, lavori sulla chimica della proteine, ad esempio, puoi passare dall’immunologia alle neuroscienze con la stessa competenza di fondo, se lasci la proteina-anticorpo per studiare la proteina-recettore

 

Diane Richmond: Lo so, lo so, ma è ovvio…

 

Nicole Cardon: Se questa distinzione è nella aristotelica ragionevolezza dei contenuti, perché la ritieni inapplicabile in pratica?

 

Diane Richmond: Inapplicabile perché anacronistica. Non esiste più una netta distinzione fra ricerca di base e clinica e, soprattutto, i ricercatori clinici non ci ritengono più dei “fratelli maggiori”.

 

Nicole Cardon: Non è anacronistica, ma sostanziale, la distinzione. Vedi, proprio intervistando il presidente lo scorso anno ho riflettuto a lungo su questo argomento e, alla fine, ho ritrovato il gusto delle mie idee di un tempo. Mi ero adeguata all’idea di adeguarmi. Leggendo una decina di saggi di gente come Steven Rose, Joseph Le Doux, Axelrod e così via, mi sono resa conto che le cose non sono tanto diverse oggi da quando abbiamo lasciato la High School per entrare nel primo laboratorio universitario. Siamo noi che cambiamo, poi tiriamo fuori la cavolata delle “generazioni”… Era difficile allora ed è difficile adesso, ma non per questo non si deve volere e pretendere ciò che è giusto!

 

Diane Richmond: Giusta, certo, una differenza concettuale. Ma operativamente perché distinguersi? La differenza sarebbe che noi siamo scienziati puri e, per questo, più puri anche moralmente? E poi, immagino, ritieni importante la differenza metodologica, no?

 

Nicole Cardon: Non è solo questione di metodi: anche loro fanno la biologia molecolare o studiano l’affinità di un recettore, è vero, ma le finalità sono e rimangono diverse. E’ anche un problema di impostazione dei progetti. Ad esempio, la ricerca sulle proteine neuropatogene ha rivelato quanti e quali pasticci, sprechi di danaro, distinzioni inesistenti e false piste siano state prodotte dall’impostazione in chiave di ricerca clinica della maggior parte degli studi sulle malattie neurodegenerative, spesso per la fretta di trovare -o far finta di trovare- una terapia.

 

Diane Richmond: Si, questo è vero. Ma non si torna indietro alla “basic pure science” nella ricerca biomedica come comparto separato.

 

Nicole Cardon: E’ una questione di finanziamenti, ma anche di valori… Non solo sono convinta del ricorso storico inevitabile, ma spero che questo ritorno sia a breve. D’altra parte conosci meglio di me i laboratori in cui la distinzione è rimasta, pur nella partecipazione a progetti di liaison.

 

Monica Lanfredini: Valori del soggetto… Abbiamo decisamente prevaricato ed emarginato gli altri partecipanti al dibattito.

 

Giuseppe Perrella: E’ vero.

 

Ludovica R. Poggi: In effetti ci sono anche quelli in collegamento…

 

Filippo Rucellai (posando il telefono cellulare): Qualcuno è in arrivo.

 

Monica Lanfredini: Avevo alcune cose da dire sulla bioetica, ma mi inserisco dopo…

 

Isabella Floriani: Mi piacerebbe sentire Olivier.

 

Olivier Mathieu: Il caso Gelsinger, al di là della sua tragica dimensione umana, cioè del dolore che questo giovane come quelli che gli stavano accanto hanno subito, pone anche una terribile domanda. Senza tali malattie genetiche potrebbe la specie umana crescere ed andare avanti? In altri termini, e quasi nella prospettiva darwiniana della selezione naturale, la malattia dei singoli non è anche la promessa della salute della specie? Tali malattie genetiche, che portano purtroppo alla morte quelli che ne sono colpiti, non è vero che abbiano come altra faccia la resistenza dell’Uomo a questi attacchi, la specie imparando così -per piccoli salti di mutazione genica- a proteggersene?…Domanda fatta da un profano…

 

Giuseppe Perrella: Chi vuol rispondere?

 

Ludovica R. Poggi: Risponderei volentieri, ma vista la presenza di Nicole Cardon… Ubi maior, minor cessat!

 

Filippo Rucellai (sorridendo): Ludovica, il “minor cessat” si riferisce a te? Ossia tu cesseresti perché minore?

 

Nicole Cardon: Veramente non sono genetista, né medico. Diane che ha lavorato anche in genetica e Giuseppe che conosce la patologia possono rispondere più competentemente. Dirò la mia, comunque. Una mutazione genetica è un’alterazione stabile ed ereditabile della molecola di DNA che può consistere in un’alterazione grossolana del cromosoma, come una delezione o una traslocazione, oppure nel cambiamento in una sola base purinica o pirimidinica che si traduce in un diverso aminoacido nella struttura della proteina codificata da quel gene. In questo caso si parla di mutazione puntiforme

 

Ludovica R. Poggi: Bisogna dire che il codice genetico vuole che la successione di tre basi sia come una parola che indica un aminoacido, noi indichiamo le basi con la prima lettera del loro nome, ad esempio C = Citosina; così la successione citosina-timina-citosina, CTC, indica l’aminoacido glutammato; se una mutazione cambia CTC in TTC, invece del glutammato avremo la valina, un altro aminoacido.

 

Nicole Cardon: Esattamente. L’esempio di mutazione puntiforme che ha fatto Ludovica non è casuale, ma è la mutazione della catena globinica β che trasforma l’emoglobina normale in emoglobina C…

 

Filippo Rucellai: Ma la mutazione non può portare a tre basi che non indicano nessun aminoacido?

 

Ludovica R. Poggi: Certo! Si chiamano nonsense mutation, ad esempio una successione di tre basi, o come diciamo noi, tripletta, che equivale nell’RNA messaggero a UAA, UAG o UGA, rappresenta un segnale di fine catena, uno stop alla sintesi della proteina…

 

Filippo Rucellai: Perbacco!

 

Nicole Cardon: Chiedo scusa se vi interrompo, ma c’è il rischio che si divaghi spiegando tutto il codice genetico, senza dare una risposta ad Olivier.

 

Ludovica R. Poggi: No, prego, continua…

 

Nicole Cardon: Dicevo della mutazione puntiforme, perché è questa la causa dell’anomalia della proteina ornitina-transcabamilasi, all’origine dell’epatopatia di Jesse Gelsinger. Dunque, parliamo di una mutazione puntiforme. Una mutazione, come dicevo, è un’alterazione stabile ed ereditabile del DNA che entra in rapporto con la selezione naturale come elemento di variabilità. Cioè la selezione è tale perché può scegliere: la scelta avviene in uno spettro di diversità. Non so se fin qui sono stata chiara. OK? Bene. Vado avanti. Le cause di diversità genetica nella specie umana sono tante, la più nota è quella legata alla meiosi. Ricordiamo tutti, dai tempi della scuola, cos’è la meiosi, no?

 

Giuseppe Perrella: Meiosi vuol dire riduzione, si potrebbe anche dire miosi, ma per convenzione si è scelto meiosi per indicare la riduzione alla metà dei cromosomi e miosi per indicare la riduzione del diametro pupillare…

 

Nicole Cardon: Grazie per l’integrazione… Dunque, la meiosi è quel processo per tappe che durante la gametogenesi porta alla riduzione ad un corredo aploide dei cromosomi, così che nella nostra specie gli spermatozoi e le ovocellule hanno 23 cromosomi e, con l’accoppiamento, possono ricomporre il corredo umano normale di 46 nello zigote, cioè nell’uovo fecondato. Durante la meiosi i cromosomi si distribuiscono in maniera indipendente creando una enorme diversità, vero Diane?

 

Diane Richmond: Si, per le 23 paia di cromosomi si creano 223 combinazioni diverse per ovociti e spermatozoi. Questo vuol dire che esclusi i gemelli monozigoti la probabilità che due genitori diano luogo a due individui identici nel patrimonio cromosomico è di 1 su 223.

 

Nicole Cardon: Che vuol dire…

 

Diane Richmond: 1 su 8,4 milioni.

 

Nicole Cardon: Grazie! Come farei senza di te?

 

Diane Richmond: Compreresti una calcolatrice.

 

Nicole Cardon: Durante la meiosi si verifica un altro processo che è un’importante causa di diversità genetica: la ricombinazione genica. Quando i cromosomi omologhi si appaiano, si creano spesso dei ponti o chiasmi fra regioni corrispondenti dei due cromosomi, all’altezza delle quali si verificano delle rotture che si risaldano perfettamente ma solo dopo che le regioni distali degli omologhi appaiati si siano scambiate fra loro. Un meccanismo che anche in Italia i genetisti chiamano crossing over: uno scambio incrociato.

Si potrebbe continuare la discussione sulla diversità genotipica, ma ciò che voglio sottolineare è che una mutazione puntiforme come quella della proteina anomala di Gelsinger non è che una causa minima di variazione genica che risulta insignificante rispetto al processo di selezione naturale. In altre parole, curando tutte le malattie da  proteine enzimatiche alterate non ridurremmo in maniera significativa la diversità su cui agisce il processo selettivo.

 

Giuseppe Perrella: Concordo, ma aggiungerei, sempre per rispondere ad Olivier, che la terapia genica -ancora in fase sperimentale- non agisce sulle cause di mutazione e, quindi, non altera il quadro naturale della selezione. La terapia genica non impedisce che le cause che determinano mutazioni come quella dell’ornitina-transcabamilasi di Gelsinger possano continuare ad agire sulla nostra specie e su altre specie: semplicemente tende a riparare il danno funzionale nel singolo individuo. 

 

Ludovica R. Poggi: Infatti, si deve anche dire che sappiamo pochissimo sulle cause di mutazione.

 

Diane Richmond: Da decenni, infatti, si conoscono alcuni agenti fisici, come le radiazioni, una lunga lista di composti chimici e vari tipi di virus in grado di produrre mutazioni, ma sembra che non rappresentino che una parte minima del totale…

 

Nicole Cardon: Poco rilevante per il destino, non di un piccolo carattere ma di una intera specie…

 

Olivier Mathieu: L’altra domanda sarebbe questa: a lungo andare, curare le malattie genetiche, trattandosi di persone che poi si riprodurranno, non rischia di compromettere il futuro della specie e di arrivare ad un risultato contrario allo scopo iniziale?

 

Monica Lanfredini: Che vuol dire: meglio non curarli? Eugenica? Diagnosi prenatale ed aborto selettivo?

 

Giuseppe Perrella: Se Nicole permette, vorrei dare una prima risposta o, per meglio dire, vorrei fare un commento.

 

Nicole Cardon: Certo, ci mancherebbe… Solo, dopo, anch’io ho da fare qualche osservazione.

 

Giuseppe Perrella: La domanda “curare le malattie genetiche in persone che si riprodurranno non rischia di compromettere il futuro della specie?”, sembra sottesa da una convinzione molto diffusa, ossia che le persone portatrici di una mutazione genica siano complessivamente anomale, o globalmente deficitarie, come se fossero segnate da uno stato morboso che interessa tutti gli apparati e, conseguentemente, risultassero inferiori alla media nelle possibilità adattative.

Non è così per una proteina mutata. Penso a questo quadro dell’immaginario popolare di riferimento perché, altrimenti, non si giustificherebbe la preoccupazione di Olivier. Infatti, se si ha la possibilità di curare un difetto genetico puntiforme in una persona, rendendola sana a tutti gli effetti, non si vedono i problemi per la specie: se trasmette il difetto ai discendenti cureremo anche loro. Queste persone possono avere altre caratteristiche geno-fenotipiche superiori alla media ed essere, per altri versi, molto migliori di noi.  Forse gioca un ruolo l’influenza dell’immagine che si ha delle grandi sindromi citogenetiche, come la sindrome di Down. Ma, avere un’anomalia in una singola proteina è altra cosa.

 

Nicole Cardon: Volevo dire che non mi meraviglia la domanda di Olivier, perché la mia remota origine francese mi ha reso sensibile ed attenta alla cultura di quel paese. Se il termine eugenismo fa rabbrividire tanto gli Americani che gli Italiani, pensando al nazismo, non è così per la cultura francese. Alexis Carrel nel libro L’Uomo, questo sconosciuto, del 1912 ma ancora un classico in Francia, afferma che la medicina sbaglia nel cercare di migliorare gli individui di qualità scadente e che bisogna abbandonare l’idea pericolosa di “elevare i deboli facendo aumentare il numero dei mediocri”…

 

Filippo Rucellai: Ma è pazzesco!

 

Monica Lanfredini: No, io sapevo qualcosa… Anche Richet la pensava così, vero? Ma, sembra, che questo abbia creato correnti di pensiero ancora forti in Francia… Jacob combatteva contro queste idee “filo-naziste” negli anni Ottanta…

 

Nicole Cardon: No, attenzione, non si tratta di idee filo-naziste. E’ molto più complessa la questione: come sempre accade nella cultura francese. Gli esponenti di queste correnti ideologiche si rifanno direttamente a Francis Galton, del quale sappiamo ormai tutto dopo il seminario sul senso dei numeri

 

Filippo Rucellai: Pubblicità!

 

Nicole Cardon: Ma siamo fra noi…

 

Filippo Rucellai: Scherzo. Ma veramente la biografia di Galton è incredibile.

 

Isabella Floriani: Galton creò anche il termine “eugenismo” nel 1883, se ricordo bene…

 

Nicole Cardon: Si, infatti. Ma, quello che trovo interessante, è che in Francia oggi molti eugenisti sono di sinistra o hanno idee di estrema sinistra come Olivier.

 

Giuseppe Perrella: Cosa apparentemente inconciliabile con le preoccupazioni di Galton di “inquinamento dei geni delle classi elevate con quelli dei poveracci” o della presunta e delirante segregazione dei caratteri ariani mediante i Lebensborn nazisti…

 

Ludovica R. Poggi: Cosa sono i Lebensborn? Non ne ho mai sentito parlare.

 

Giuseppe Perrella: Erano delle “stazioni di monta” per esseri umani create dal Terzo Reich. Proprio come se si fosse trattato di un programma di allevamento in zootecnia, il regime aveva disposto la soppressione di portatori di handicap, di bambini dismorfici, di ammalati e di persone deformi e, contestualmente, aveva promosso l’espansione degli “esemplari migliori” attraverso un programma di riproduzione controllata. Nei Lebensborn, dei militari delle SS di gradevole aspetto si facevano accoppiare con “autentiche donne germaniche” selezionate esclusivamente sulla base di requisiti fisici. In proposito si può notare che l’eugenismo di Galton era più centrato sui requisiti mentali, mentre quello nazista sui requisiti fisici.

 

Filippo Rucellai: I nazisti avrebbero ucciso gente come Stephen Hawkins, Touluse-Lautrec e Michel Petrucciani e incoraggiato l’accoppiamento dei belli della Casa del Grande Fratello!

 

Monica Lanfredini: Filippo, c’è poco da scherzare! La promulgazione delle leggi eugeniste tedesche comportò la sterilizzazione di 400.000 persone prima dello scoppio guerra, cui seguì l’assassinio di Stato mediante il progetto “Eutanasia” di oltre 70.000 individui prevalentemente malati di mente o solo affetti da problemi motori invalidanti. Per questo, Giuseppe, non distinguerei l’eugenismo britannico da quello nazista sulla prevalenza d’oggetto corpo/mente. L’ammalato di mente era temuto ed odiato. Temuto come fonte di discredito per l’insieme razza-nazione-esercito, odiato come fonte di contagio psicologico. Lo “scemo” o il “cretino”, inteso come “deficiente”, dimostravano con la propria esistenza che era possibile vivere senza interpretare la dimensione eroico-cinica dell’uomo nazista. Il disprezzo per il minus habens psichico, per il debole ed il disabile, tipico della cultura fascista, non fu solo il portato dell’impiego strumentale di una cultura militarista, ma in gran parte derivato dalle fonti di ispirazione filosofica del regime nazista e dalla sua impareggiabile macchina di propaganda.

 

Giuseppe Perrella: Si, conosco la storia delle stragi di veri e presunti “tarati” mentali. Venivano raccolti in finti “centri specializzati” dove li si uccideva mediante endovenose di veleni o li si faceva morire per asfissia mediante gas di scarico. Sembra anche che, paradossalmente, proprio in questo numero di 70.000, le persone con problemi psichici gravi di tipo organico come oligofrenie e demenze, fossero poche perché erano state già uccise senza che alcuno ne potesse fare una registrazione, in quanto abbandonati dalle stesse famiglie in istituti che non li registravano. Si sa che di colpo tutti i manicomi tedeschi risultarono vuoti.

Si, prima non pensavo al progetto “Eutanasia”, ma a quelli di proliferazione della razza ariana: i criteri con cui le ragazze venivano scelte per i Lebensborn erano antropometrici, di morfologia della costituzione fisica ed erotici. Da notare che in tutti i documenti dei programmi nazisti la terminologia che si adopera è quella usata per gli allevamenti di animali. E pensavo, invece, al fatto che Francis Galton credeva davvero nell’ereditarietà dell’intelligenza, di cui si era molto occupato, sia creando i tests, sia creando i criteri statistici per la sua valutazione nelle popolazioni. E tutto questo a partire dall’assioma familiare: poiché nostro nonno, Erasmus Darwin, era geniale e tali siamo mio cugino Charles Darwin ed io…

 

Nicole Cardon: A proposito della terminologia da allevamenti di animali, bisogna dire che nemmeno Sir Francis Galton ci scherzava! L’avete letto in Inglese? Scrivendo di genetica delle popolazioni umane impiega il termine “stock” che si usa tanto per indicare la linea di origine familiare quanto il bestiame.

 

Diane Richmond: No, Nicole, questa cosa è decisamente da ridimensionare. Deriva da quegli storici della scienza che a tutti i costi devono trovare dei nazisti anglosassoni. Diciamo a chi non è di madre-lingua inglese che stock ha almeno una dozzina di significati, diciamo che al tempo di Galton in Gran Bretagna con questo termine si indicavano fondi, debiti e capitali ad interesse permanente; non conosco bene la terminologia in italiano ma credo che ci siamo capiti. Stock come abbreviazione di livestock, cioè bestiame, non era frequente a quel tempo.

 

Nicole Cardon: Secondo Bertrand Jordan, si, invece. Era frequente, e l’uso di Galton sottilmente intenzionale. E, poi, diciamo anche, a chi non è di madre lingua, che nella dozzina di significati c’è dull, stupid, lifeless, quando si parla di persone prive di intelligenza, volontà o iniziativa, e credo che siano derivate come metafora degli animali che si muovono in branco senza capire… Stock può anche essere un gregge…

 

Giuseppe Perrella: Ma, tornando alla Francia, non dobbiamo dimenticare la tradizione antropometrica dell’Ottocento, basti pensare a Paul Broca che introdusse la misura della capacità cranica per valutare le dimensioni del cervello e prese parte ad una disputa culturale sull’ereditarietà dell’intelligenza e sulla possibilità di un miglioramento della specie attraverso accoppiamenti di persone dalla testa grande!

 

Nicole Cardon: Ritornando alla Francia, Richet -citato prima da Monica- scrisse La Selection Humaine che propone un eugenismo mostruoso.

 

Giuseppe Perrella: Sia Alexis Carrel che Charles Richet erano premi Nobel.

 

Ludovica R. Poggi: Si, ma non facciamone un “caso francese”. Forme di eugenismo sono presenti in molte aree del mondo. Ad esempio a Singapore si danno incentivi economici alle coppie sposate quando hanno figli, solo nel caso in cui entrambi i partner siano diplomati, indipendentemente da tutti gli altri fattori, perché si ritiene che i diplomati abbiano un cervello geneticamente migliore. La Cina ha regolari programmi eugenici: fece molto discutere quello del 1993 e, ancora di più, quello del 1998, quando la Cina, mentre ospitava il Congresso Mondiale di Genetica, varava norme eugeniche da paese incivile.

 

 Isabella Floriani: Torniamo a Gelsinger ed alla sperimentazione con vettori virali. Il dibattito aveva come punto di partenza gli articoli di Nicole, poi ha finito per spaziare in varie direzioni.

 

Ludovica R. Poggi: Soprattutto perché gli assunti di base proposti da Nicole credo che siano largamente condivisi, eccetto che da Diane, o sbaglio?

 

Diane Richmond: Sbagli, tesoro, perché anch’io penso che sia presto per la terapia genica e che sia necessario un più solido ed esteso bagaglio di conoscenze per gestire una ricerca su esseri umani meno rischiosa. Ciò che mi distingue da Nicole è l’analisi generale della situazione nella ricerca biomedica e i rimedi da porre. Credo che una parte delle differenze, in questo periodo, siano dettate anche da condizioni psicologiche diverse che portano me ad essere più ottimista e Nicole ad essere ferocemente realista.

 

Nicole Cardon: “Ferocemente realista” è bellissima come espressione.

 

Giuseppe Perrella: Vediamo cosa ne pensa Rita.

 

Rita Cadoni: Ho letto l'articolo e ne ho stampato una copia che rivedrò con più calma e riflessione, tuttavia vorrei darvi un mio parere a caldo, ossia  ciò che emerge da una prima, non approfondita, lettura. Premesso che il mio parere rispecchia una conoscenza solo teorica dell'argomento e quindi sicuramente meno autorevole di chi si occupa direttamente di ricerca, passo subito al sodo e dico che condivido solo in parte quanto dice Nicole, infatti non sono d'accordo sul fatto che sia troppo presto per la terapia genica. Occorre certamente cautela e valutare bene le conseguenze, ma credo che molti lati oscuri possano essere chiariti solo con la sperimentazione sull'uomo. ALT, prima che questa mia affermazione vi faccia cadere dalla sedia cercherò di spiegarmi meglio. Mi sembra di capire che il caso di J. Gelsinger sia stato un tipico esempio di superficialità, per non dire scorrettezza da parte dei medici che lo avevano in cura, quindi non rientra nel mio modo di vedere questa sperimentazione. Probabilmente la storia di Gelsinger è stata scelta in mezzo a tante simili per offrire uno spunto di riflessione -come non dimentico che a gennaio di quest’anno l’FDA
aveva fatto sospendere le sperimentazioni con fattori retrovirali- ma allora perché non parlare anche di quei casi in cui, al contrario, la terapia genica ha avuto successo e rappresenta l’unica cura possibile? Perché non mettere non mettere i pro e i contro sul piatto della bilancia per poi fare le giuste valutazioni, sia etiche che scientifiche? La mia mente matematica mi suggerisce che dovrei avere qualche informazione più precisa riguardo ai numeri -mi riferisco alle statistiche sia favorevoli che nefaste.

 

Monica Lanfredini: Nicole, tocca a te!

 

Nicole Cardon: Dunque, alle due lunghe domande potrei rispondere: perché sono ferocemente realista!

 

Ludovica R. Poggi: Ti è piaciuta la definizione di Diane?!

 

Nicole Cardon: Certo. Per Rita devo fare una puntualizzazione che mi sembra necessaria. La nota alla quale ti riferisci origina da un’altra che trattava della terapia dei gliomi mediante virus e, poiché molti temono la terapia virale per pregiudizio ed ignorano, al contrario, i rischi della terapia genica, cercavo di ristabilire la verità spiegando anche i motivi dei maggiori rischi connessi all’impiego di vettori virali, come si può vedere rileggendo quanto ho scritto. C’è un abisso in termini di sicurezza per il soggetto che si sottopone ad esperimento: nella viroterapia sperimentale in genere il virus non può entrare nelle cellule umane normali. Per entrare in una cellula deve avvenire un riconoscimento con un antigene tumorale. Per cui il virus riconosce solo la cellula malata, vi entra e fa quello che fanno i virus in genere: si impossessa del sistema DNA-proteine della cellula per riprodursi, facendola scoppiare.

Al contrario, il vettore virale deve inserire il proprio materiale genetico in quello della cellula umana che si vuole curare. La cellula si deve “fidare” ciecamente del virus. E noi con lei.

La mia nota non era, quindi, un articolo sulla genetica terapeutica in generale e, naturalmente, non mi sarei mai proposta di valutare i pro e i contro in generale della terapia genica: una vera impresa monografica di review che richiederebbe il lungo lavoro di un team guidato da un genetista specializzato in questo settore.

 

Ludovica R. Poggi: Credo che di reviews sulla terapia genica ce ne siano molte, anche commissionate dalle riviste specializzate nella ricerca in genetica terapeutica. Ho letto e studiato una review molto dettagliata, con un primo bilancio, che è stata fatta qualche anno fa dal direttore del CNRS francese, Bertrand Jordan, il titolo è di per sé eloquente: Terapia Genica: Un Fantasma?

 

Diane Richmond: Mi sembri meditabonda, Nicole, mentre parli.

 

Nicole Cardon: Si, perché per andare avanti, in realtà avrei bisogno di fare a mia volta delle domande a Rita, ad esempio: su quale base giustifica la necessità della sperimentazione sull’uomo in questa fase?

 

[Rita Cadoni non è potuta essere presente in questa fase del dibattito]

 

Diane Richmond: Sembra molto sicura, come se da tempo con la terapia genica si curassero le malattie veterinarie o, almeno, le principali malattie genetiche degli animali da esperimento. Quello che si riesce ad ottenere, in genere, è la regressione di sintomi in malattie artificiali prodotte da noi nei topi, oppure la regressione di patologie che solo lontanamente assomigliano a quelle umane come nel caso delle encefalopatie sperimentali che produciamo nei topi.

 

Nicole Cardon: C’è un oceano di dati biochimici e di biologia molecolare che ignoriamo e che ci farebbe comodo conoscere per poter prevedere cosa accadrà dopo che un virus avrà di fatto infettato con il suo materiale genetico quello dell’ospite quando, secondo le nostre speranze, si dovrebbe comportare da servitore fedele ed inserire nel DNA il gene posticcio che gli abbiamo affibbiato con una operazione di ingegneria genetica alquanto grossolana. Forse Rita non sa che quell’oceano di dati richiederà anni o decenni di sperimentazione in vitro. Se noi sapessimo tutto, ad esempio, sulla regolazione dell’espressione genica e potessimo giurare che i virus che adoperiamo non lascino tracce nel genoma umano che potrebbero incidere sulla salute e sulla vita della persona trattata, allora sì che saremmo autorizzati alla sperimentazione sull’uomo come se sperimentassimo una protesi dentaria.

 

Diane Richmond: Dice Rita: “Probabilmente la storia di Gelsinger è stata scelta in mezzo a tante simili per offrire uno spunto di riflessione”…

 

Nicole Cardon: No. Grazie al cielo, no: si tratta dell’unico caso di morte direttamente causata dal mezzo terapeutico in tutti i protocolli di sperimentazione clinica controllata dall’FDA in quel periodo.

Poi vorrei dire -e Rita che è una persona gentile mi perdonerà la franchezza- che la sua affermazione che la terapia genica “rappresenta l’unica cura possibile” mi sorprende per una donna di scienza come lei, perché è sicuramente influenzata dai media. Non lei, intendo l’affermazione.

Per cura in medicina si intende un mezzo di sicura guarigione di una malattia o remissione delle sue manifestazioni, come la cura farmacologica della polmonite pneumococcica con la penicillina o la cura chirurgica di un ascesso mediante asportazione o drenaggio. Se parliamo di sperimentazione vuol dire che non abbiamo ancora una cura. Al più, abbiamo un’ipotesi terapeutica che stiamo sottoponendo al vaglio sperimentale.

 

Diane Richmond: Vorrei fare un commento sull’ultima osservazione di Rita…

 

Giuseppe Perrella: Poi quando Rita sente la registrazione o legge la trascrizione delle vostre risposte viene qui di corsa…

 

Nicole Cardon: E picchia te, perché noi saremo già lontane!

 

Diane Richmond: No, più che altro volevo prendere spunto per un’osservazione, visto che la mia prima formazione è in matematica. Lei dice: “La mia mente matematica mi suggerisce che dovrei avere qualche informazione più precisa riguardo ai numeri -mi riferisco alle statistiche sia favorevoli che nefaste.” La mia mente matematica risponde che non si giudicano così le ricerche.

E’ importante non confondere l’esperienza di identificazione con quella di misura. Questo è un cardine della ricerca. La misurazione, come quella statistica, valuta dei parametri dimensionali di un oggetto o di un fenomeno, ma non lo definisce e non lo scopre. C’è una deformazione logica che si diffonde con la moda dei sondaggi e dell’uso giornalistico dei dati statistici che porta molti a credere -o a pensare come se credessero- che un sistema di rilevazione si identifichi con un processo di sperimentazione. Al contrario, la statistica ha un piccolo ruolo nella ricerca di base e, talvolta, è totalmente assente.

 

Nicole Cardon: Si, facendo un discorso generale, si deve dire che la ricerca clinica intempestiva si basa moltissimo sulla statistica, anche per validarsi.

 

Giuseppe Perrella: E’ interessante a proposito di validazione statistica fare un’osservazione retrospettiva su molti farmaci impiegati in passato su funzioni mentali come la memoria. Dalla pemolina

 

Nicole Cardon: La famosa magnesio-pemolina che in America fu la prima, millantata, memory-pill… La pillola della memoria?

 

Giuseppe Perrella: Si, proprio quella. Dalla pemolina alla fosfatidilserina c’è una lista di molecole in cui gli studi farmacologici controllati contro placebo e farmaco di riferimento, davano risultati statistici inequivocabili. Secondo quegli studi quelle molecole erano sicuramente in grado di migliorare le prestazioni ai tests di memoria con metodo del doppio-cieco incrociato, ovvero ultrasicuro…

 

Nicole Cardon: Nessun neurobiologo serio avrebbe mai sperimentato quelle molecole come farmaci per la memoria… Non si sapeva quasi nulla all’epoca di LTP, NMDA, ecc…

 

Giuseppe Perrella: Infatti, già Steven Rose negli anni Settanta citava queste cose come una pura follia dei farmacologi clinici al servizio delle case farmaceutiche, ma la cosa è continuata e si è espansa: voi avete visto le statistiche che vi ho mostrato sulla fosfatidilserina in studi controllati eseguiti da ricercatori indipendenti non molti anni fa. Come si spiegano quei risultati? E’ difficile dirlo. Per certo si può dire che senza una solida conoscenza biologica ed una seria ipotesi biochimica e fisiologica, saltare alla statistica non serve a nulla. 

 

Nicole Cardon: La ricerca biomedica non deve essere vista come una black-box, una scatola nera, come se l’unico sapere posseduto dai ricercatori, quando si sperimenta una terapia, fosse quello che consente di decidere: è tossica/non è tossica e funziona/non funziona. Se così fosse nella sperimentazione farmacoterapeutica si procederebbe così: si prenderebbero farmaci noti e si modificherebbe un atomo per volta della loro struttura e, poi, cimentandoli su volontari umani si chiederebbe il responso alla statistica, fino a trovare le molecole più efficaci.

 

Diane Richmond: Basterebbe un piccolo software ed uno di quei robot della Celera Genomics per fare il lavoro di dieci laboratori.

 

Monica Lanfredini: Veramente interessante questa parte del dibattito, ho imparato molte cose!

 

Filippo Rucellai: Lo stesso dicasi per me. Ho cominciato a capire qualcosa di questi argomenti affascinanti. Quindi, ora mi rendo conto che la viroterapia che ha un suono sinistro -perché il vocabolo evoca immediatamente il paradosso di un presunto nemico, il virus, che dovrebbe invece curarci- al contrario di quanto un profano potrebbe supporre, è in molti casi più sicura della terapia genica, perché questa pure si fa con i virus -anche se non si nominano nella definizione- ma facendoli entrare nel nucleo della cellula e consentendo loro di mettere le mani nel nostro DNA. Dalle vostre facce evinco approvazione ed assenza di bischerate eccessive nel mio de vulgari compendio. Traendo sostegno e coraggio da codeste evidenze avanzo una domanda: prima di quest’epoca, voglio dire, di questi sviluppi recenti delle ricerche, si sono mai adoperati virus per curare l’uomo?

 

Nicole Cardon: Ma intendi nel passato?

 

Filippo Rucellai: Si.

 

Nicole Cardon: Se si eccettuano i vaccini…

 

Filippo Rucellai: No, non intendevo quelli. Fin lì ci arrivo…

 

Diane Richmond: Credo di no.

 

Giuseppe Perrella: Invece si. Come? I batteriofagi.

 

Nicole Cardon (rivolta a Filippo Rucellai e Monica Lanfredini): I virus dei batteri. Cioè i virus, come sapete, sono parassiti intracellulari cioè hanno bisogno di una cellula per riprodursi, per cui se impiegano cellule vegetali li chiamiamo virus vegetali, se parassitano cellule animali, virus animali, se, invece, cellule batteriche virus batterici o, come li battezzarono Twort e d’Herelle che li scoprirono, batteriofagi.

 

Giuseppe Perrella: Per la precisione fu d’Herelle a chiamarli così. Come fu lui a concepire la possibilità di impiegarli in terapia antibatterica: il batteriofago o fago determina, in genere, la lisi del batterio entro cui si è moltiplicato, per cui ritenne che si sarebbero potuti impiegare i fagi adatti a ciascun batterio patogeno.

 

Nicole Cardon (rivolta a Giuseppe Perrella): E sono mai stati impiegati veramente?

 

Giuseppe Perrella: Certamente! Sono stati impiegati ceppi di fagi specifici per molte infezioni batteriche. Ad esempio si facevano le somministrazioni per via orale nel tifo da bacillo di Eberth e nel colera, per via endovenosa nelle setticemie da stafilococco, attraverso catetere si immettevano in vescica nelle cistiti batteriche e li si indicava anche nelle raccolte purulente chiuse come gli ascessi…

 

Nicole Cardon: E i risultati?

 

Giuseppe Perrella: Pessimi. In vivo non si verificava la fase di adsorbimento necessaria alla penetrazione del batteriofago.

 

Nicole Cardon: Se siete d’accordo concluderei ricordando le quattro accuse mosse dall’FDA ai ricercatori clinici che causarono la morte di Jessie Gelsinger, perché si possa continuare a riflettere, anche dopo questo dibattito, e ringrazierei chi ci ha ascoltato e chi avrà la cortesia di leggere la trascrizione di queste nostre parole, augurandomi che riescano a sensibilizzare tante altre persone su questi temi e a provocare il desiderio di approfondire e riflettere. Grazie.

 

 

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The FDA charges the clinical researchers in the Gelsinger study with:

 

(1)    inadequately informing Gelsinger of the risks the trial entailed and soft-pedaling the fact that the therapy itself held no benefit  for him;

 

(2)    admitting Gelsinger to the study when his liver function did not meet parameters for inclusion in it;

 

(3)    not informing the FDA immediately by telephone (as FDA regulations require) of serious patient side effects in prior, similar tests; and

 

(4)    having a conflict between their interest in a gene technology company that contributes one-fourth of the institute’s annual budget and their interest in the safety and protection of research subjects.

 

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