DANNI DA ANTIDEPRESSIVI AL CERVELLO GIOVANE

 

 

Traci Johnson, una studentessa diciannovenne apparentemente serena e ricca di aspettative per il proprio futuro, fu trovata impiccata con una sciarpa al cannello della doccia il 7 febbraio del 2004. Allo strazio che producono sempre tali tragedie, in questo caso si aggiungeva la rabbia per la causa del suicidio: la ragazza era stata reclutata dalla casa farmaceutica Eli Lilly per la sperimentazione umana di un farmaco antidepressivo che, in precedenti esperimenti, aveva indotto altre quattro persone a togliersi la vita.

Il motivo per cui abbiamo voluto ricordare questo evento tragico è la giovane età della ragazza, un elemento estremamente rilevante alla luce di studi recenti che hanno dimostrato la potenziale lesività cerebrale nell’infanzia e nell’adolescenza degli antidepressivi più frequentemente prescritti, ossia quelli appartenenti alla classe farmacodinamica degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Questa categoria di composti, che agisce bloccando il trasportatore della serotonina (5-HTT), include numerose molecole quali fluoxetina, fenoxetina, paroxetina, fluvoxamina, citalopram, zimelidina, fenfluramina, mazindolo e così via, ma solo alcune di esse sono impiegate nelle terapia della depressione, e dello stesso composto esistono più preparazioni farmaceutiche nell’ambito di quella rosa di nomi commerciali a tutti nota, ossia Prozac, Zoloft, Celexa, Paxil, ecc., e dei corrispondenti “generici” (Paul Raeburn, Kids on Meds: Trouble ahead? Sci. Am. MIND 18 (3), 34-41, 2007).

Nel gennaio 2003 la Food and Drug Administration (FDA) riportò i primi dati sfavorevoli all’impiego di antidepressivi in età evolutiva, provenienti da uno studio controllato su ragazzi che avevano assunto Prozac per 19 settimane: chi aveva ricevuto il farmaco era cresciuto mediamente un chilo di peso ed un centimetro d’altezza in meno di chi aveva assunto un placebo. A molti questo esito è apparso allarmante, perché se uno psicofarmaco, del quale non si conosce un’azione endocrino-metabolica diretta, causa una riduzione dell’accrescimento, è probabile che determini uno squilibrio della fisiologia dell’intero organismo.

La pubblicazione del rapporto del 2003 fu seguita da tentativi di minimizzazione ed occultamento ma, secondo Thomas Laughren che dirige il settore di valutazione dei farmaci psichiatrici della FDA, il problema resta e, piuttosto, si dovrà meglio definire se si tratta di un effetto temporaneo o di un’azione che si accentua col passare del tempo. E proprio su questo aspetto insiste Laughren nel suo articolo sulla rivista Science, ossia sulla mancanza di dati relativi ai rischi nella somministrazione di lungo termine in età evolutiva[1].

Un punto di svolta nel dibattito sulla prescrizione di antidepressivi nell’infanzia e nell’adolescenza si è avuto nel 2004, con la pubblicazione su Science del secondo di due studi condotti dal gruppo di Jay A. Gingrich, professore di psichiatria e ricercatore presso il laboratorio del Sackler Institute for Developmental Psychobiology della Columbia University. L’articolo, insieme con un altro apparso circa un anno prima su Biological Psychiatry, riferiva l’esito di un progetto di ricerca articolato in due serie di esperimenti nei quali si riproduceva, in due diversi modi, una condizione di fisiologia molecolare della neurotrasmissione serotoninergica tipica degli assuntori cronici di SSRI.

La prima serie di esperimenti[2] valutava, mediante prove standard per lo studio della depressione e dell’ansia negli animali di laboratorio, le risposte di topi geneticamente modificati in modo che il loro cervello, come sotto l’effetto dei farmaci, accumulasse serotonina nello spazio intersinaptico senza poterne riportare l’eccesso nel terminale  presinaptico. In questi roditori era stato eliminato il gene per il trasportatore della serotonina (5-HTT-knockout mice o SERT-KO) in modo da sopprimere stabilmente l’azione bloccata solo temporaneamente dagli SSRI.

Nella sperimentazione animale, il disturbo causato dai sistemi neuronici dell’allarme alle risposte cognitive si considera un equivalente dell’ansia umana e l’incapacità di gestire lo stress è ritenuta un segno patognomonico di depressione murina. Secondo le teorie su cui si basa l’impiego degli SSRI, i topi geneticamente modificati avrebbero dovuto mostrarsi privi di paura e di inibizione, rispondendo in maniera più efficace dei topi normali agli stress-tests.

Gingrich e i suoi collaboratori rilevarono esattamente l’opposto. Negli esperimenti in cui venivano erogate lievi scariche elettriche ad un solo lato del fondo della gabbia, i topi normali rapidamente imparavano a sottrarsi al leggero shock correndo verso il lato opposto, mentre quelli col blocco genetico della ricaptazione avevano la tendenza a rispondere immobilizzandosi (freeze response) e a rimanere dalla stessa parte della gabbia dove le loro zampe erano state sottoposte a shock elettrico e, nei casi in cui provavano a sottrarsi, risultavano estremamente lenti. Allo stesso modo nel swim-test, in cui gli animaletti sono costretti a nuotare per salvarsi, i SERT-KO erano molto meno attivi. In altre parole si comportavano come i modelli murini di disturbo ansioso-depressivo.

L’esame del nucleo del rafe dorsale, dove ha sede un importante sistema serotoninergico, rivelava nei topi privi di 5-HTT una riduzione del 50% del patrimonio di neuroni contenenti serotonina ed una frequenza di scarica di ben quattro volte inferiore al valore normale.

La seconda serie di esperimenti[3] ripeteva le stesse prove in topi ai quali era stata somministrata per breve tempo fluoxetina (Prozac) in una fase precoce dello sviluppo.

Precedenti ricerche avevano dimostrato che la ridotta espressione di 5-HTT nell’uomo si associava a disturbi affettivo-ansiosi, con un equivalente sperimentale in topi e ratti, ma non se ne conosceva il meccanismo. In questo studio, l’inibizione transitoria e precoce del trasportatore della serotonina da parte della fluoxetina aveva determinato negli animali adulti gli stessi effetti comportamentali rilevati nei topi SERT-KO dello studio precedente.

Da tutti i dati emersi dalla sperimentazione, Gingrich e i suoi colleghi hanno dedotto che la trasmissione serotoninergica ha un ruolo fondamentale nella maturazione dei sistemi che modulano le funzioni emozionali nell’adulto, ed è sufficiente un’assunzione temporanea di Prozac in età precoci per alterare il normale schema dei collegamenti neurali di alcune aree.

Se i risultati del primo dei due lavori consentivano ai difensori della prescrizione di SSRI in età evolutiva di obiettare che l’inattivazione genica poteva aver alterato altre vie dello sviluppo e creato una situazione di deficit permanente che non è comparabile all’assunzione di un farmaco, il secondo lavoro dimostrava che un’assunzione temporanea in età precoce era sufficiente a determinare nell’animale adulto effetti permanenti ed equivalenti a quelli della mancanza del gene. In questa ottica, la seconda serie di esperimenti conferiva alla prima il valore di prova a sostegno di un pesante atto di accusa.

Fra le obiezioni mosse all’interpretazione che gli autori e numerosi altri ricercatori avevano dato di questi risultati, fu osservato che il cervello dei roditori è enormemente più semplice del nostro e le risposte comportamentali alle prove standard non si possono comparare all’ideazione depressiva o ad un qualsiasi stato d’animo umano.

La puntuale risposta a queste critiche è davvero facile: condividiamo con i roditori alcuni geni correlati alla serotonina e lo schema dei collegamenti dei sistemi serotoninergici che mediano le emozioni, essendo filogeneticamente antico, è quasi identico; le prove impiegate dal gruppo di Gingrich sono le stesse che si adoperano di routine nella sperimentazione che stabilisce l’efficacia e la specificità degli effetti di una molecola che si intende introdurre in terapia psichiatrica, pertanto se si ritiene che tali prove siano state idonee per il giudizio positivo degli psicofarmaci attualmente in commercio, parimenti si dovranno ritenere attendibili quando mostrano gli effetti negativi del Prozac sullo sviluppo cerebrale.

A queste osservazioni possiamo aggiungere che, se c’è una differenza veramente rilevante fra il cervello umano e quello di altri mammiferi, consiste nella cosiddetta prematurazione specifica -nascita con un sistema nervoso che completerà lo sviluppo nel rapporto con l’ambiente- e nella lunga durata dello sviluppo post-natale che, sia pur rallentando, prosegue per tutta l’adolescenza e la giovinezza. Caratteristica che potrebbe -almeno in linea teorica- rendere il nostro cervello vulnerabile per oltre due decenni dopo la nascita alle sostanze che agiscono sullo sviluppo.

I ragionevoli dubbi sollevati da queste ricerche dovevano e devono fare i conti con i numerosi problemi che rendono difficile l’accertamento di una precisa base cellulare e molecolare delle alterazioni dello sviluppo causate dagli SSRI.

Intanto, nel 2004 il Treatment for Adolescent with Depression Study (TADS) finanziato dal National Institute of Mental Health (NIMH), non ha evidenziato effetti tossici o indesiderati di rilievo degli SSRI alle dosi sperimentate e, valutando i risultati dei trattamenti farmacologici e della talk therapy, ha concluso che la maggiore efficacia si ottiene combinando le due modalità terapeutiche.

Nel 2005 il gruppo di Tim Oberlander[4], un pediatra dell’Università della British Columbia in Canada, ha pubblicato i risultati di uno studio sulla risposta al dolore di lattanti esposti prima e dopo la nascita ad SSRI: così come i neonati, i bambini di due mesi la cui madre aveva assunto fluoxetina o paroxetina durante la gravidanza, presentavano una sensibilità al dolore ridotta rispetto alla norma. Un tale riscontro è apparso a molti come un indizio significativo per la ricerca sui meccanismi del danno.

Amir Raz, professore di clinical neuroscience presso il Dipartimento di Psichiatria della McGill University (Canada), sottolinea l’importanza della recente acquisizione dello sviluppo esponenziale del cervello giovane, la cui mielinizzazione non si arresta intorno ai 12 anni come si riteneva in passato, ed afferma: “L’esposizione agli antidepressivi può alterare o influenzare il processo di formazione dei collegamenti del cervello, specialmente per ciò che concerne certi elementi che hanno a che fare con lo stress, le emozioni e la loro regolazione”[5].

Ma Raz fa seguire a questa preoccupazione generica un’osservazione molto più specifica: oltre ad essere un neurotrasmettitore, la serotonina agisce da fattore di crescita durante i primi anni della vita, promovendo la formazione di specifiche sinapsi e risultando cruciale per l’acquisizione di una risposta normale agli eventi ansiogeni dell’età adulta[6]. Le giuste quote di serotonina nei siti neuronici appropriati sono fondamentali per un corretto procedere di questi eventi maturativi, pertanto un aumento generale ed arbitrario della quantità di neurotrasmettitore, seguito dal rischio di svuotamento delle vescicole normalmente ricaricate dalla ricaptazione, potrebbe produrre conseguenze imprevedibili sullo sviluppo e sul funzionamento cerebrale.

Tali considerazioni inducono Amir Raz e la sua scuola della McGill University ad opporsi all’impiego degli SSRI in età evolutiva.

Traendo una conseguenza di carattere generale dal quadro fin qui delineato, possiamo ripartire tutte le azioni indesiderate degli SSRI in due categorie: a) alterazioni dei processi di sviluppo e maturazione, b) alterazioni neurofunzionali. Entrambe, anche se per motivi diversi, possono sfuggire all’osservazione clinica.

Nel primo caso la terapia farmacologica può migliorare il tono dell’umore ed innescare risposte comportamentali che, insieme con i cambiamenti fisiologici legati allo sviluppo, possono celare il danno che si renderà evidente solo col tempo, magari con disturbi psichici in età adulta. Raeburn rende questo concetto con una cinica ma efficace espressione: “E’ possibile che i bambini che assumono antidepressivi stiano solo scambiando una diagnosi con un’altra”[7].

Nel secondo caso la terapia farmacologica, anche attraverso la promozione della neurogenesi[8], può conferire maggiori energie a sostegno dell’attività, degli impegni e dei propositi della vita quotidiana, contribuendo ad avviare una sorta di circolo virtuoso fra stato di coscienza e comportamento, in grado di occultare lo squilibrio interno del sistema serotoninergico che agisce con i sistemi noradrenergici, dopaminergici, glutammatergici e gabaergici in una stretta interrelazione ancora in gran parte ignota nei suoi meccanismi molecolari[9]. 

Un aspetto del problema è dato dalla periodica pubblicazione di rassicuranti studi di carattere clinico ed epidemiologico-statistico in cui non si rilevano nei bambini e negli adolescenti reazioni indesiderate diverse da quelle rilevate negli adulti, ma la brevità degli studi e la dimensione dei campioni rende complessivamente poco significativi i risultati, non consentendo di registrare le reazioni poco frequenti[10]. A ciò si aggiunga che la maggioranza di questi studi sono finanziati e gestiti direttamente o indirettamente da case farmaceutiche che solitamente non pubblicano i risultati sfavorevoli all’impiego dei farmaci.

Negli USA la prescrizione di antidepressivi in età evolutiva è triplicata dal 1987 al 1996, ed ancora raddoppiata dal 1997 al 2000, continuando a crescere fino al 2002[11]. Dal 2004, l’anno della morte di Traci Johnson, dell’emergere a seguito delle inchieste degli altri casi di morte da antidepressivi occultati, della pubblicazione su Science del secondo dei due lavori del gruppo di Gingrich e di un avvertimento della FDA ai medici circa i rischi della prescrizione di SSRI in età evolutiva, si è avuto un livellamento nella curva tempo/numero di bambini e ragazzi in trattamento.

Julie M. Zito, ricercatrice dell’Università del Maryland, sulla base di informazioni ottenute da compagnie assicurative e da “Medicaid data”, afferma che negli USA circa un 1 milione e mezzo di ragazzi al di sotto dei 18 anni è attualmente in terapia cronica con SSRI[12].

La prima parte dell’articolo di rassegna di Paul Raeburn, che questa nota recensisce, ha il merito di avere riproposto un grave problema e averne presentato gli aspetti più rilevanti, sia pure con qualche inesattezza nelle referenze, che in questo testo abbiamo provveduto a correggere. La seconda parte, invece, nel probabile tentativo di bilanciare la prima, rischia di annullarla presentando ogni forma di depressione dell’età evolutiva come una malattia progressiva che non guarirebbe senza SSRI.

La nostra società scientifica è impegnata fin dalla sua fondazione nella critica al criterio poco scientifico su cui si basa l’impiego di tali farmaci, che non agiscono sulla causa o sulla patogenesi della depressione, ma producono effetti principalmente alterando il processo di neurotrasmissione serotoninergica[13]. Le ragioni che portano molti studiosi di neurobiologia su posizioni estremamente critiche nei confronti dell’impiego degli SSRI sono già esposte nell’intervista rilasciata dal nostro presidente nell’ottobre 2003 (Intervista a Giuseppe Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze), qui ci limitiamo a ricordare che il correlato neurobiologico più frequente dei disturbi depressivi di maggiore gravità è dato dalla riduzione di volume dell’ippocampo e di altre aree cerebrali, e dalla riduzione di noradrenalina, dopamina e serotonina, verosimilmente in conseguenza del ridotto numero di neuroni e di attività di sintesi dei tre neuromediatori. E’ intuitivo che il maggiore utilizzo di un neuromediatore in tali condizioni possa portare all’esaurimento delle scorte e, anche con una dotazione sinaptica media, ai dosaggi impiegati nella sperimentazione si possa determinare un’insufficienza acuta in grado di esporre al rischio di suicidio.

La morte di Traci Johnson si sarebbe potuta evitare semplicemente facendo buona scienza, dalle aule universitarie ai laboratori farmaceutici. Purtroppo, solo dopo il suicidio della ragazza americana, la FDA è intervenuta con un avvertimento rivolto ai medici sui pericoli della somministrazione di tali molecole, ma non ha realmente posto restrizioni alla sperimentazione.

A nostro avviso, però, non è dalle agenzie di controllo o da altre autorità amministrative che può venire la soluzione del problema della terapia dei disturbi depressivi in età evolutiva, perché riteniamo che la migliore protezione dei pazienti venga dalla buona preparazione dei medici, e siamo contrari alla deriva cui si sta andando incontro in molti paesi, di una medicina fatta di decreti e formule standard anziché di ragionamento e studio del singolo paziente. Come si ribadisce da decenni ai corsi di farmacologia medica, ogni somministrazione di un farmaco è un esperimento del quale il medico deve avere consapevolezza, controllo e responsabilità.

Nel rischio da antidepressivi un ruolo di fondamentale importanza, in tutto il mondo, riteniamo debba averlo la formazione e l’aggiornamento del medico, il quale deve disporre degli strumenti necessari a coltivare un sapere critico e costantemente ispirato all’etica e alla deontologia professionale (Note e Notizie 15-07-06 La scienza a supporto di una nuova etica per i farmaci della mente).

Un medico può essere costretto a prescrivere cortisonici in età evolutiva, ad una dose che avrà effetti inibitori sull’accrescimento, ma in scienza e coscienza lo farà solo quando non avrà altra alternativa. Allo stesso modo lo psichiatra -o neuropsichiatra infantile- valuterà con estrema prudenza il rischio di interferire con lo sviluppo encefalico e, solo se assolutamente necessario, farà ricorso alla prescrizione di molecole inibitrici della ricaptazione di serotonina, allo scopo di impiegarne gli effetti come innesco e sostegno per un lavoro volto ad agire sulla vita intrapsichica e relazionale del piccolo o giovane paziente. Perché ogni psichiatra sa che nessuna forma di depressione è inguaribile e che gli SSRI non possono ritenersi in senso stretto una cura.  

 

 Ringrazio Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, la cui competenza psichiatrica mi è stata indispensabile per affrontare questo argomento che da neuropsicofarmacologa non avrei potuto trattare adeguatamente: questo scritto dovrebbe portare anche la sua firma e quella di Nicole Cardon, che mi ha fornito alcuni dei lavori citati nel testo e mi ha segnalato le inesattezze presenti nell’articolo di Paul Raeburn.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Settembre 2007

www.brainmindlife.org

 

 

 

 



[1] Raeburn P., citato nel testo, p. 39, 2007.

[2] Lira A., et al. Biological Psychiatry 54 (10): 960-971, 2003.

[3] Ansorge M. S., et al. Science 306 (5697): 879-881, 2004.

[4] Oberlander T. F., et al. Pediatrics 115 (2): 411-425, 2005. L’autore, con vari collaboratori, in precedenza aveva già studiato le risposte dei neonati di madri in trattamento con SSRI in gravidanza, valutandone vari aspetti.

[5] Raeburn P., cit., p. 36, 2007.

 

[6] Raz A., PloS Med. 3(1):e9 Jan., 2006.

[7] Raeburn P., cit., p. 36, 2007.

 

[8] Note e Notizie 08-07-06 Antidepressivi come regolatori della neurogenesi.

[9] L’azione degli SSRI realizza, in questo senso, una sorta di “delitto perfetto” perché, con il doping della sola componente serotoninergica, non altera la fisiologia dei maggiori sistemi implicati nella mediazione della funzione psichica di base attuale e nella risposta allo stress. Una delle conseguenze non svelate, perché non attribuite agli SSRI ma alla storia naturale della malattia depressiva, può essere costituita dal non raro riscontro di recidive in forma molto più grave in pazienti precedentemente trattati con questi farmaci.

[10] Si veda alla p. 68 di Stefano Cagliano & Mauro Miselli, “Il danno da farmaci”. Le Scienze 467, 64-71, 2007. Si tenga conto di questo criterio suggerito da “Drug & Therapeutics Bullettin”: per avere una certezza del 95% di rilevare un evento che si verifica con una frequenza di 1 su 1000 devono essere esaminate 3000 persone. A questo criterio che vale per la sperimentazione farmacologica in generale, si aggiunga che le differenze individuali accertate e possibili del cervello superano di gran lunga quelle di tutti gli altri organi.

[11] B. Vitiello, et al. Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry 45 (3): 271-279, 2006.

 

[12] Raeburn P., cit., p. 36, 2007.

 

[13] Per una rassegna aggiornata dei sistemi neuronici e dei meccanismi molecolari implicati nella depressione si veda: John J. Mann, Dianne Currier, Jorge A. Quiroz, Husseini K. Manjii, Neurobiology of Severe Mood and Anxiety Disorders, in Basic Neurochemistry (Siegel, Albers, Brady, Price, eds), pp. 887-909, Elsevier Academic Press, 2006.