LA SCIENZA A SUPPORTO DI UNA NUOVA ETICA PER I FARMACI DELLA MENTE

 

 

Steven Rose, biochimico e neurofisiologo  fra i fondatori della moderna neurobiologia, nel suo “The Conscious Brain” del 1973 proponeva un’impietosa analisi del trattamento farmacologico dei disturbi mentali in un paragrafo il cui titolo così sintetizzava una sentenza senza appello: “Le malattie si curano prendendo a calci il cervello”.

A distanza di oltre trent’anni BM&L-Italia, nel corso di un incontro dal titolo: “Il fondamento scientifico della psicofarmacoterapia e l’egemonia economico-politica delle case farmaceutiche sulla ricerca”, si è chiesta se e come sia cambiato il giudizio dei neurobiologi sull’impiego degli psicofarmaci.

 

Qui di seguito riportiamo gli spunti salienti della relazione di Giuseppe Perrella, presidente di BM&L-Italia, e Nicole Cardon, responsabile della sezione BRAIN, in una sintesi che omette i dettagli tecnici.

 

Non è un mistero che i membri della nostra società scientifica siano impegnati in una dura battaglia volta al fine di ottenere che si abbandoni quell’orientamento che ha portato ad introdurre in terapia psichiatrica una grande quantità di molecole sulla base di conoscenze limitate ed approssimative, e di congetture e ragionamenti fisiofarmacologici lontani dal quadro complessivo delle conoscenze neurobiologiche.

Oggi, la visione generale della neurofisiologia dei sistemi cerebrali e i dati di neurobiologia, non consentono più di giustificare errori, già ritenuti imperdonabili da Steven Rose, come l’attribuzione di una funzione psichica ad un singolo tipo di trasmettitore o di recettore.

Se fino a trent’anni fa, per giustificare la sintesi e l’uso di composti dei quali si conosceva la capacità di modificare gli effetti di un neurotrasmettitore e poco altro, si poteva invocare l’alibi di una parvenza di fondamento scientifico, assente fino a quel momento in terapia psichiatrica, e di un’efficacia clinica mai ottenuta in precedenza con trattamenti che ci appaiono rozzi e barbarici (induzione del coma insulinico, elettroshock, psicochirurgia, ecc.), oggi questo non è più accettabile. Le teorie costruite ad hoc per spiegare l’effetto di psicofarmaci in grado di ridurre sintomi di cui si ignorava la patogenesi, si sono spesso rivelate fallaci, mettendo a nudo la realtà di un impiego empirico ammantato di una veste scientifica, tagliata e cucita per l’occasione dai sarti delle case farmaceutiche, sulla base delle nozioni maggiormente diffuse nelle scuole mediche e delle novità di maggior presa sugli psichiatri.

La libertà di una coscienza sottoposta solo all’ordine superiore della morale è una condizione indispensabile per l’esercizio della ragione in ogni campo della conoscenza e in ogni attività professionale. E questa libertà di coscienza dovrebbe essere custodita, preservata e coltivata in ogni impresa associativa concepita per la tutela di un sapere e dei suoi destinatari. E’ noto che la burocratizzazione delle istituzioni scientifiche e professionali, sostituendo la forma delle procedure alla sostanza del sapere nella gerarchia dei valori, rende tali organizzazioni più docili alla manipolazione da parte di chi esercita un forte potere di influenza economica e politica. La trasformazione di un organismo scientifico in un apparato burocratico è una delle strategie più subdole ed efficaci per sottomettere i suoi membri e soffocare quell’indipendenza di giudizio indispensabile a garantire la conservazione delle conoscenze e il progresso del sapere. Per la sua crescente diffusione ed espansione, la burocratizzazione rappresenta un grave rischio globale in proiezione futura, ma è già un problema presente, con il quale è necessario fare i conti quotidianamente. E’ un problema che riguarda la commissione dell’American Psychiatric Association (APA) per il periodico aggiornamento del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM).

Dalla sua terza edizione il DSM (ora giunto alla versione IV-TR) non si è più limitato ad ordinare ed organizzare le definizioni diagnostiche allo scopo di facilitare la comunicazione e l’elaborazione statistica dei dati fra paesi e culture psichiatriche diverse, ma ha espresso nuovi criteri da adottare per formulare le diagnosi, spesso operando scelte culturali che sono state imposte a tutta la comunità scientifica e clinica del settore. La commissione preposta all’elaborazione del manuale è divenuta sempre più simile ad un organismo politico legiferante, che cerca il compromesso fra i poteri più forti rappresentati al suo interno, contemperandone le richieste per rappresentarne le opinioni, incurante di tre importanti requisiti che riteniamo debbano essere sempre soddisfatti dalle classificazioni che si adottano in diagnostica e terapia:

 

1)      fondamento nelle conoscenze sperimentali sottoposte a verifica,

2)      costruzione nel rispetto della logica e della coerenza interna,

3)      scopo di utilità intrinseco agli obiettivi della disciplina.

 

Come hanno rilevato Gaspare Vella e Massimiliano Aragona, l’eccessivo splitting del DSM-IV-TR risente della pressione delle case farmaceutiche che vogliono un numero sempre maggiore di categorie cui far corrispondere una quantità crescente di tipi farmacologici (Vella e Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia – Categorie e Dimensioni. Bollati Boringhieri, Torino 2000).

 Se la commissione dell’APA per il DSM -con buona pace di membri quali Nancy Andreasen, che hanno dimostrato in passato competenza e rettitudine al di sopra di ogni sospetto- si è abbassata a creare una categoria nosografica fittizia per consentire l’impiego (e la vendita) di un farmaco che la maggior parte degli psichiatri italiani e di molti altri paesi considera inutile, le sue decisioni non dovrebbero più essere accettate passivamente, ma dovrebbero essere sottoposte al vaglio di un attento esame critico ispirato a conoscenze certe e non a convenzioni di comodo.

Per questo è necessario che gli psichiatri nutrano sempre di più la propria indipendenza di giudizio studiando le neuroscienze di base, seguendo i risultati della ricerca neurobiologica, tenendo conto del dibattito che si sviluppa fra membri della comunità scientifica lontani dagli interessi delle imprese biotecnologiche e farmaceutiche; anche se tutto ciò richiede sacrifici di tempo e sforzi che talvolta mal si conciliano con le esigenze di una professione tecnicamente difficile e impegnativa sul piano umano. Solo così sarà possibile creare una consapevolezza più ampia e una cultura comune che saldi il valore della conoscenza scientifica al maggiore interesse della persona ammalata o bisognosa di aiuto.

 

La nota è stata compilata estraendo passi a carattere discorsivo dalla registrazione della presentazione, allo scopo di trasmetterne il contenuto nella sua prospettiva critica anche a visitatori del sito non in possesso di una preparazione specialistica nel settore. Il risultato non rende giustizia alla qualità scientifica dell’esposizione integrale, pertanto Isabella Floriani, che ha materialmente esteso il testo della nota, se ne scusa con gli autori e li ringrazia per la disponibilità mostrata.

 

Nicole Cardon & Giuseppe Perrella

BM&L-Luglio 2006

www.brainmindlife.org