Farmacoterapia dell’alcolismo: una risposta dalla Società Nazionale di Neuroscienze

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 25 gennaio 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

1. Introduzione. Sono pervenute alle nostre caselle di posta elettronica numerose lettere sul frequente trattamento secondo protocolli dell’acuzie psicotica, concepiti decenni or sono, delle emergenze causate da comportamenti aggressivi e distruttivi di alcolisti mono-dipendenti o poli-dipendenti. Una domanda frequente da parte degli studenti è se esistono terapie farmacologiche efficaci per prevenire lo sviluppo di tali crisi. Un’altra richiesta giunta da più parti d’Italia è quella di esprimere un parere sull’opportunità di impiegare trattamenti non concepiti per l’abuso alcoolico, per ottenere effetti neurodeprimenti in grado di sedare un alcolista che si renda pericoloso; infine, alcuni colleghi hanno sollevato il problema deontologico dei possibili danni derivanti da una farmacoterapia inappropriata.

Affrontare in maniera esaustiva queste questioni richiederebbe la redazione, con il contributo di molti nostri soci, di un piccolo saggio multidisciplinare che affronti problemi spinosi che vanno dai rapporti fra ricerca neuroscientifica di base ed intervento clinico, fino all’operatività dei presidi sanitari sul territorio nazionale. Nelle righe che seguono, mi limiterò ad esporre in estrema sintesi alcune nozioni aggiornate in materia di ricerca sulla terapia dell’alcolismo e di possibilità già in uso presso centri e servizi “virtuosi”.

Con questo scritto si intende far presente a tutti coloro che ci hanno rivolto la richiesta di esprimere una posizione o indicare delle linee-guida per il trattamento, che il corretto modo di procedere è implicitamente definito dalle nozioni già insegnate nella maggior parte delle scuole mediche del mondo. Per essere espliciti, si ribadisce che la nostra Società è contraria ad ogni scelta dettata da logiche diverse da quella ippocratica di agire sempre nell’interesse del paziente e per il miglioramento del suo stato di salute.

Infine, se può interessare il modesto parere di chi scrive, più che attendere i progressi della genetica per identificare con un esame del sangue i soggetti a rischio, la prevenzione dovrebbe puntare su un cambiamento culturale nel rapporto con le sostanze psicotrope e nella gestione delle difficoltà della vita, mediante un insegnamento scolastico precoce non limitato all’esposizione dei rischi ma fondato sulla proposta di valori e modelli di vita salutari. L’esperienza convinta e precoce di priorità non egoistiche e la coscienza attiva di dovere vivere ed agire per obiettivi e scopi superiori alla semplice soddisfazione dei propri desideri, magari in una realtà quotidiana di responsabilità ed aiuto di altri, quali familiari ed amici, credo che riduca drasticamente il rischio della dipendenza da sostanze psicotrope, così come da forme di compulsione comportamentale, quali quelle sessuali e del gioco d’azzardo.

 

2. Cenni sul meccanismo d’azione dell’etanolo e sui sistemi neuronici che contribuiscono agli effetti “rinforzanti”. Ha ormai solo interesse storico la teoria, per molti decenni riportata dai libri di testo, secondo cui l’azione dell’alcool etilico sul cervello si sarebbe esplicata attraverso un’alterazione del bilayer lipidico dei neuroni. Oggi si conoscono molti bersagli molecolari specifici dell’etanolo ed è noto che gli effetti dell’esposizione protratta sono dovuti a due ordini di processi: neuroadattamento e neurotossicità. Recentemente, Nicole Cardon ha riproposto, in una recensione, un’efficace sintesi delle principali azioni dell’etanolo al livello molecolare, così come erano state esposte dal nostro presidente; qui di seguito si riporta il brano.

“L’etanolo interagisce direttamente con canali ionici regolati da ligando e regolati da voltaggio, fra cui GABAA, NMDA, 5-HT3, recettori per la glicina e nicotinici dell’acetilcolina, così come canali di tipo L del Ca2+ e GIRK (da G protein-activated inwardly rctifying K+ channels). La ricerca ha focalizzato a lungo l’attenzione sulla capacità dell’alcool etilico di agire da modulatore allosterico negativo dei recettori NMDA del glutammato e di rinforzare la trasmissione GABA attraverso meccanismi presinaptici e post-sinaptici. L’assunzione di lungo termine di alcool induce cambiamenti compensatori che alterano gli effetti prodotti normalmente dalla molecola. Per esempio, i recettori NMDA sono iperespressi, mentre i recettori GABAA vanno incontro ad una iporegolazione funzionale, conseguente a cambiamenti nella composizione in subunità del recettore. Tutto ciò conduce ad una accresciuta eccitabilità neuronica durante la sindrome da astinenza acuta, quando manca l’etanolo per ridurre la funzione dei recettori NMDA e rinforzare la trasmissione inibitoria del GABA. L’accresciuto tono della neurotrasmissione dei sistemi che segnalano mediante glutammato può contribuire alla grave neurotossicità causata dalla dipendenza alcoolica ed alle crisi convulsive che spesso accompagnano la sindrome da astinenza.

Numerosi circuiti sono implicati negli effetti di rinforzo dell’alcool[1], oltre all’accresciuta frequenza di scarica delle popolazioni di neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale (VTA) connesse con il comportamento compulsivo[2][3].

Non è superfluo soffermare l’attenzione su cosa si intende per “rinforzante” o reinforcer, termine che nella letteratura scientifica è riferito tanto alle sostanze psicotrope di abuso quanto a cibo, bevande ed attività sessuale: qualcosa che in determinate dosi o condizioni manifesta la proprietà di imprimere (stamp in) o rafforzare associazioni apprese, così che i comportamenti associati con l’ottenimento del rinforzo tendono ad essere ripetuti. Alla base dell’effetto rinforzante, come è noto, è stato riconosciuto un meccanismo comune, consistente nell’attivazione dei neuroni dopaminergici del circuito mesocortico-limbico che origina nella VTA (area tegmentale ventrale del mesencefalo) e proietta ad aree della corteccia e del cosiddetto sistema limbico. L’elevazione dei livelli di dopamina nel nucleo accumbens, una delle stazioni del circuito, è particolarmente importante per lo sviluppo del rinforzo. Questo nucleo sembra funzionare da interfaccia fra le regioni limbiche e corticali importanti per la motivazione, da una parte, e i circuiti motori responsabili dell’esecuzione del comportamento motivato, dall’altra. I neuroni dopaminergici della sostanza nera, che proiettano principalmente allo striato dorsale, sono importanti negli apprendimenti e nelle prestazioni dei comportamenti abituali legati alla dipendenza da sostanze psicotrope. Il ruolo di questi sistemi, in generale e nell’alcolismo, è oggetto di numerosi studi (Wheeler & Carelli, 2009)[4].

Come altre sostanze di abuso, l’assunzione acuta di etanolo accresce la frequenza di scarica dei neuroni dopaminergici della VTA, con meccanismi non ancora del tutto chiariti.

In molti studi la disinibizione dei neuroni dopaminergici è considerata una conseguenza di alterazioni di MOP-R e della trasmissione GABA nella VTA, ma l’alcool eccita anche direttamente i neuroni rilascianti dopamina attraverso la sua azione sui canali ionici regolati dal voltaggio. Comunque, questa attivazione delle popolazioni dopaminergiche contribuisce all’acquisizione di “rinforzo” nella fasi iniziali dell’addiction, ma altri sistemi trasmettitoriali sono importanti.

Un ruolo è svolto dagli oppioidi endogeni, ed è stata dimostrata l’importanza degli endocannabinoidi, soprattutto nell’eccessivo consumo e nello sviluppo del desiderio compulsivo. Altri studi hanno evidenziato la partecipazione della trasmissione glutammatergica attraverso i recettori metabotropici del glutammato mGluR5, con il nucleo accumbens quale sede elettiva.

Una volta che la dipendenza si è sviluppata, gli effetti ansiolitici dell’etanolo diventano un fattore critico nel mantenere un consumo continuato dell’alcool, in virtù degli effetti di sollievo dallo stato emozionale negativo indotto dall’astinenza. Questo stato negativo ed ansiogeno è dovuto a neuroadattamento indotto dall’etanolo nei neuroni dei sistemi dello stress, in particolare nell’amigdala estesa. Proprio questo neuroadattamento porta ad una eccessiva risposta allo stress (upregulated response) con conseguente tendenza crescente all’assunzione e aumento della vulnerabilità alle recidive dopo interruzione.

In questi adattamenti un ruolo molto importante è svolto dal CRH, sebbene siano importanti anche altri neuropeptidi, quali la sostanza P (con il suo recettore, neurochinina 1), e la trasmissione inibitoria GABA. Studi recenti hanno dimostrato che l’impiego di antagonisti del CRH e del recettore neurochinina 1, riducono il consumo di alcool e la recidiva indotta da stress in animali resi dipendenti.

 

3. La terapia farmacologica dell’alcolismo sta facendo progressi. Nel 1948, Jens Hald ed Erik Jacobsen, due ricercatori danesi che stavano studiando degli antielmintici, scoprirono che uno di questi, il disulfiram, causava in chi assumeva alcool una complessa reazione negativa che induceva il soggetto a tenersi lontano dalle bevande alcooliche[5]. Il disulfiram è stato impiegato per molti anni per aiutare a prevenire le recidive, ma la buona accettazione del farmaco è spesso bassa. Come è noto, il disulfiram (Antabuse) inibisce l’aldeide deidrogenasi, un enzima importante nel metabolismo dell’etanolo, causando un accumulo di acetaldeide che produce effetti spiacevoli quali nausea e disgusto, ma anche ansia e tachicardia.

Dagli anni ’70-’80 è stata spesso prescritta la calciocarbamide (Temposil) che, rispetto al disulfiram, induce minori alterazioni elettrocardiografiche e della pressione sanguigna, ma ha un’efficacia di breve durata, perché eliminata più rapidamente.

Per trattare l’ipereccitabilità e l’ansia da astinenza si impiegano le benzodiazepine che, fin dagli anni ’60 hanno sostituito i barbiturati (acidi barbiturici) e, per evitare effetti indesiderati da sinergia ed altri rischi, si sono preferite molecole quali l’oxazepam (Serpax), apparso più scevro da rischi al vaglio sperimentale. Gli effetti collaterali e la probabilità di sviluppare dipendenza con i barbiturici erano tali, che l’introduzione delle benzodiazepine li ha fatti accantonare in breve tempo. Il rischio di tossicità da barbiturici è assente con le benzodiazepine, mentre il rischio di dipendenza è decisamente minore e non porta a sindromi da assunzione compulsiva di entità rilevante. Tuttavia è importante ricordare che alcool etilico, barbiturici e benzodiazepine presentano tolleranza crociata e dipendenza crociata, in quanto tutti e tre sono modulatori allosterici positivi dei recettori GABA-A, e causano riduzione della trasmissione GABA dopo assunzione cronica. Per questa ragione, si ritiene opportuno ridurre ansia ed irritabilità mediante approcci non farmacologici (psicoterapia, esercizi di rilassamento, ecc.…).

Farmaci che stanno modificando la terapia dell’alcoolismo sono il naltrexone (al quale si è dedicato il paragrafo seguente) e l’acamprosato. Il naltrexone è un antagonista degli oppioidi e la sua efficacia nel ridurre il bisogno di assunzione e l’effettivo consumo di alcool è dovuta al ruolo dei recettori degli oppioidi negli effetti rinforzanti dell’etanolo.

L’acamprosato ha un bersaglio farmacodinamico non ancora ben definito, ma si ritiene che la sua capacità di ridurre efficacemente il desiderio spasmodico di assunzione, sia dovuta alla correzione dell’iperfunzione dei sistemi eccitatori che impiegano il glutammato. Nell’astinenza, infatti, si crea uno stato iperglutammatergico che sembra essere ricondotto a livelli fisiologici dall’acamprosato.

In termini clinico-statistici, le dimensioni dell’efficacia di entrambi i farmaci sono modeste, soprattutto a causa dell’eterogeneità di risposta riscontrata in popolazioni estese di pazienti.

Sono in corso, attualmente, vari studi che tendono a verificare se gli alcolisti motivati dagli effetti di rinforzo dell’etanolo rispondono bene al naltrexone - come sembra da studi preliminari - e se quelli che cercano sollievo dai sintomi dell’astinenza rispondano bene all’acamprosato.

Per ciò che concerne il prossimo futuro, ossia i farmaci in attesa di completare l’iter necessario all’inclusione nel prontuario, studi animali e sperimentazioni già pervenute alla fase clinica hanno mostrato promettenti risultati con molecole agenti sui sistemi neuronici che impiegano glutammato, GABA, neurochinina 1, recettori serotoninergici 5-HT3, e recettori colinergici nACh.

Una delle prospettive più promettenti per il futuro è rappresentata dalla definizione delle caratteristiche di un paziente alcolista mediante markers genetici e di altro tipo, così da personalizzare il più possibile il trattamento. Il comprensibile ottimismo al riguardo negli Stati Uniti, è giustificato da una tradizionale rapidità ed efficienza nella diffusione capillare sul territorio di servizi di screening e diagnostica genetica basata sugli ultimi risultati della ricerca. In Italia non vi sono molti motivi per essere così ottimisti, soprattutto se si guarda al numero di anni che mediamente trascorre fra l’introduzione di nuove procedure cliniche e la loro reale presenza nei presidi sanitari di tutto il territorio nazionale. Tuttavia, è lecito sperare che, come talvolta è avvenuto in passato, la qualità scientifica, culturale ed umana dei professionisti italiani trovi il modo di superare ostacoli economici ed organizzativi.

 

4. Alcolismo trattato secondo il genotipo [tratto da una nota pubblicata il 28-01-12][6].

E’ per molti versi utile ed istruttivo conoscere i fatti che hanno portato ad un nuovo trattamento farmacologico dell’alcolismo, senza il supporto e con qualche resistenza da parte delle case farmaceutiche, partendo da modelli animali e giungendo a realizzare la prima terapia psichiatrica della storia guidata dal genotipo.

Non si tratta dell’epopea della concezione di un nuovo tipo di intervento farmacologico con molecole interamente nuove, ma del racconto del difficile cammino intrapreso in seguito all’osservazione dell’efficacia del naltrexone, un antagonista degli oppioidi impiegato nei tossicodipendenti da eroina, per trattare l’abitudine all’alcool acquisita da animali.

Nel 1979 Altshuler selezionò un piccolo gruppo di scimmie del genere Rehsus in base alla tendenza spontanea all’auto-somministrazione di alcool mediante dispositivo intravenoso. Sottoposte a pre-trattamento prima dell’assunzione di alcool con tre dosi graduate di naltrexone e, per controllo, con una soluzione salina quale placebo standard, le scimmie rivelarono un’efficacia dose-dipendente dell’antagonista oppioide nell’indurre la cessazione dell’auto-somministrazione (Altshuler, et al., 1980). Questo esperimento fu poi ripetuto nel topo e nel cercopiteco, con la variante dell’assunzione orale spontanea di alcool, e i risultati confermarono l’efficacia del naltrexone.

A partire dal 1983, un gruppo di ricercatori che studiava tanto i modelli animali quanto l’efficacia clinica di trattamenti farmacologici, ottenne l’autorizzazione a sperimentare il naltrexone in pazienti affetti da alcoolismo. I trial clinici condotti da quel momento agli anni Novanta diedero tutti conferma dell’efficacia dell’antagonista oppioide (Volpicelli, et al., 1990; Volpicelli, et al., 1992).

Per spiegare questi effetti erano state avanzate varie ipotesi; fra queste la più accreditata proponeva come meccanismo-chiave l’attivazione del sistema molecolare degli oppioidi endogeni da parte dell’alcool, con la conseguente entrata in funzione del sistema a ricompensa attraverso la stessa via dell’eroina. Studi successivi sugli animali, volti ad individuare i processi sottostanti l’efficacia del naltrexone nella dipendenza da alcool, fornirono ulteriori elementi interessanti. Impiegando la microdialisi nel sistema a ricompensa, in particolare nel nucleo accumbens, dimostrarono che l’etanolo aumenta il rilascio di dopamina da parte del sistema neuronico che determina la sensazione di piacere e la spinta a ripetere l’assunzione, e che il pretrattamento con naltrexone è in grado di prevenire questo stimolo al rilascio. In altri termini, l’attivazione dello stesso sistema neuronico dopaminergico era in gioco sia nella tossicodipendenza da eroina che da alcool etilico[7].

Negli anni Ottanta, la forte ideologizzazione nel dibattito sull’uso delle “droghe ricreative” negli USA e in Europa, era riuscita a condizionare una parte del mondo della ricerca che, per prevenire la strumentalizzazione dei risultati scientifici da parte di quelle lobbies che, al fine di sostenere la liceità dell’uso dell’eroina, la mettevano sullo stesso piano delle bevande alcooliche, tendeva a rimarcare la separazione e le differenze fra diacetil-morfina ed etanolo. In tale ottica, si riteneva che rendere noto un processo comune e rafforzare l’impressione della somiglianza con l’impiego di un farmaco identico, sarebbe stato sufficiente ai gruppi di pressione collegati con le centrali dello spaccio ed agenti su inconsapevoli masse di propagandisti involontari, a rappresentare una realtà distorta e favorevole al consumo di sostanze psicotrope dannose per l’organismo.

In realtà, il problema non esisteva in termini neuroscientifici, in quanto, se la base neurofunzionale è simile e in parte identica per la dipendenza, e per ogni dipendenza, i processi patogenetici e fisiopatologici alla base della tossicità di alcool ed eroina sono in gran parte distinti e separati.

D’altra parte, si deve ricordare che la casa farmaceutica proprietaria dei diritti sul naltrexone non si mostrò favorevole a presentare alla FDA la documentazione per ottenere l’indicazione per il trattamento dei disturbi psichiatrici da abuso di alcool etilico.

Dal 1990, presso l’Alcohol Center dell’Università del Connecticut, in collaborazione con istituti dell’Università di Yale, furono replicati gli studi precedenti riportando gli stessi risultati, così i ricercatori provarono nuovamente a sostenere la causa di un’estensione delle indicazioni per un farmaco già in uso da molti anni (O’Malley et al., 1992).

Solo grazie ad una serie di fortunate coincidenze, come ha notato Charles P. O’Brien, i dati furono finalmente presentati alla commissione scientifica della FDA e così, dopo revisione, il trattamento dell’alcolismo fu aggiunto alle indicazioni ufficiali del naltrexone.

In tal modo, un approccio terapeutico totalmente nuovo era stato sviluppato a partire da modelli animali e tradotto in un intervento clinico senza alcun supporto da parte delle case farmaceutiche, nemmeno di quella che, nel caso positivo poi verificatosi, sarebbe stata la principale beneficiaria.

Gli studi sono proseguiti e, negli anni recenti, altri antagonisti dei recettori degli oppioidi sono risultati utili nel trattamento dell’alcolismo, mentre del naltrexone è stata realizzata una versione depot, somministrabile anche in un'unica dose mensile, che è stata approvata dalla FDA sia per la dipendenza da oppioidi che da alcool.

Poiché solo una parte degli alcolisti risponde al naltrexone, si è ipotizzato un meccanismo farmacogenetico. La ricerca neurogenetica condotta su questa ipotesi ha portato all’identificazione di una variante allelica del gene del recettore μ per gli oppioidi, quale marker di un’accresciuta euforia da alcool bloccabile con naltrexone e di una forte risposta a questa molecola nel trattamento dell’alcolismo (Oslin et al., 2003; Anton et al., 2006).

Uno studio pubblicato nel 2011 ha impiegato un modello murino con un gene umano del recettore oppioide μ, individuando un determinante genetico di un’accentuata risposta dopaminergica striatale all’alcool nella specie umana (Ramchandani et al., 2011).

Sulla base di queste conoscenze, il trattamento dell’alcolismo con antagonisti dei recettori oppioidi è di fatto la prima terapia farmacologica psichiatrica guidata dal genotipo.

 

5. Considerazioni conclusive. Lo stato patologico dell’organismo che va sotto il nome di alcolismo è una condizione clinica complessa che presenta una sintomatologia prevalente di tipo psichiatrico, associata a vari quadri di interesse internistico dovuti alla tossicità acuta e cronica da etanolo[8]. È importante aver presente questo aspetto, ossia rendersi conto che, ancora una volta, la stretta continuità mente-corpo deve essere presente al medico: l’alcoolismo non deve essere indagato solo rispetto alle cause o per i circoli viziosi che determina in termini psicologici, ma deve essere studiato come una particolare condizione di rottura di una serie di equilibri, dovuta ad effetti diretti, indiretti o a catena. Si pensi, ad esempio, alla depressione immunitaria e allo stato di accresciuta infiammazione sistemica[9], in tutte le possibili conseguenze, incluse quelle sull’encefalo.

Per tale ragione, la definizione dello stato tossico (presenza di patologia epatica, dermatologica, immunitaria, ecc. …) non è meno importante dello studio della psicopatologia del paziente ed è necessario che un solo medico, pur supportato dai vari specialisti e dai vari reparti clinici di consulenza necessari, abbia un quadro completo e complessivo della persona, della sua volontà di essere aiutato e di aiutarsi, come di tutti gli aspetti clinici, sia psichiatrici che internistici. Solo con questa conoscenza, un medico potrà scegliere opportunamente i farmaci e il dosaggio da impiegare caso per caso.

Attualmente si ritiene che il rischio di sviluppare alcoolismo dipenda da una complessa interazione di fattori genetici e ambientali, con particolare rilievo per lo stress. Probabilmente si sottovalutano ancora due concause molto frequenti in questi ultimi anni: il massiccio ritorno all’alcool per i riti di “sballo” giovanili e il ricorso all’alcool da parte di persone dipendenti da altre sostanze psicotrope. Non è questa la sede per trattare della particolare fisiopatologia di quest’ultima condizione, ma è opportuno ricordare che l’impiego di farmaci per il trattamento dell’alcoolismo dovrà tener conto dei danni prodotti dalle sostanze di abuso precedentemente assunte e di tutti gli apprendimenti patologici che è possibile scoprire nello studio del paziente.

 

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, con il quale ha discusso l’argomento trattato e preparato il presente testo, e invita alla lettura dei numerosi scritti direttamente o indirettamente collegati all’abuso alcoolico, che compaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-25 gennaio 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Marina E. Wolf, Addiction (ch. 61) in Basic Neurochemistry (Brady, Siegel, Albers, Price, editors in chief), p.1049 (in “Ethanol, Sedatives and Anxiolytics”) AP, Elsevier 2012;  Koob G. F. & Wolkow N. D., Neurocircuitry of Addiction. Neuropsychopharmacology 35, 217-238, 2010.

[2] Le proiezioni dopaminergiche dall’area tegmentale ventrale (VTA, da ventral tegmental area) al nucleo accumbens influenzano potentemente il comportamento diretto ad uno scopo. Tutte le molecole psicotrope in grado di indurre dipendenza (addiction) accrescono la neurotrasmissione dopaminergica nelle sinapsi di questa via. La naturale fisiologia di questo circuito è posta in rapporto con l’omeostasi e gli stati motivazionali, quali fame e sete, che sono ritenuti all’origine dei principali comportamenti diretti ad uno scopo, in chiave evoluzionistica.

[3] Note e Notizie 14-12-13 La richiesta di alcool è regolata dalla relaxina-3. È stata eliminata l’evidenziazione in neretto di alcune parole, presente nel testo originale, per uniformità con lo stile di questo scritto.

[4] Wheeler & Carelli, Dissecting motivational circuitry to understand substance abuse. Neuropharmacology 56 (Supplemento 1), 149-159, 2009.

[5] Un paziente trattato con 500-1000 mg di disulfiram nelle precedenti 12 ore, all’assunzione dell’alcool, nel giro di 5-15 minuti, va incontro ad intensa vasodilatazione che giunge fino alla nuca e può conferire un colorito purpureo alla cute; segue l’iniezione ematica della congiuntiva con tachicardia. Dopo poco si sviluppa cefalea, capogiro, dispnea, dolore toracico, nausea e vomito.

[6] Si riporta il testo pressoché invariato dell’aggiornamento pubblicato nel gennaio del 2012: “Note e Notizie 28-01-12 Alcolismo trattato secondo il genotipo”.

[7] Come ha recentemente ricordato Giuseppe Perrella: “Con il termine inglese addiction si indica uno stato caratterizzato dall’assunzione compulsiva di una sostanza, a dispetto di rilevanti conseguenze negative sperimentate dal soggetto. Con un catetere di microdialisi sono stati misurati i livelli di dopamina nel nucleo accumbens e in altre strutture del “sistema a ricompensa” […]. Con questo metodo si è dimostrato che tutte le molecole in grado di generare addiction accrescono i livelli di dopamina nel nucleo accumbens. Per converso, le molecole psicotrope che non producono un significativo rilascio di dopamina nel nucleo accumbens non sono in grado di generare gli effetti compulsivi dell’addiction” (tratto da una relazione non pubblicata, tenuta in Firenze il 20 dicembre 2013: “Dalla descrizione come memoria della dipendenza da molecole psicotrope, alla scoperta dell’induzione di geni regolati da CREB”).

[8] Questa “definizione operativa”, che mi sembra ancora valida, fu formulata dal nostro attuale presidente quando era ancora studente, durante uno studio seminariale condotto presso la cattedra di Patologia Generale della Facoltà di Medicina dell’Università Federico II. A quell’epoca si era passati dal considerare di interesse medico solo il paziente affetto da grave danno epatico da alcool (cirrosi alcoolica), al delegare totalmente allo psichiatra ogni problema connesso con la “tossicodipendenza da alcool”.

[9] Come recentemente ha ricordato Giuseppe Perrella, la stessa depressione è stata descritta come malattia infiammatoria, enfatizzando un aspetto realmente presente ed importante nella fisiopatologia di questo frequente disturbo psichico.