Alcolismo trattato secondo il genotipo

                                                                                                                                           

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X - 28 gennaio 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

E’ per molti versi utile ed istruttivo conoscere i fatti che hanno portato ad un nuovo trattamento farmacologico dell’alcolismo, senza il supporto e con qualche resistenza da parte delle case farmaceutiche, partendo da modelli animali e giungendo a realizzare la prima terapia psichiatrica della storia guidata dal genotipo.

Non si tratta dell’epopea della concezione di un nuovo tipo di intervento farmacologico con molecole interamente nuove, ma del racconto del difficile cammino intrapreso in seguito all’osservazione dell’efficacia del naltrexone, un antagonista degli oppioidi impiegato nei tossicodipendenti da eroina, per trattare l’abitudine all’alcool acquisita da animali.

Nel 1979 Altshuler selezionò un piccolo gruppo di scimmie del genere Rehsus in base alla tendenza spontanea all’auto-somministrazione di alcool mediante dispositivo intravenoso. Sottoposte a pre-trattamento prima dell’assunzione di alcool con tre dosi graduate di naltrexone e, per controllo, con una soluzione salina quale placebo standard, le scimmie rivelarono un’efficacia dose-dipendente dell’antagonista oppioide nell’indurre la cessazione dell’auto-somministrazione (Altshuler, et al., 1980). Questo esperimento fu poi ripetuto nel topo e nel cercopiteco, con la variante dell’assunzione orale spontanea di alcool, e i risultati confermarono l’efficacia del naltrexone.

A partire dal 1983, un gruppo di ricercatori che studiava tanto i modelli animali quanto l’efficacia clinica di trattamenti farmacologici, ottenne l’autorizzazione a sperimentare il naltrexone in pazienti affetti da alcoolismo. I trial clinici condotti da quel momento agli anni Novanta diedero tutti conferma dell’efficacia dell’antagonista oppioide (Volpicelli, et al., 1990; Volpicelli, et al., 1992).

Per spiegare questi effetti erano state avanzate varie ipotesi; fra queste la più accreditata proponeva come meccanismo-chiave l’attivazione del sistema molecolare degli oppioidi endogeni da parte dell’alcool, con la conseguente entrata in funzione del sistema a ricompensa attraverso la stessa via dell’eroina. Studi successivi sugli animali, volti ad individuare i processi sottostanti l’efficacia del naltrexone nella dipendenza da alcool, fornirono ulteriori elementi interessanti. Impiegando la microdialisi nel sistema a ricompensa, in particolare nel nucleo accumbens, dimostrarono che l’etanolo aumenta il rilascio di dopamina da parte del sistema neuronico che determina la sensazione di piacere e la spinta a ripetere l’assunzione, e che il pretrattamento con naltrexone è in grado di prevenire questo stimolo al rilascio. In altri termini, l’attivazione dello stesso sistema neuronico dopaminergico era in gioco sia nella tossicodipendenza da eroina che da alcool etilico.

Negli anni Ottanta, la forte ideologizzazione nel dibattito sull’uso delle “droghe ricreative” negli USA e in Europa, era riuscita a condizionare una parte del mondo della ricerca che, per prevenire la strumentalizzazione dei risultati scientifici da parte di quelle lobbies che, al fine di sostenere la liceità dell’uso dell’eroina, la mettevano sullo stesso piano delle bevande alcooliche, tendeva a rimarcare la separazione e le differenze fra diacetil-morfina ed etanolo. In tale ottica, si riteneva che rendere noto un processo comune e rafforzare l’impressione della somiglianza con l’impiego di un farmaco identico, sarebbe stato sufficiente ai gruppi di pressione collegati con le centrali dello spaccio ed agenti su inconsapevoli masse di propagandisti involontari, a rappresentare una realtà distorta e favorevole al consumo di sostanze psicotrope dannose per l’organismo.

In realtà, il problema non esisteva in termini neuroscientifici, in quanto, se la base neurofunzionale è simile e in parte identica per la dipendenza, e per ogni dipendenza, i processi patogenetici e fisiopatologici alla base della tossicità di alcool ed eroina sono in gran parte distinti e separati.

D’altra parte, si deve ricordare che la casa farmaceutica proprietaria dei diritti sul naltrexone non si mostrò favorevole a presentare alla FDA la documentazione per ottenere l’indicazione per il trattamento dei disturbi psichiatrici da abuso di alcool etilico.

Dal 1990, presso l’Alcohol Center dell’Università del Connecticut, in collaborazione con istituti dell’Università di Yale, furono replicati gli studi precedenti riportando gli stessi risultati, così i ricercatori provarono nuovamente a sostenere la causa di un’estensione delle indicazioni per un farmaco già in uso da molti anni (O’Malley et al., 1992).

Solo grazie ad una serie di fortunate coincidenze, come ha notato Charles P. O’Brien, i dati furono finalmente presentati alla commissione scientifica della FDA e così, dopo revisione, il trattamento dell’alcolismo fu aggiunto alle indicazioni ufficiali del naltrexone.

In tal modo, un approccio terapeutico totalmente nuovo era stato sviluppato a partire da modelli animali e tradotto in un intervento clinico senza alcun supporto da parte delle case farmaceutiche, nemmeno di quella che, nel caso positivo poi verificatosi, sarebbe stata la principale beneficiaria.

Gli studi sono proseguiti e, negli anni recenti, altri antagonisti dei recettori degli oppioidi sono risultati utili nel trattamento dell’alcolismo, mentre del naltrexone è stata realizzata una versione depot, somministrabile anche in un'unica dose mensile, che è stata approvata dalla FDA sia per la dipendenza da oppioidi che da alcool.

Poiché solo una parte degli alcolisti risponde al naltrexone, si è ipotizzato un meccanismo farmacogenetico. La ricerca neurogenetica condotta su questa ipotesi ha portato all’identificazione di una variante allelica del gene del recettore μ per gli oppioidi, quale marker di un’accresciuta euforia da alcool bloccabile con naltrexone e di una forte risposta a questa molecola nel trattamento dell’alcolismo (Oslin et al., 2003; Anton et al., 2006).

Uno studio pubblicato nel corso dell’anno appena trascorso, ha impiegato un modello murino con un gene umano del recettore oppioide μ, individuando un determinante genetico di un’accentuata risposta dopaminergica striatale all’alcool negli uomini (Ramchandani et al., 2011).

Sulla base di queste conoscenze, il trattamento dell’alcolismo con antagonisti dei recettori oppioidi è di fatto la prima terapia farmacologica psichiatrica guidata dal genotipo.

 

L’autrice della nota invita alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito). Per le indicazioni complete dei riferimenti bibliografici indicati nel testo, scrivere a brain@brainmindlife.org.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-28 gennaio 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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