COME CAMBIA LO STUDIO DELLA SCHIZOFRENIA

 

 

Nella biblioteca degli psichiatri di mezza età, accanto ai numerosi trattati di psicopatologia e clinica psichiatrica, figurano i due volumi dell’Interpretazione della Schizofrenia di Silvano Arieti, testo che era considerato indispensabile per una buona formazione del medico nel campo delle psicosi e fondamentale come strumento didattico per la psicoterapia dei pazienti schizofrenici. Rileggendo oggi quest’opera dalla prefazione, scritta dall’eminente psicopatologo pisano a New York nel 1974, si comprende la distanza fra la prospettiva culturale di quel tempo e quella attuale: “lo studio della schizofrenia trascende la psichiatria”, afferma Arieti e, riferendosi allo psichiatra, prosegue: “… dovrà affrontare la condizione umana nella sua totalità, compresi i problemi fondamentali della verità e dell’illusione, della stravaganza e della creatività…”[1].

L’impossibilità di ridurre a materia medica le alterazioni all’origine del disturbo, aveva favorito l’affermarsi della convinzione che per comprendere le psicosi fosse necessario studiarne i prodotti psichici e comunicativi, non solo in termini psicologici, ma anche in chiave filosofica ed antropologica. In proposito il nostro presidente ha osservato: “Tale impostazione ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo di una straordinaria esperienza culturale che ha contribuito alla riflessione critica sui modelli di normalità psichica imperanti nella cultura occidentale, ed ha favorito l’avvicinarsi degli psicoterapeuti a pazienti non più considerati alienati, ossia esseri significati al di fuori dello spazio di senso in cui le identità si costituiscono e si riconoscono nell’incontro dei modelli dell’umano con quella forma di ragione condivisa, alla base dell’esperienza comune, che chiamiamo realtà”. Un limite di quella concezione, che oggi appare evidente, è consistito nell’aver attenuato la separazione fra le condizioni di sofferenza cui tutti siamo soggetti, dette reazioni minori (corrispondenti alle nevrosi o psiconevrosi emozionali della nosografia classica) e complessi quadri sintomatologici caratterizzati da deliri ed allucinazioni, semplicemente inclusi nelle reazioni maggiori (corrispondenti alle psicosi). Le due principali forme paradigmatiche della psicopatologia erano considerate da molti autorevoli studiosi del tempo come parte di una gamma continua che va dal normale al patologico; in tal modo si riduceva l’interesse per la ricerca di fattori  specificamente presenti nel cervello delle persone affette da schizofrenia. Astrattamente considerati, gli elementi chiamati in causa per l’eziologia della psicosi schizofrenica erano gli stessi di oggi, ma lo scarso peso che si dava ai fattori genetici rispetto a quelli psicodinamici risulta evidente dalla lettura, nell’opera citata, del capitolo intitolato “La schizofrenia evitata. Rapporti fra psicosi e psiconevrosi”[2].

L’encomiabile sforzo di sintesi delle concezioni dominanti che Silvano Arieti aveva proposto già nell’American Handbook of Psychiatry[3], tendeva soprattutto a conciliare la visione derivata dalla psicoanalisi con quella allora definita organicista[4], in gran parte basata su studi biochimici non ancora monopolizzati dagli obiettivi della ricerca farmacologica, allora prevalentemente rivolta ai neurolettici agenti sui neuroni dopaminergici[5].

Se, nei due decenni immediatamente seguenti, il cambiamento di prospettiva nell’approccio allo studio e alla clinica della schizofrenia e delle psicosi in generale è stato parziale e lentamente progressivo[6], negli ultimi dieci-quindici anni si è assistito ad un’accelerazione veramente impressionante. Lo sviluppo della psichiatria molecolare, accanto al complessivo progresso di tutte le neuroscienze, ha definitivamente consegnato al passato le ricerche sull’eziopatogenesi fondate su speculazioni e congetture psicoanalitiche e psicologiche, così come le dotte disquisizioni antropologiche e filosofiche volte ad integrare la fenomenica della sindrome in altri sistemi di segni e simboli appartenenti o appartenuti a forme culturali dell’esperienza umana meno strutturate di quelle attuali e, pertanto, apparentemente più simili alla disorganizzazione imposta dal disturbo[7].

Un’ambizione della clinica psichiatrica attuale, per il momento ancora frustrata, è invece quella di identificare precisi markers della psicosi schizofrenica per approdare a diagnosi sicure, non più basate solo sull’apparenza sintomatica (Stober G., et al. Schizophrenia: From the brain to peripheral markers. A consensus paper of the WF SBP task force on biological markers. World Journal of Biological Psychiatry 10 (2): 127-155, 2009). La ricerca infruttuosa evidenzia, come sostiene il nostro presidente, la necessità di superare l’attuale concezione nosografica che ha creato categorie basate esclusivamente sulle manifestazioni sintomatologiche.

Infatti, è evidente che combinazioni di differenti alterazioni molecolari e cellulari possono portare a disfunzioni dei sistemi neuronici dell’encefalo che si esprimono con quadri clinici simili. In questo senso, si può dire che il processo patologico non si identifica con i sintomi, ma con gli eventi che portano alcune alterazioni molecolari a determinare patterns funzionali anomali nei sistemi dell’encefalo. Secondo Giuseppe Perrella, la definizione di questi patterns, dei meccanismi che li generano e del loro rapporto con le anomalie genetiche accertate, potrà fornire una base più solida per l’individuazione di eventuali markers neurobiologici.

Intanto la ricerca, seppure spesso con grandi difficoltà, procede in varie direzioni fornendo preziosi materiali alla materia medica della schizofrenia (si veda: Note e Notizie 21-02-09 Schizofrenia: il punto sulle nuove acquisizioni[8]).

Un’opinione largamente diffusa individua la probabile eziopatogenesi delle psicosi schizofreniche in piccole anomalie dello sviluppo embrionario che determinerebbero alterazioni nelle principali vie di segnalazione cerebrali implicate nelle funzioni psichiche (Christopher A. Ross & Russell L. Margolis, Schizophrenia: A point of disruption. Nature 458, 976-977 (23 April) 2009).

Attualmente la nostra comprensione della fisiopatologia della schizofrenia si avvale della combinazione dell’esame dell’encefalo in vivo mediante tecniche di neuroimaging, con studi di genetica e indagini di fisiologia e patologia molecolare condotte sul cervello di pazienti deceduti[9]. Il confronto e l’integrazione dei risultati emergenti dalle varie aree di ricerca indica che le cause preponderanti sono ereditarie, riportabili all’interazione multipla di numerosi geni, ciascuno dei quali determina un piccolo effetto che, sommandosi agli altri, causa alterazioni di vari domini funzionali. Le numerose anomalie accertate e studiate riguardano i sistemi glutammatergici, dopaminergici, gabaergici, colinergici, ma anche la glia; infatti, numerose proteine alterate che modulano la funzione dei recettori NMDA per il glutammato sono espresse negli astrociti, inoltre molti geni candidati e i loro prodotti sono implicati nel processo di mielinizzazione.

L’enorme mole di dati prodotti dagli studi cellulari e molecolari degli ultimi quindici anni, può essere sintetizzata in sette punti[10]:

 

1. L’ipotesi della dopamina ha dominato la ricerca sulla schizofrenia per oltre 40 anni ma, nonostante la possibilità di misurare la catecolamina, il suo metabolita (acido omovanillico, HVA) ed altri markers dei neuroni dopaminergici, la maggior parte degli studi post mortem sul ruolo patogenetico dei sistemi dopaminergici ha prodotto risultati negativi o incoerenti.

 

2. L’ipofunzione dei recettori NMDA può contribuire all’endofenotipo della schizofrenia. La disfunzione glutammatergica è fra i campi più studiati, ricchi di risultati e promettenti per il futuro.

 

3. I neuroni inibitori GABAergici partecipano alla fisiopatologia della psicosi e molti dati suggeriscono un legame fra l’ipofunzione degli NMDA e le anomalie dei neuroni GABAergici corticali.

 

4. L’implicazione del sistema colinergico è rivelata da anomalie genetiche che si traducono in ridotta espressione dei recettori nicotinici α7, fisiologicamente simili agli NMDA[11].

 

5. Alcune molecole di traduzione del segnale intracellulare sono ridotte nella schizofrenia.

 

6. Proteine importanti per la struttura e le funzioni di base del neurone sono ridotte nel cervello di pazienti schizofrenici; studi morfologici hanno rivelato anche la riduzione dei mitocondri nella corteccia e nello striato.

 

7. La riduzione della sostanza bianca cerebrale totale e documentate alterazioni della mielina nel cervello schizofrenico, insieme con una ridotta espressione della GFAP nella corteccia prefrontale ed un basso numero di astrociti nella corteccia cingolata anteriore, indicano una partecipazione della glia alla fisiopatologia della schizofrenia.

 

Le principali tematiche della ricerca, riassunte per titoli in questo elenco sommario, contengono la sfida già raccolta da molti gruppi di ricercatori: distinguere le alterazioni dell’espressione genica primarie da quelle secondarie e ricostruire, attraverso i meccanismi molecolari, i processi fisiopatologici che portano fino allo sviluppo dei sintomi.

 

L’autore della nota ha qui sintetizzato la relazione di aggiornamento tenuta lo scorso giovedì 30 aprile dal presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, al quale rivolge un personale ringraziamento.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Maggio 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RESOCONTO DI UNA RELAZIONE DI AGGIORNAMENTO]

 

 

 



[1] Silvano Arieti, L’interpretazione della Schizofrenia (2 voll.), I vol., p. 10, Feltrinelli, Milano 1978 (Edizione italiana di Interpretation of Schizophrenia. Basic Books, New York 1974).

[2] Silvano Arieti, L’interpretazione della Schizofrenia (2 voll.), I vol., pp. 269-289, Feltrinelli, Milano 1978.

[3] Si veda l’edizione italiana: Silvano Arieti (editor), Manuale di Psichiatria (3 voll.). Boringhieri, Torino 1969.

[4] Oggi diremmo “neurobiologista”, ma bisogna ricordare che la maggioranza degli psichiatri dell’epoca negava l’esistenza nella malattia mentale di alterazioni cellulari e molecolari del cervello inteso come organo e, pertanto, bollava come “organicista” e superata questa visione. Nel trattato si concedeva uno spazio molto limitato alla psichiatria fenomenologica ed esistenziale, mentre un intero capitolo era dedicato agli “studi biochimici sulla schizofrenia e sui disturbi affettivi”. Non è superfluo ricordare che il nome di Silvano Arieti rimane legato all’analisi della “paralogica schizofrenica” basata sugli studi di di von Domarus, che lo portarono a caratterizzare un “pensiero paleologico” che accomunava gli psicotici ad alcuni primitivi nel dedurre, ad esempio, l’identità del soggetto dall’identità dei predicati, come nel caso della paziente che diceva: “La Svizzera è neutrale, io sono neutrale, dunque io sono la Svizzera”.  

[5] Non è superfluo ricordare che l’efficacia di questi farmaci ha indotto l’elaborazione di una “teoria dopaminergica della schizofrenia” sempre avversata da Giuseppe Perrella che non la riteneva plausibile, sia in base all’evidenza di un disturbo globale del funzionamento psichico, sia sulla base dell’organizzazione funzionale dell’encefalo e delle conoscenze di biologia cellulare e molecolare: “Se pure si dimostrasse che il primum movens è limitato ad un singolo sistema neuronico, si dovrebbe poi cercare di chiarire in che modo un danno così limitato determini gli effetti globali sulla psiche che sono caratteristici della psicopatologia schizofrenica” (G. Perrella, Appunti di Psichiatria. Istituto di Clinica Psichiatrica dell’Università di Napoli Federico II, 1980-1984) .

[6] Direi soprattutto caratterizzato da un generale allontanamento della psichiatria dalle tesi eziopatogenetiche psicoanalitiche e da un ritorno ad un ruolo più strettamente medico degli psichiatri, favorito dalla possibilità di impiego di nuove modalità di trattamento e di nuove classi di farmaci, spesso molto efficaci sui sintomi maggiori e provvisti di minori effetti collaterali. Fin dalla metà degli anni Ottanta, con il cambiamento del clima culturale, anche fra gli psichiatri di formazione psicodinamica solo pochi avrebbero dato ancora credito ad ipotesi eziologiche come quella della “madre schizofrenogena”.

[7] Chi scrive, da vetusto ex-docente in pensione di clinica delle malattie nervose e mentali, un po’ rimpiange quella temperie culturale che portava medici maturi ad una nuova formazione, accedendo spesso all’alta cultura, esercitando il proprio intelletto e, non di rado, affinando le proprie doti di comprensione umana.

[8] Questo scritto contiene i collegamenti ad altre sei importanti note di recensione di scoperte o accertamenti rilevanti. Si veda anche la recensione più recente sulla valutazione del rischio genetico: Note e Notizie 21-03-09 Schizofrenia e valutazione del rischio genetico.

[9] Questi studi post mortem sono stati concepiti e condotti anche sulla base di dati e nozioni emergenti da studi su modelli animali della malattia che, insieme con tutta la ricerca neurobiologica di base, preparano ed integrano gli studi nell’uomo.

[10] Ciascuno dei punti elencati corrisponde al titolo di un argomento trattato nella relazione del presidente, alla quale si rimandano i soci per una dettagliata rassegna dei risultati della ricerca.

[11] Con il recettore NMDA, il sotto-tipo dei recettori nicotinici dell’acetilcolina α7 condivide la conduttanza degli ioni calcio, la sensibilità all’inibizione da acido kinurenico e la partecipazione alla neuroplasticità.