STORIA E STORIE










L’acculata del Porcellino

La Loggia del Mercato Nuovo di Firenze, detta del Porcellino dal cinghiale in bronzo che l’adorna, nel Rinascimento era sede di esecuzione di una pena davvero singolare: l’acculata. Il magistrato del Bargello infliggeva la curiosa pena ai frodatori, ai falsari, ai bancarottieri e ai debitori insolventi. I condannati venivano esposti al pubblico ludibrio, facendo loro battere il sedere denudato su una pietra al centro del mercato nelle ore di maggiore affluenza dei Fiorentini, che accorrevano divertiti a ver-gogna.


Nel Palazzo del Capitano di Giustizia o Bargello, si somministravano le pene più severe e crudeli, che andavano dalla prigionia nelle segrete dell’edificio monumentale, alla tortura che aveva luogo nell’apposita sala o nel cortile dove fu eretto il Palco dei Supplizi. L’edificio, ora sede del Museo Nazionale, esisteva come palazzo-fortezza da più di tre secoli, infatti fu costruito nel 1255 inglobando la torre della Volognana la cui campana, tristemente famosa, annunciava con i suoi rintocchi le pene capitali. Nel 1261 il palazzo fu sede del Podestà e, dal 1574, del Capitano di Giustizia. I giudici del Bargello, in questa sede, deliberavano anche a proposito dei falsari, dei debitori insolventi, dei bancarottieri ma, per il grado lieve della pena e l’efficacia del suo valore simbolico, questa si svolgeva altrove, in un luogo in cui in tempi antichissimi vi era una piazza detta Mercato della Seta e, poi, Mercato della Paglia. In epoca rinascimentale lo si chiamò Mercato Nuovo per distinguerlo dal Vecchio che era in Piazza della Repubblica, dove la Florentia romana aveva il Campidoglio.

 

La pena, detta dell’acculata, era più morale che fisica ed assomigliava alle penitenze di antica tradizione medievale che i giovani si infliggevano per divertimento nel corso delle feste o nelle riunioni del tempo libero, in quel costume di svaghi e beffe così bene descritto da Boccaccio. Si voleva raggiungere lo scopo di dissuadere il reo dalla reiterazione del reato, ma anche di informare i cittadini per proteggerli da una persona disonesta. Perciò era necessario che la punizione avvenisse in un luogo simbolico, altamente evocativo e molto frequentato, così che un alto numero di spettatori garantisse la massima pubblicità ed un elevato effetto frustrante. I convenuti, infatti, con il loro ridere e berciare erano parte integrante della pena stessa.

 

All’epoca la Loggia del Mercato Nuovo aveva certamente i requisiti richiesti. E’ necessario precisarlo perché oggi, sebbene la struttura architettonica sia perfettamente conservata e tutto sia rimasto in gran parte come nel Medioevo e nel Rinascimento, è difficile immaginare, in assenza di notizie storiche, cosa vi potesse essere di particolare. E’ uno spazio collaterale, più in basso ed in ombra rispetto alla Piazza Signoria, quasi sfruttato male perché, tenuto conto della superficie complessiva, appaiono eccessive le dimensioni della Loggia, peraltro completamente occupata da bancarelle e sempre invasa da turisti ed acquirenti locali.

Se si gira intorno alla Loggia, si noterà una lapide con l’iscrizione “Canto del Saggio”: non si tratta di un angolo dedicato alla saggezza, come si sente qualche volta dire da guide improvvisate, ma della sede dell’Uffizio del Saggio della Moneta. Infatti, poiché accadeva che molti fossero tentati di limare i bordi del Fiorino d’oro per vendere la limatura agli orafi, si istituì un ufficio per saggiare la moneta. Al Mercato Nuovo, perciò, i fiorini venivano pesati uno ad uno e racchiusi in borse sigillate, per cui li si chiamava “fiorini di suggello”. Presso la Loggia era possibile, in corso di piccole spese o transazioni commerciali, farsi controllare la moneta del pagamento: il Grosso Fiorino, all’epoca la moneta più forte d’Europa, che aveva fatto la fortuna dei banchieri fiorentini e di tutta la città, era coniato con l’effige di  San Giovanni Battista, protettore di Firenze. “San Giovanni non vuole inganni” dicevano i mercanti quando si rivolgevano all’ufficiale al banco col bilancino, per farsi pesare la moneta e, tutti, adoperavano quell’espressione in quel luogo, tranquillo per il galantuomo e minaccioso per il disonesto. Limare i bordi di “San Giovanni” era reato, peccato ed anche stoltezza, perché chiunque poteva chiedere il controllo che veniva fatto all’istante. Meno facile da sventare era la frode sulla qualità dell’oro, ma tanto grave che mastro Adamo, come ci dice Dante, fu addirittura arso vivo per aver alterato “la lega suggellata del Battista”.

 

Non era, dunque, un posto qualsiasi il Mercato Nuovo, ma non solo per questo. La sua forza simbolica era legata ai valori di libertà e giustizia della Repubblica di Firenze rappresentati dall’antico Carroccio che portava lo stendardo bianco e rosso con lo stemma della città e la Martinella, la campana che chiamava a raccolta le milizie in caso di guerra. E, proprio nell’imminenza della guerra ed in tutte le occasioni ufficiali, il carro rituale con i rappresentati militari della Repubblica veniva portato in quel luogo, dove si esponevano i disonesti. Nel mezzo dello spazio rettangolare che costituisce il pavimento, si vede una pietra circolare che raffigura un cerchio con sei raggi: si tratta della riproduzione in dimensione reale della ruota del Carroccio.

La Loggia fu fatta edificare dal granduca Cosimo I de’ Medici su disegno di Giovan Battista del Tasso, con inizio nell’agosto del 1549 e termine nel 1551[1] per protezione dei mercanti e degli acquirenti e per arricchire e ridefinirne il valore simbolico con le statue delle nicchie che  raffigurano Villani, un cronista di grande valore politico all’epoca, Bernardo Cellini, un orafo benemerito per l’economia e Michele di Lando, nell’atto di afferrare il vessillo della Repubblica, all’epoca della rivolta dei Ciompi. Buontalenti, al quale viene attribuito il lavoro, si limitò a rinforzarla con pilastri d’angolo alleggeriti da nicchie.

Se si pensa che a quell’epoca non esisteva la proliferazione dei simboli, delle immagini e dei valori della nostra società multiculturale, ci si rende conto dell’impatto suggestivo molto maggiore che potevano avere quelle rappresentazioni.

Si riteneva eccessivamente austera la Loggia, pertanto si decise di ingentilirla, ponendo davanti al suo accesso una scultura raffinata come quella del cinghiale di Pietro Tacca. L’originale in marmo, custodito agli Uffizi, ha fatto da calco per il bronzo che i Fiorentini, da sempre, chiamano “il Porcellino”.

Le guardie del Bargello, nelle ore in cui il centro cittadino era più frequentato e trafficato, con una rituale passeggiata che poteva già attrarre curiosi ed esporre allo scherno, conducevano il disonesto di turno nel bel mezzo della Loggia, nel luogo dove faceva stazione il Carroccio. Si attendeva l’arrivo del maggior numero possibile di persone e, poi, si procedeva. Ovviamente quando il condannato era noto, ricco e potente, il divertimento era maggiore e il popolo ne approfittava per prendersi le sue rivincite, rivendicando con canzonature e sberleffi la superiorità dell’indigente onesto sul possidente disonesto. Senza però esagerare, per la nota inflessibilità della Guardia del Capitano di Giustizia che li esponeva al rischio di diventare attori di qualche “fuori programma”.

Quando l’identità del condannato era stata proclamata, illustrata e recepita dalla folla, il reo veniva scoperto all’altezza dei glutei e sollevato per le braccia e le gambe. Così sospeso, soprattutto se grasso, anche il più orgoglioso dei mercanti o il più altero degli aristocratici, acquisiva una vis comica da farsa popolare; seguiva l’oscillazione, accompagnata dal vociare del popolo. Si legge: “ostendendo pubenda et percutiendo lapidem culo nudo”. Ma non tutti venivano troppo denudati, si poteva esporre anche solo il sedere. La pena si adattava, pertanto, allo scopo di divertire e non disgustare, per coinvolgere gli spettatori, soprattutto quelli più giovani e dei ceti popolari, che ci si attendeva più propensi alla partecipazione emotiva ed efficaci nell’esprimere il biasimo e la derisione con frizzi, lazzi, clamori, schiamazzi e risa sonore. Le natiche venivano fatte battere proprio contro il simbolo della legalità, ovvero la rappresentazione della ruota del Carroccio e, poiché l’intento era quello di allontanare dal comportamento illecito o, come si era soliti dire,  “scandalizzare”, la ruota lapidea fu battezzata “pietra dello scandalo”.

L’etimo popolare di molte espressioni ancora in uso, non solo in Toscana e in Italia, risale a questa tradizione, ad esempio “essere con il culo per terra” per dire di essere in difficoltà finanziaria, o essere “sculati”, come chi ha picchiato molte volte il deretano sulla pietra, per dire di essere sfortunato; a Firenze si dice anche “avere sculo” per “aver sfortuna” e taluni sostengono che l’espressione “aver culo” per dire “aver fortuna”, abbia la medesima origine, come semplice contrario.

 

                                                                                            Conte Lucrezio e Filippo Rucellai-BM&L



[1] Il recente restauro, dal marcapiano sotto i cartigli fino a terra, ha richiesto quasi lo stesso tempo, ma ci consente di apprezzarne meglio l’effetto complessivo.



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ED ULTERIORI LETTURE

 

Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine, in 5 voll., Tipografia Coppini, IV edizione, Firenze - Raccolta di documenti di un   Archivista della Misericordia che attinge a varie e inedite fonti della memoria storica fiorentina.

Pierre Antonetti, La vita quotidiana a Firenze ai tempi di Dante, Rizzoli, Milano.

AAVV, Storia Urbana di Firenze, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma.

Mario Novelli, Vecchie Cronache Fiorentine, Edizioni It-Comm – Firenze.

Maria Bernardini, C’era una volta Firenze, Edizioni Poligrafico Fiorentino, Firenze.

Bianca Gabellieri e Maurizio Martinelli, Itinerari Fiorentini, Edizioni FMG – Studio Immagini, Firenze.

Franco Cesati, Guida insolita di Firenze, Newton-Compton, Roma.

Pier Francesco Listri, Il Dizionario di Firenze, Le Lettere, Firenze.

Franco Ciarleglio, Lo struscio fiorentino, Edizioni Tipografia Bertelli, Firenze.

Franco Cardini, Breve storia di Firenze, Pacini Editore.

Cecilia M. Ady, Lorenzo de’Medici e l’Italia del Rinascimento, Oscar Storia, Mondadori, Milano.

                 

 

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Il caso del Nobel sbagliato

Se accade spesso che la scelta nell’assegnazione dei premi Nobel per la Pace e per la Letteratura faccia discutere, sembra che la comunità scientifica non abbia mai molto da eccepire riguardo i vincitori per la Fisica, la Chimica e la Fisiologia o la Medicina. Infatti, anche se fra i ricercatori è opinione diffusa che molti altri, oltre i premiati, meriterebbero il riconoscimento, nessuno di coloro che lo riceve può essere considerato immeritevole da chi sia veramente competente. Probabilmente ciò è dovuto al rigore dei metodi nell’accertamento ed alla meticolosità con cui si controllano i dati relativi agli autori e ai risultati delle ricerche.

Ma non è sempre stato così e, forse, proprio da un clamoroso errore compiuto nel 1923 è venuta la prudenza e la diligente accuratezza attuale che porta, talvolta, ad assegnare il premio a decenni di distanza dall’ottenimento dei risultati che lo motivano.

I due ricercatori canadesi Grant Banting e Charles Best nel 1921 si prefissero la purificazione dell’ormone peptidico insulina il cui ruolo nell’equilibrio glicemico e nel diabete mellito era ormai ben noto. Il loro scopo dichiarato era quello di ottenere una cura per questa patologia che a quel tempo era devastante e incurabile. Molti altri studiosi nel mondo si occupavano di fisiologia del pancreas endocrino e di diabete, pertanto l’obiettivo della ricerca di Banting e Best era condiviso da molti altri.

Uno dei maggiori problemi che aveva ostacolato i ricercatori fino a quel momento era rappresentato dalla digestione dei peptidi -e fra questi dell’insulina- da parte della tripsina prodotta dal pancreas esocrino. Gli esperimenti del Russo Soboleff suggerirono una soluzione. Questi, mediante la legatura del dotto pancreatico, procurava negli animali l’atrofia del pancreas esocrino secernente la temuta tripsina, ma risparmiava il pancreas endocrino, o insulare, le cui cellule producono glucagone ed insulina. Adoperando questa tecnica, ogni ricercatore poteva disporre di estratti su cui lavorare efficacemente all’ottenimento dell’ormone in grado di portare il glucosio dal compartimento plasmatico a quello endocellulare.

I due studiosi canadesi si impegnarono, allora, in una vera e propria corsa all’isolamento della molecola.

Vi riuscirono dopo un intenso lavoro durato tutta l’estate, al termine della quale decisero di pubblicare al più presto i risultati per evitare che altri, giunti dopo, potessero precederli nella comunicazione alla comunità scientifica. L’impresa, però, si rivelò tutt’altro che facile. Inviarono, ad esempio, il lavoro al “Journal of Laboratory and Clinical Medicine”, ottenendo in risposta che il rispetto delle precedenze avrebbe consentito la pubblicazione solo nell’anno successivo. Le settimane trascorrevano e, mentre aumentavano le probabilità che gli altri gruppi stessero raggiungendo il traguardo, non si intravedeva alcuna possibilità di dare alle stampe il resoconto del brillante lavoro.

Una soluzione poteva consistere nel presentare una comunicazione al più vicino congresso in calendario per ottenere la registrazione della data che sarebbe apparsa nella pubblicazione degli “Atti”. Nel dicembre del 1921 era programmato il congresso dell’American Physiological Society (APS) ma né Banting, né Best erano soci, pertanto chiesero aiuto al direttore del loro laboratorio che era membro della società. Questi, ben lieto di aiutarli, dovette aggiungere la propria firma al testo della comunicazione che fu iscritta all’evento a suo nome: Mc Leod.

La “commissione Nobel” del 1923 conosceva per chiara fama la risonanza mondiale della scoperta che, indubbiamente, valeva il massimo riconoscimento scientifico. Basandosi unicamente sui documenti e, ritenendo opportuno non estendere a più di due ricercatori il premio, scelse Mc Leod e Banting escludendo ingiustamente Best. Mc Leod, che compariva sulla prima pubblicazione del congresso dell’APS del 1921, fu erroneamente ritenuto, in qualità di direttore del laboratorio, ideatore del progetto e Banting il principale esecutore.

Mc Leod non ebbe nessuna parte nella ricerca e, ironia della sorte, mentre il povero Best aveva trascorso l’estate in un duro e ininterrotto lavoro al fianco del collega, Mc Leod era in vacanza, lontano dall’istituto.

Ben venga quella frequente, biasimata, lentezza nell’assegnazione del Nobel, se è necessaria per evitare simili errori!

Ludovica Roversi Poggi-BM&L


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Nascita di un simbolo

Dante Alighieri si era iscritto all'Arte ed alla Corporazione dei Medici e degli Speziali di Firenze solo per poter accedere alle cariche pubbliche, secondo quanto ci tramanda la tradizione e comunemente si legge nei libri di storia della letteratura. Si deve però osservare che l'obbligo consisteva nell'iscrizione ad una qualsiasi corporazione e che la scelta del sommo poeta non pare si possa giustificare solo in termini di tornaconto personale[1]. Infatti, sembra che Teologi e Giuristi fossero più potenti dei medici, i quali si erano uniti per molte ragioni ai professionisti a loro più affini. Costoro si distinguevano in Grossi Speziali[2], ovvero mercanti di droghe crude vegetali ed ogni altra pietra ed essenza ritenuta unica nella sua specie, ossia speciale o speziale, e Speziali propriamente detti, ovvero coloro che allestivano le preparazioni officinali e magistrali che i medici somministravano ai pazienti.

Sembra che questa Corporazione abbia attratto Dante perché gli aderenti, oltre ad essere animati dal desiderio di sapere tipico degli sperimentatori, erano uniti da ideali civici e filantropici cui l'autore della Divina Commedia pare fosse estremamente sensibile. Si cita spesso, come espressione emblematica di questa attitudine del padre della nostra lingua, l'episodio del salvataggio di un giovane che stava per annegare nella vasca battesimale del Battistero di S. Giovanni.

Fu proprio la speciale propensione di medici e speziali verso l'aiuto e la cura di tutti coloro che ne avessero bisogno a determinare la definizione delle spezierie come botteghe di pubblica utilità e, per questo, contrassegnate con lo stemma riproducente le insegne del Popolo Fiorentino[3]. Ma, prima di vedere cosa ha di assolutamente straordinario questo simbolo, diamo uno sguardo ai documenti che ci informano su questa antica arte.

Dal 1314 la Corporazione dei Medici e degli Speziali fu governata da Statuti che gli aderenti si impegnavano solennemente a rispettare mediante giuramento: la trasgressione dei precetti statutari comportava pene pecuniarie. Il prestigio degli antichi speziali derivava dalla loro capacità ed abilità nel preparare medicamenti e dalla collaborazione con i medici che accresceva l'utilità sociale della loro attività. Studiavano le materie impiegate affinando le tecniche di preparazione ed adattando le dosi, cioè stabilendo le quantità per età e gravità della malattia, ma il procedimento elementare maggiormente impiegato consisteva nella produzione di polveri da piante essiccate. Le norme per l'esercizio dell'attività che definiscono i requisiti dei locali, riflettono questa destinazione d'uso, come si legge nei documenti dell'epoca: "La bottega dello speziale debbe essere posto in luogo dove non possino venti o sole, che non habbi vicini fummi o mali odori; debbe avere più stanze e sotto e sopra a terra acciò che egli possa comodamente preparare e conservare ogni sorte di medicina; e oltracciò havere o horto o terrazzo, dove dia il sole a cagione che possa seccare o imbiancare alcune medicine e appresso tutte quelle che si debbono (secondo il volere degli scrittori) comporre al sole"[4].

Ma, come si evince dai documenti ed anche dal riscontro de visu che si può fare ancor oggi, le più antiche spezierie erano sempre situate agli angoli delle strade per motivi di visibilità ed accessibilità, e ciò si giustificava sulla base di un altro importante ufficio svolto da queste botteghe-istituzioni, quello di ambulatori di pronto soccorso[5].

Possiamo facilmente desumere che ben poche altre attività potessero rivendicare un ruolo di maggiore importanza nella pubblica utilità, pertanto il contrassegno con lo stemma del popolo non poteva essere più appropriato.

Se a Firenze ci si reca all'angolo fra Via del Corso e Via dei Cerchi e si esamina attentamente l'edificio, si possono riconoscere le arcate, oggi murate, del loggiato trecentesco di una delle più antiche spezierie della città[6]. Proprio su ciascun lato dell'angolo è possibile scorgere due effigi gemelle del popolo fiorentino, cioè la croce rossa su un riquadro di marmo bianco. La croce rossa con cui ancora oggi si contrassegnano le farmacie e gli ambulatori medici in tutto il mondo ha questa origine, tanto remota, che sembra se ne sia persa la traccia nella memoria storica dei popoli. Il "Canto di Croce Rossa", come si chiama ancora oggi questo cantone della Firenze medievale, è il miglior testimone del luogo di nascita di un simbolo, poi diffusosi in tutto il mondo per emulazione, così come era accaduto per il fiorino, per l'iris e, più di ogni altra cosa, per i simboli dell'arte, ma forse con una universalità e continuità fino ai giorni nostri ineguagliata.

                                                                                                                       Conte Lucrezio-BM&L



[1] Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine, pag. 194, Parte Prima (vol. I), Nuova edizione, Coppini, Firenze 1997.

[2] Gli Speziali Grossi avevano i loro fondaci in quell'area compresa fra Via dei Calzaiuoli e Piazza della Repubblica che ancora oggi si chiama Via degli Speziali.

[3] Era anche il contrassegno del Capitano del Popolo ed il simbolo era riprodotto sullo stesso Palazzo della Signoria, per indicarne la disponibilità e l'appartenenza pubblica.

[4] Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine, pag. 265. Parte Terza (vol. III), Nuova edizione, Coppini, Firenze 1997.

[5] F. Niccolai, op. Cit., ibidem.

[6] Probabilmente la più grande e, con quella del Moro, la più antica. La spezieria del Moro è situata presso la piazza del Duomo, che si chiama piazza di S. Giovanni, in corrispondenza dello sbocco di Borgo S. Lorenzo, a guardare il Canto alla Paglia.


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Freud e l'anestesia locale

Lo studio di Freud sulla cocaina è poco conosciuto, come del resto gran parte della sua attività di medico e di ricercatore non direttamente collegata con la psicoanalisi. A torto, bisogna dire, perchè una parte considerevole del credito e dell'autorevolezza di cui potè godere presso la comunità scientifica derivava proprio dalla sua reputazione di scienziato; infatti fu allievo e collaboratore dal 1883 di Theodor Meynert, con il quale condusse studi morfo-funzionali sul midollo spinale e si specializzò in malattie nervose, prima di ottenere una borsa di studio per seguire le lezioni di Jean Marie Charcot a Parigi, nel 1885. Studiò le afasie e le paralisi infantili per anni, pubblicando su questi argomenti ancora nel 1891. Sigmund Freud aveva fiducia nelle possibilità della terapia farmacologica della patologia psichica, tanto che una scuola di psicoanalisi francese, quasi a sottolineare la scientificità delle tesi del "padre nobile", pose una lapide presso la propria sede su cui era scolpita una frase in cui Freud prevedeva ed auspicava l'introduzione in terapia di molecole che avrebbero reso superflua la terapia psicologica. Dal 1883 al 1885 Freud studiò la cocaina con la speranza di poterla impiegare come farmaco antidepressivo. Avendola assunta egli stesso, aveva notato il suo effetto anestetico sulla lingua: assolutamente per caso ne parlò all'oculista Karl Koller il quale studiava, senza troppo successo, la possibilità farmacologica di ottenere l'anestesia periferica per interventi sull'occhio. Persuaso dalle competenze neurologiche di Freud, Koller diede inizio alla sperimentazione e, con questa, all'anestesia locale.

Goffredo Strozzi-BM&L

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Colesterolo antiemorragico

Carl Peter Henrick Dam, biochimico danese figlio di un chimico farmaceutico, aveva iniziato la sua carriera di ricercatore presso la Reale Scuola di Agricoltura e Medicina Veterinaria dell'Università di Copenaghen. Per comprendere come avvenga il processo di biosintesi del colesterolo negli animali avviò uno studio sulla gallina: somministrava a gruppi di pulcini diete completamente prive del lipide, che è una molecola costituita dal nucleo del ciclopentano-peridrofenantrene o sterano ed ubiquitariamente presente nelle membrane biologiche, per cui, per eliminarlo completamente dalla dieta, non è possibile limitarsi ad escludere alcuni alimenti, ma si deve necessariamente estrarlo. Con sua grande sorpresa, Dam riscontrò nei pulcini varie emorragie interne e sottocutanee che non regredivano quando si somministrava loro vitamina C. Infatti, a quel tempo il gamma lattone dell'acido 2-chetogulonico od acido L-ascorbico o vitamina C, era una delle poche molecole la cui carenza era noto che provocasse emorragie. E' interessante notare la differenza fra il ragionamento che fece Dam e quello seguito da altri ricercatori. Dam considerava un punto fermo la capacità di biosintesi del colesterolo da parte dei polli (come di altri animali), così come il suo ruolo fisiologico; altri, invece, ritennero che se la vitamina C (fattore noto) non era in questione e se l'unica differenza fra i pulcini sani e quelli emorragici era costituita dall'alimentazione povera di colesterolo, se ne doveva dedurre che il colesterolo biosintetizzato dagli animali fosse insufficiente e che la normale condizione di omeostasi fra fattori coagulanti ed anticoagulanti del plasma richiedesse una quota di colesterolo alimentare. Ma ciò equivaleva a postulare una funzione anticoagulante del colesterolo, per la quale non vi era alcuna prova sperimentale. La bias, ossia la propensione inconsapevole per una tesi, in questi ricercatori era costituita dalla tendenza a risolvere un problema sulla base degli elementi noti, anche a costo di attribuire a questi elementi significati (in questo caso attività biochimica) diversi da quelli acclarati e non ancora sottoposti a vaglio sperimentale. Dam per eliminare il colesterolo lo estraeva con l'etere; da biochimico diede rilievo a questa operazione ed ipotizzò che una molecola che contribuisce alla coagulazione del sangue (fattore non noto) fosse estratta dall'etere insieme con il colesterolo. Ciò era più coerente con quanto si sapeva sul lipide allo studio, ma comportava che si affrontassero due condizioni ipotetiche meno rassicuranti: 1) tutto ciò che accadeva dipendeva da una sostanza sconosciuta in grado di comportarsi come una vitamina, ossia un composto essenziale ma non sintetizzato dall'organismo, e 2) questa "presunta vitamina" doveva essere un lipide o, quantomeno, un composto liposolubile, sebbene le vitamine per le quali si erano dimostrati effetti carenziali, fino allora conosciute, fossero in genere idrosolubili (ricordiamo che molto tempo dopo e grazie agli studi dello stesso Dam e di Schwartz e Stoksad si dimostrò il ruolo della carenza di vitamina E insieme con quella di Selenio nel determinare la cosiddetta "paralisi essudativa"). L'intuizione di Carl Peter Heinrick Dam si rivelò giusta, infatti l'etere eliminava i fillochinoni liposolubili della frazione non saponificabile -non steroidea- ad azione antiemorragica, cui il biochimico danese diede il nome di vitamina K, da Koagulation.

(Riassunto di Monica Lanfredini da un manoscritto non pubblicato cortesemente fornito dal presidente di BM&L-Italia)



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Sono solo cambiati

Nell'antica Firenze si vedevano spesso grandi carrozze scoperte, alte, ampie, decorate come carri artistici eccentrici e vistosi, fantasiosi e talvolta fantasmagorici. Erano trainate anche da sei od otto cavalli, ornati con pennacchi e bardati con sonagliere le quali, costantemente scosse dai movimenti degli equini, contribuivano agli effetti sonori di una piccola banda musicale, sempre presente su quei convogli. I suonatori facevano tutto il possibile per attrarre l'attenzione dei passanti con trombe, tamburi, piatti e grancasse, che era possibile udire a grande distanza. Avvicinandosi si potevano vedere operosi servitori con livree eleganti, vistose ed insolite, affaccendarsi intorno al protagonista assoluto di quel piccolo teatro mobile: il cavadenti. Costui, privo di qualsiasi studio, era magnifico nelle vesti e plateale nei gesti e riteneva l'interpretazione enfatica e coinvolgente del proprio personaggio, una parte essenziale del mestiere, secondo quanto aveva appreso a sua volta da qualche altro empirico. E non a torto, perchè estrarre denti senza anestesia non doveva essere un'operazione semplice e, certamente, l'effetto placebo di improbabili pozioni antidolorifiche impiegate ed esibite all'uopo, non doveva essere sufficiente a tener fermi e tranquilli i malcapitati. Si puntava, perciò, a distrarre il dolente volontario con ogni mezzo, ottenendo un'interferenza sensoriale con gli stimoli dolorifici che forse poteva ridurre un po' la percezione cosciente dello stimolo algico. In fondo, cos'altro si poteva fare non conoscendo i meccanismi molecolari del dolore e non disponendo dei moderni farmaci? Si creava un'interferenza percettiva, si spostava l'attenzione, si cercava di influenzare e turbare, anche piacevolmente, la coscienza. D'altra parte, anche una pratica come l'agopuntura si basa su un meccanismo di interferenza, anche se periferico; ossia interferisce con la trasmissione dalla periferia del corpo al cervello degli stimoli dolorifici, ma la parte maggiore, anche in questo caso, deve farla la suggestione in grado di produrre il cosiddetto "effetto placebo", attivando processi cerebrali che non raggiungono la coscienza. Lo spettacolo allestito in piazza Signoria (poi del Granduca) e nelle altre maggiori piazze della città, sulla grande carrozza che faceva da palcoscenico mobile, era abilmente sfruttato da personaggi divenuti notissimi come il Tofani, quale straordinario strumento di propaganda. Nei due giorni di mercato, il martedì ed il venerdì, cittadini, terrazzani, borghigiani e villani, convenendo in città per compere ed affari, potevano sentire proclamare e cantare che i loro denti cariati sarebbero stati estratti senza dolore. E questo poteva sembrare vero perchè, come riferisce Foresto Niccolai, archivista e bibliotecario della Misericordia di Firenze: "l'operato veniva fortemente tenuto dagli aiutanti e la musica copriva gli urli strazianti e le grida dolorose degli infelici pazienti". I cavadenti amavano il lusso e si davano grandi arie da luminari, tutto ciò di cui si circondavano doveva servire a sorprendere e stupire e, al contempo, per aumentare gli effetti di illusione e suggestione, al di fuori delle condizioni di spettacolo-terapia apparivano assolutamente inavvicinabili. Quando si esibivano, invece, tutta la gamma delle proprie abilità di imbonitori, intrattenitori, calunniatori e diffamatori dei concorrenti, veniva impiegata per comunicare, convincere, persuadere, vendere. Per questa chiacchiera o ciarla che li contraddistingueva, a Firenze il popolo li chiamava Ciarlatani. Una caratteristica del loro eloquio era l'assoluta mancanza di misura, di ragionamenti, di contenuti concettuali di qualche peso e, per contro, la costante presenza di frasi ad effetto, con la continua reiterazione dei messaggi promozionali che intendevano trasmettere, con l'ausilio di parole dal suono esotico, bizzarro ed evocativo delle terre lontane da cui i loro misteriosi rimedi sarebbero provenuti. E si, perchè non si limitavano a cavare denti ma vendevano polveri, infusi, decotti, tisane, oli per ferite ed ustioni, così come oli che definivano commestibili, in grado di curare una grande varietà di malattie. Si proclamavano esperti nel guarire le malattie da vermi, le elmintiasi, uccidendo inesorabilmente i parassiti, magari con il solo sguardo o con l'imposizione delle mani. Il fenomeno dei Ciarlatani era molto diffuso nel Medioevo, nel Rinascimento, all'epoca del Granducato, poi si è andato progressivamente riducendo con la perdita degli aspetti più folcloristici ed il trasferimento dalle città ai villaggi ed alle periferie culturalmente meno evolute. Alcuni in Italia divenivano così famosi da lasciare traccia delle loro gesta in documenti ufficiali, fra questi vi era un Lombardo di nome Gandolfi ed un tale Casagrande, Veneto. Ma i cavadenti-guaritori da fiere e mercati, non costituivano una realtà limitata al nostro Paese: in Inghilterra, ad esempio, ve ne erano tanti, con tali analogie con i nostri, che è lecito supporre contatti che abbiano determinato influenze ed emulazioni, anche se, per quanto è a conoscenza di chi scrive, non è possibile risalire alla patria degli "originali". Proprio dagli imbonitori inglesi traevano origine quelli americani, così bene caratterizzati nei films del genere western. Si è soliti pensare a questi personaggi come a dei protagonisti di una realtà lontana da noi, un mondo ancora popolato da maghi e fantasmi, in cui l'analfabetismo era una regola con poche eccezioni. Ma forse non è così, infatti mentre scrivevo quest'ultima frase mi sono reso conto delle analogie con la realtà attuale, pensando ai maghi televisivi, agli extraterrestri che hanno a buon diritto sostituito i vecchi fantasmi con lenzuolo e all'analfabetismo funzionale di tutti coloro che da potenziali soggetti impegnati in esercizi di conoscenza critica, si sono adattati al ruolo di passivi consumatori di prodotti "culturali". In altre parole, il terreno di cultura per i ciarlatani (questa volta con la "c" minuscola, nella generica accezione attuale) mutatis mutandis c'è ancora… E i ciarlatani pure! Ciascuno di noi potrebbe enumerare esempi a iosa, da curiosi e lontani personaggi di televendite fino a professionisti che magari esercitano non lontano dall'uscio della nostra casa; è importante fare attenzione per riconoscerli, anche se non sempre è facile. Personalmente adopero questo metodo che mi sembra molto efficace: quando incontro qualcuno le cui ciarle non mi convincono, provo in quello stesso istante ad immaginarlo circondato da musici con trombe, piatti e grancassa e dagli assistenti che gli porgono elisir e pozioni. Il metodo è infallibile: se il personaggio è appropriato in quella scena non c'è dubbio, si tratta di un vero ciarlatano. A parte gli scherzi, l'evoluzione socio-antropologica ha determinato nel tempo, negli equivalenti di quelle antiche figure, dei cambiamenti che forse meriterebbero di essere conosciuti da noi tutti che antropologi e sociologi non siamo, oltre che per essere meno severi con gli ingenui del passato, anche per non rischiare di essere gli ingenui del presente. Ogni tempo ha avuto i suoi ciarlatani che è possibile riconoscere anche quando, anzichè cavare denti, si dedicano ad altre lodevoli attività: cos'era il celeberrimo Rasputin?

Filippo Rucellai – BM&L

(Per fonti ed ulteriori letture si rimanda ai riferimenti bibliografici de “L’acculata del Porcellino”)




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Rasputin: un falso storico

Così come il diavolo con corna, coda e zampe caprine dell’iconografia medioevale condizionava gli artisti delle epoche successive, le descrizioni di impronta magico-iperbolica che i contemporanei facevano di Rasputin, influenzano scrittori e storici contemporanei. E’ difficile, talvolta, rinunciare ad un aggettivo, ad una locuzione o ad un aneddoto, quando questi caratterizzano efficacemente, con il loro potere evocativo, un personaggio. Sarebbe come nell’arte figurativa rinunciare a tratti espressionistici o ad elementi simbolici consolidati e convenuti che non hanno più solo valore per la riconoscibilità, ma fanno parte integrante dei contenuti di senso trasmessi dall’immaginario culturale.

Se Napoleone Bonaparte non lo immaginiamo in divisa, a cavallo, spada in pugno coi capelli al vento e lo sguardo fisso e intenso, e mettiamo da parte questi segni, inevitabilmente la caratterizzazione si indebolisce. E, senza bisogno di figurarcelo in pigiama, con la papalina e la palpebra cascante mentre brandisce un vaso da notte, ci rendiamo conto che, nell’immaginario collettivo, Napoleone si identifica anche con quei segni.

Perciò, nulla da dire che di Gregor Efimovic Rasputin si possa ancora scrivere come del mefistofelico e sinistro monaco intrigante, capace con il suo magnetismo di condizionare e plagiare i potenti della corte russa. Cosa diversa è credere che i suoi poteri magici gli consentissero di curare l’emofilia dell’erede dell’ultimo zar di Russia, il principe Alexis.

Così come accade ancora oggi che, di fronte all’impotenza della scienza le persone meno colte  ricorrano a guaritori o maghi, la coppia reale si rivolse a Rasputin, per le gravi e intrattabili emorragie del figlio, nel 1912. Lo sventurato giovane era affetto da “emofilia A”, sindrome dovuta a carenza o a difetto di una proteina di alto peso molecolare sintetizzata dal fegato, detta Fattore Antiemofilico o Fattore VIII. Si tratta della prima forma di emofilia studiata scientificamente, per la quale si comprese che la familiarità era dovuta ad un particolare tipo di trasmissione genetica. La malattia, recessiva legata al cromosoma X e quindi trasmessa da donne portatrici sane, ebbe nella regina Vittoria d’Inghilterra l’origine della diffusione ai sovrani di mezza Europa; cosa che accadde perché le famiglie reali solevano imparentarsi con matrimoni di opportunità politica. Ad onor del vero, gli aspetti essenziali dell’eredità recessiva dell’emofilia, con femmine sane perché in grado di compensare l’allele difettoso di un cromosoma X con quello normale presente sull’altro e maschi ammalati perché il cromosoma maschile Y non possiede un secondo allele, erano già stati osservati in tre diverse famiglie: da Otto nel 1803, da Hay nel 1813 e dai Buels nel 1815. Nel 1820 un medico di Bonn descrisse con precisione i termini di questa trasmissione ereditaria che fu poi definita, dal suo nome, legge di Nasse.

Se si ha presente il disegno di un albero genealogico si comprende perché William Bateson paragonò l’eredità legata al cromosoma X al movimento del cavallo nel gioco degli scacchi, ovvero ad una linea discendente che svolta da un lato: la direzione è verticale da femmina a femmina fino a quando incontra un maschio presso il quale si arresta e virtualmente compie uno spostamento laterale verso la sorella di questi, che consentirà la ripresa del movimento verticale.

Secondo le tradizionali ricostruzioni genealogiche si vuole che la regina Vittoria, il cui figlio Leopoldo, duca d’Albany, morì per l’emofilia a soli 31 anni, abbia trasmesso l’allele alle figlie Beatrice ed Alice di Hesse, quest’ultima alla principessa Irene ed alla zarina Alessandra, madre dell’erede al trono o zarevich di cui si parla.

Il giovane, come tutti gli emofilici, andava incontro a gravi emorragie per piccoli traumi ma, come  accade in ogni altro caso, dopo un certo tempo avveniva la coagulazione cessando la gravità della fase acuta. Rasputin aveva compreso questo aspetto della malattia, così gestiva il periodo critico neutralizzando la coscienza del giovane attraverso varie forme di suggestione e plagio, attendendo che la natura compisse faticosamente, per il difetto di fattore VIII, il processo di coagulazione, per poi attribuirsi i meriti della remissione dei sintomi. E’ falso ciò che ancora di recente è stato affermato, cioè che potesse in qualche modo curare la patologia, in quanto la sola cura efficace è dovuta a progressi recenti che consentono la somministrazione del fattore VIII. Ad esempio, solo da qualche decennio si dispone, accanto ai concentrati liofilizzati di fattore VIII trattati con calore per eliminare il virus dell’AIDS, di fattore VIII monoclonale purificato o ricombinante. Ovvero, fino a tempi recenti, la stessa terapia scientifica non era scevra da rischi. Pertanto non ci si meraviglia che i medici dell’epoca non riuscissero a fare nulla per il povero zarevich. Cosa poteva realmente fare la medicina nei primi due decenni del secolo scorso?

Non si sapeva nulla della cascata enzimatica di reazioni che è alla base del processo di coagulazione, pertanto non rimaneva che seguire l’ipotesi di un “sangue malato” ed effettuare una trasfusione. Ma, sebbene da alcuni anni Landsteiner avesse identificato il polimorfismo AB0 dei gruppi sanguigni, si sapeva ben poco dell’immunologia delle trasfusioni, ancora gravate da una mortalità altissima. Si pensi che l’antigene “Rh”, responsabile di incompatibilità materno-fetale, fu scoperto solo nel 1941, una trentina di anni dopo. Perciò si comprende come i medici avessero proclamato l’impossibilità per la medicina scientifica di guarire il figlio di Nicola II.

In fondo l’ambito di intervento di Rasputin è lo stesso dei ciarlatani di ogni tempo e, come per tutti gli imbonitori di successo, la moltiplicazione degli effetti data dal bisogno di credere nelle possibilità del magico è intervenuta in suo aiuto. La reiterazione attraverso vari mezzi e forme di trasmissione scritta, orale, televisiva, telematica, in tante diverse lingue, ha creato in molti riceventi anche l’effetto di una lunga serie di guarigioni prodotte per anni nel corso della vita del giovane principe. Ma basta dare un’occhiata alle date per rendersi conto di quanto anche questo faccia parte del “mito”.

A distanza di poco più di tre anni dall’incontro con il suo paziente-vittima, Rasputin fu ucciso a seguito di una congiura di palazzo. E’ in quell’arco di tempo che si dispiegherà tutta la sua attività spionistica  e diplomatica che determinerà l’influenza sulle posizioni dei sovrani russi all’inizio della prima guerra mondiale, in quel periodo nasce il mito e la leggenda del monaco dai costumi lascivi che intreccia rapporti con la zarina Alessandra e con tante altre vittime eccellenti delle sue pratiche mesmeriche, in quegli anni la sua intensa e febbrile attività politica lo portò a subire due attentati andati a vuoto e ad ordire complesse trame per eliminare avversari e nemici. Perciò ci si rende conto di come sia stato davvero poco il tempo per l’attività di guaritore di corte e non si vede perché si debba perseverare nell’errore di credere alle cronache dell’epoca, influenzate dalla propaganda che l’astuto monaco russo riusciva ad ottenere suggestionando e corrompendo tutti coloro che riteneva influenti sull’opinione pubblica.

(Riassunto di Monica Lanfredini da un manoscritto non pubblicato cortesemente fornito dal presidente di BM&L-Italia)



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