LA RICERCA DELLO SPIRITO NEL CERVELLO

 

(PRIMA PARTE)

 

La ricerca delle basi cerebrali della spiritualità, delle esperienze mistiche e del sentimento religioso, ha ormai una lunga tradizione, ma solo negli ultimi anni sono stati compiuti reali progressi nella definizione di correlati neurofunzionali degli stati mentali studiati.

Il recente sviluppo di questo campo di indagine ha indotto alcuni studiosi a chiedere il riconoscimento di una disciplina indipendente, alla quale sono stati attribuiti due possibili nomi, che hanno già sollevato obiezioni e critiche: Neuroteologia (Neurotheology) e Neuroscienza dello Spirito (Spiritual Neuroscience). Alcuni dei sostenitori di tale autonomia disciplinare, hanno proposto per questi studi un fine terapeutico: individuare i processi che generano benessere nell’esperienza religiosa, cercando di indurli indipendentemente da questa.

Lo studio dell’argomento, che abbiamo avviato con altri soci di “Brain, Mind & Life”, ci porta a dubitare dell’utilità di delimitare entro rigidi confini questo ambito sperimentale, soprattutto in una fase di così rapida evoluzione delle conoscenze neuroscientifiche come quella che stiamo vivendo, e ci induce a nutrire molte riserve circa la possibilità di conservare gli effetti di benessere in una evocazione avulsa da una più generale esperienza mistica o religiosa. Ma speriamo che i visitatori del nostro sito, sulla base dei dati e delle considerazioni qui riassunte e più estesamente trattate nei lavori originali, possano formarsi una personale opinione al riguardo.

Come per ogni altro argomento di indagine neuroscientifica, la cultura dell’epoca in cui sono state condotte le ricerche, ha influito in maniera determinante sulla costituzione dei modelli per le tesi, le ipotesi e le interpretazioni dei risultati; tuttavia, una revisione attenta delle pubblicazioni scientifiche delle tre ultime decadi, consente di rilevare che le convinzioni personali degli autori degli studi, hanno spesso influito sulle loro conclusioni più di quanto sia accaduto nello stesso periodo per altri argomenti. Ad esempio, alcuni ricercatori agnostici ritengono che i processi neurobiologici responsabili dello stato affettivo-emotivo che caratterizza le esperienze mistiche, siano all’origine delle religioni; altri, fra i credenti, non attribuiscono speciale importanza a tali processi che, al più, considerano parte di una costellazione di eventi fisiologici alla base dei molteplici aspetti psichici di una fede. Altri ancora, cercano un ipotetico “God Spot”, ossia un’area in cui sia localizzata una funzione corrispondente al divino nel cervello umano (David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007). Perciò abbiamo ritenuto utile fornire qualche indicazione sulle ipotesi sottoposte a verifica sperimentale e sull’orientamento di alcuni ricercatori, anziché limitarci ad enunciare i risultati come in genere si fa nelle rassegne brevi.

Senza avventurarci nel tentativo di ricostruzione storica delle origini di questa ricerca, proponiamo un breve cenno alle condizioni culturali in cui appare per la prima volta un legame scientificamente fondato fra funzioni cerebrali ed esperienze ricondotte all’ambito religioso: l’epilessia del lobo temporale.

Il positivismo ottocentesco, dominante nelle scienze mediche, bandiva il soprannaturale dagli oggetti del proprio interesse e tendeva a ricondurre al patologico le esperienze di rapporto col divino. Una tale visione non si limitava alle applicazioni cliniche relative a casi di disturbi mentali, ma costituiva un atteggiamento culturale esteso all’interpretazione dei fatti della storia. Così, le voci di Giovanna d’Arco erano allucinazioni uditive, le apparizioni della Madonna, allucinazioni visive, e le estasi mistiche, null’altro che fenomeni para-ipnotici auto- od etero-indotti. Nel 1892, l’associazione fra religiosità emotiva (religious emotionalism) ed epilessia è inclusa nei trattati di malattie nervose e mentali[1].

Nel 1975 il celebre neurologo e studioso di neuroanatomia funzionale del Boston Veterans Administration Hospital, Norman Geschwind, per primo descrisse una forma clinica di crisi epilettiche originate da alterazioni elettriche del lobo temporale, in cui i pazienti riferivano intense esperienze spirituali. Geschwind ed altri, fra cui David Bear della Vanderbilt University, ipotizzarono che scariche elettriche sincrone di gruppi neuronici della corteccia temporale potessero essere all’origine di pensieri ed ossessioni dai contenuti religiosi o attinenti a questioni morali.

Questa ipotesi è stata esaminata, venti anni dopo, da Vilayanur S. Ramachandran dell’Università della California a San Diego, un ricercatore che ha a lungo studiato i rapporti fra percezione e coscienza, indagando le basi neurali di fenomeni come la sinestesia[2] (si veda su questo argomento: Note e Notizie 30-12-05  Sinestesia come finestra sulla natura del pensiero).

Ramachandran ha supposto che la chiave del fenomeno sia da ricercare nelle funzioni del sistema limbico, in stretta associazione morfo-funzionale con le formazioni del lobo temporale. Sulla base di tale traccia, con i suoi collaboratori, ha allestito degli esperimenti volti a valutare, nei pazienti affetti da epilessia temporale, il rapporto fra contenuti psichici e risposte mediate da strutture limbiche.

 

[continua]

 

La seconda parte de “La ricerca dello spirito nel cervello” sarà pubblicata la prossima settimana e si prevede una terza parte per quella ancora successiva. Le autrici della nota ringraziano il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, che ha fatto conoscere loro questo campo di studi, presentandone i risultati al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini & Nicole Cardon

BM&L-Novembre 2007

www.brainmindlife.org

 



[1] A distanza di quasi un secolo, il maggiore trattato di psichiatria americano, in una descrizione della personalità epilettica, includeva la “religiosità sentimentale” [Silvano Arieti (a cura di), Manuale di Psichiatria in 3 volumi, vol. II, p. 1270, Boringhieri, Torino 1969-1987, traduzione italiana dell’American Handbook of Psychiatry, Basic Books, New York 1959-1966].

[2] L’associazione costante di una qualità non presente in uno stimolo percepito, come ad esempio il colore verde al numero 3 e il rosso al numero 10, oppure un dato sapore ad un dato colore, è generalmente definita sinestesia. Considerata a lungo una semplice curiosità, il primo studio scientifico della sinestesia risale alla pubblicazione sulla rivista Nature, nel 1880, di un articolo firmato da Francis Galton. Attualmente per sinestesia si intende una condizione in cui una persona sperimenta l’associazione o la commistione di due o più sensazioni per effetto di un’anomala interazione fra aree cerebrali che in condizioni normali agiscono separatamente.