UN CASO ECCEZIONALE DI SEZIONE CERVICALE COMPLETA

 

 

“Era un mattino di primavera ed ero da poco giunto alla stazione ferroviaria, dove mi ero subito immerso in un clima di festosa vacanza creato da numerosi gruppi di giovani in attesa di partire per mete turistiche, quando fui avvicinato da una ragazza dal volto tanto chiaro e sereno da farmi pensare ad un dipinto di Vermeer. Stringeva saldamente con la destra il manico di una borsa da medico, mentre con la sinistra teneva un opuscolo sull’Italia, con il garbo che le signore dell’alta società di un tempo riservavano al loro miglior ventaglio e che oggi, al più, si concede all’ultimo modello di telefono cellulare che si ritenga degno di una cena di gala. Affettando disinvoltura per vincere un lieve imbarazzo, in un inglese grammaticalmente perfetto ma dall’accento insolito, mi chiese indicazioni sul treno per Roma che avrebbe dovuto prendere di lì a poco.

Fu così che conobbi Vaste Schutte, in vacanza in Italia subito dopo aver descritto nella sua tesi di laurea uno dei cinque casi allora noti al mondo di persone sopravvissute alla sezione traumatica completa del nevrasse da dislocazione atlanto-occipitale. […] A lei, ed al suo straordinario caso clinico, ripensai quando Linda Faye Lehman mi chiese un parere su quanto Christopher Reeve, quasi decapitato e paralizzato dal collo in giù per una caduta da cavallo, riferiva nel suo libro Nothing Is Impossible”.

Con queste parole Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - ITALIA”, ha introdotto la discussione del caso clinico recentemente descritto dal neurochirurgo Woodland e dai traumatologi Gautschi e Zellweger, suoi colleghi al Royal Perth Hospital nell’Australia occidentale (Gautschi O. P., Woodland P. R. & Zellweger R., Complete medulla/cervical spinal cord transection after atlanto-occipital dislocation: An extraordinary case. Spinal Cord 45, 387-393, 2007).

La dislocazione dell’articolazione atlanto-occipitale con la completa sezione trasversale tra il bulbo e il midollo spinale è estremamente rara e generalmente mortale per la lesione di nuclei vitali, per questo i casi clinici descritti in pubblicazioni scientifiche sono pochi e l’eccezionale sopravvivenza di questi sfortunati pazienti è di regola molto limitata.

I medici australiani descrivono il caso di un ragazzo di 20 anni che, per un incidente motociclistico, ha riportato la disarticolazione della prima vertebra dall’osso occipitale (AOD) con la completa soluzione di continuità del sistema nervoso centrale in corrispondenza della regione bulbo-midollare. L’esame del paziente secondo la scala “Injury Severity Score” ha fatto registrare un punteggio di 75, per definizione corrispondente ad un livello non compatibile con la vita.

L’intervento condotto con estrema perizia e centrato sulla rianimazione e sulla stabilizzazione occipito-cervicale, è stato eseguito immediatamente dopo l’incidente. Probabilmente proprio la tempestività congiunta all’alto grado di efficienza specialistica ha salvato la vita del giovane.

A sedici mesi di distanza dal rischio di morte imminente, la situazione clinica è completamente stabilizzata e, sebbene il paziente dipenda da un respiratore artificiale e sia tetraplegico, si prospetta una lunga sopravvivenza, verosimilmente senza precedenti per simili condizioni.

Gautschi e i suoi due colleghi concludono che la loro esperienza dimostra che un intervento intensivo immediato può salvare la vita in questi casi, ma bisogna porsi il problema bioetico della sopravvivenza in condizioni di immobilità e totale dipendenza dalle apparecchiature sanitarie e dal costante impegno di altri per la soddisfazione dei bisogni primari e di tutte le altre necessità quotidiane.

In altre parole, si può così sintetizzare il problema posto dai tre clinici australiani: ora sappiamo che è possibile salvare la vita in queste condizioni, ma ci chiediamo se è giusto farlo.

A nostro modesto avviso i medici e tutti coloro che contribuiscono al sapere medico e agli atti clinici, dovrebbero sempre tendere a salvare la vita e a guarire dalla malattia, perciò in questo caso non dovrebbero porsi dubbi a priori sul salvare o meno il paziente traumatizzato, in un certo senso scegliendo al suo posto. Riteniamo che debbano compiere la propria missione professionale lasciando che sia la persona a decidere cosa voglia fare della propria vita appena sarà in grado di farlo.

In proposito non si può non ricordare quanto accaduto a Christopher Reeve.

Dopo l’incidente, quando prese coscienza dell’immobilità e dell’impossibilità di recupero funzionale, voleva porre fine alla propria vita, allora la moglie, Dana Morosini Reeve, gli chiese di fare con lei un patto per amore suo e dei loro figli: darle due anni di tempo durante i quali lei avrebbe fatto il possibile per rendergli la vita e vivibile e, al termine dei due anni, decidere se chiedere o meno l’eutanasia (Note e Notizie 11-03-06 La scomparsa di Dana Reeve, un’amica e un modello per BM&L).

Christopher accettò. Quanto accadde è di pubblico dominio per la risonanza internazionale delle straordinarie iniziative per la ricerca, l’assistenza e i sussidi alle persone con infermità neurologiche da parte della Christopher Reeve Paralysis Foundation (CRPF), del Christopher and Dana Reeve Paralysis Resource Center e della National Organization on Disability, di cui l’ex-attore divenne vice-presidente. Trovata una ragione di vita nell’impegno civile a favore dei disabili e nel sostegno economico al progresso scientifico, l’ex-superman cinematografico divenne un testimonial straordinario, dettando innumerevoli discorsi per convegni, interventi parlamentari, trasmissioni televisive, e vari libri fra cui un’intensa, coraggiosa e commuovente autobiografia (Still Me, 1998).

Quando nel 2000, a cinque anni di distanza dall’incidente, Christopher Reeve cominciò a muovere le dita della mano, non più solo per un riflesso locale ma anche per intenzione volontaria, fu lui a chiedere di essere studiato sperando in possibilità future per la ricerca e la terapia (Nothing Is Impossibile, 2002).

Il fenomeno, mai descritto prima in quelle condizioni, fu attribuito in via ipotetica ad uno stimolo alla neurogenesi indotto dalla fisioterapia passiva cui era sottoposto quotidianamente.

John McDonald, che seguiva Reeve per conto della CRPF, per cercare di accertare ipotetici fenomeni riparativi nel midollo spinale chiese la collaborazione di Maurizio Corbetta, neurologo formatosi a Milano e divenuto il maggiore esperto di risonanza magnetica nucleare (RMN) del sistema nervoso presso la Washington University. Corbetta era così scettico sulla possibilità di movimento di Reeve che, prima di verificarlo personalmente, non voleva neppure sottoporlo all’esame RMN.

Proprio il medico italiano, professore di neurologia ed anatomia a St. Louis, è ancora oggi il miglior testimone della straordinaria voglia di vivere che animava l’ex-attore americano e che è stata motivo di incoraggiamento e speranza per tante persone affette da infermità motorie.

 

Ricordiamo che BM&L-Italia è stata partner in iniziative internazionali della CRPF fino alla scomparsa di Dana Morosini Reeve. L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella, presidente di BM&L-Italia, e gli altri soci intervenuti all’incontro, con i quali condivide le opinioni qui espresse. Isabella Floriani ha riassunto e reso in buon italiano un testo lungo e imperfetto.

 

Nicole Cardon

BM&L-Maggio 2007

www.brainmindlife.org