BASI DELLA SOFFERENZA NELLA SEPARAZIONE DAL PARTNER

 

 

La separazione dal partner e la perdita del rapporto di coppia sono state oggetto di numerosi studi psicologici, che hanno approfondito i principali aspetti psichici della sofferenza generata da queste condizioni, e di valutazioni psicopatologiche focalizzate su conseguenze sintomatiche quali ansia, disturbi del sonno e reazioni depressive. Tuttavia, sulle basi neurobiologiche della reazione alla perdita temporanea o definitiva di una relazione di coppia non si sa molto e, solo di recente, si sono ottenuti i primi dati sui processi sottostanti i maggiori effetti fisiologici e comportamentali. In particolare, si sono fatti alcuni progressi nella conoscenza dei meccanismi neurochimici che, in un’ottica di fisiologia comparata, sembrano molto interessanti.

I criceti della prateria, in quanto specie strettamente monogama, sono selettivamente studiati per accertare le basi dell’attaccamento e della perdita nel rapporto di coppia (Note e Notizie 14-01-06 Un atto sessuale che lega una coppia per sempre). In un lavoro che sarà pubblicato nel prossimo mese di maggio, maschi di criceto della prateria, dopo quattro giorni di separazione dalla propria femmina, presentavano un comportamento simil-depressivo con alti livelli di corticosterone, ormone dello stress dei roditori corrispondente al cortisolo nella fisiologia umana (Bosch O. J., et al. The CRF system mediates increased passive stress-coping behavior following the loss of a bonded partner in a monogamous rodent. Neuropsychopharmacology 34 (6), 1406-1415, 2009). Da notare che la separazione da altri maschi non induceva questo quadro che, dunque, non poteva attribuirsi al generico effetto di un isolamento sociale, ma sembrava essere la reazione specifica alla mancanza della compagna.

Gli autori dello studio hanno somministrato ai criceti abbandonati un antagonista non selettivo dei recettori del CRF[1], mediante infusione intra-cerebro-ventricolare di lungo termine, per verificare l’importanza dell’asse CRF-ACTH-corticosterone nello sviluppo della risposta comportamentale assimilabile ad uno stato depressivo[2]. Sottoposti alla somministrazione, i roditori separati dalle compagne non mostravano più il comportamento patologico, confermando l’importanza della via che porta al rilascio dell’ormone steroideo nell’attivazione dei circuiti che mediano la genesi di questi stati accostabili alle reazioni ansioso-depressive della realtà umana. La sperimentazione ha anche rilevato che l’accoppiamento con la femmina era associato a un livello più alto di mRNA del CRF nei neuroni del nucleo della stria terminale, mentre la perdita della compagna si associava all’incremento dei corticosteroidi circolanti e all’aumento di peso delle capsule surrenaliche.

Larry Young, uno degli autori dello studio, paragona questo stato funzionale alla crisi di astinenza di una persona dipendente da sostanze psicotrope. Infatti, in vari studi è stato dimostrato che in animali monogami la coabitazione e l’accoppiamento aumentano i livelli di ossitocina e vasopressina – molecole implicate nelle funzioni a sostegno dell’attaccamento emotivo – ed attivano strutture dell’encefalo, come l’area tegmentale ventrale (VTA), associate ai sistemi a ricompensa.

In uno studio recente di coppie umane, la psicologa sociale della Utah University, Lisa Diamond, ha rilevato in persone separate di recente (da 4 a 7 giorni) un incremento del cortisolo plasmatico associato a sintomi minori della sindrome da astinenza, quali irritabilità e disturbi del sonno. Fra le coppie studiate, coloro che riferivano un grado maggiore di sofferenza ansiosa per il proprio rapporto, presentavano i picchi più elevati di cortisolo, mentre coloro che dichiaravano una minore sofferenza presentavano un più contenuto innalzamento dei livelli del glicocorticoide.

Da questi dati alcuni traggono, forse un po’ frettolosamente, la conseguenza dell’impiego di farmaci bloccanti il cortisolo come farmacoterapia della sofferenza da separazione e abbandono (si veda: Erica Vestly, Separation Anxiety for Adults. Scientific American MIND 20 (1), 12-13, 2009).

Altri ricercatori riflettono in chiave evoluzionistica, cercando di spiegarsi la forza del legame col partner sessuale. In genere si tende a considerare il legame di coppia, rispetto agli altri rapporti di parentela, come unico e specifico in relazione all’evoluzione, visto che è all’origine della riproduzione, ossia della prima condizione necessaria alla sopravvivenza della specie. Ma di recente è stato ipotizzato che questo legame derivi da quello che si stabilisce fra genitori e figli. L’ipotesi si basa sull’osservazione che dopamina, ossitocina e vasopressina sono i principali mediatori di entrambe le esperienze affettive, e gli schemi comportamentali associati alla formazione ed alla rottura di entrambi i rapporti sono stati descritti come simili. Lisa Diamond sostiene che siamo abituati a considerare l’amore genitoriale e quello di coppia come sostanzialmente diversi, ma che in realtà possono considerarsi due spinte biologiche analoghe perché tese allo stesso fine: creare una condizione mentale che determina supporto per un’altra persona e resistenza alla separazione.

Come ama ripetere il nostro presidente, la migliore funzione delle neuroscienze sperimentali è quella di chiarire le basi biologiche di ciò che costituisce esperienza comune o conoscenza derivata da discipline che studiano la mente. Intuitivamente il legame di coppia sembra originare dalla riproduzione sessuata e quello fra genitori e prole sembra una specializzazione affermatasi nelle specie animali che danno alla luce piccoli inetti. Quindi, una riflessione evoluzionistica superficiale, sembra incontrare il senso comune che considera queste due forme di legame indipendenti nella loro origine e natura. E’ vero che talvolta lo studio neurobiologico confuta credenze e convinzioni consolidate, ma ciò richiede una notevole mole di dati coerenti e confermati in grado di introdurre elementi nuovi in grado di modificare una visione o, addirittura, un paradigma; francamente non mi sembra che nel caso delle basi biologiche dell’attaccamento e della perdita del partner si sia in presenza di questa evenienza. Dati ancora frammentari che dimostrano l’impiego di mediatori comuni a queste due forme di legame (ma anche ad altri rapporti sociali) non sono sufficienti per dire che uno derivi dall’altro. A modesto avviso di chi scrive, cercare una priorità temporale nell’evoluzione biologica fra i due legami, è un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina; certamente in chiave psicologica è suggestivo e interessante mettere in relazione la filogenesi dell’attaccamento con l’esperienza di sviluppo affettivo di ciascuno di noi, nella quale sono evidenti elementi del legame di coppia derivati da quello con i genitori, ma è cosa diversa avere le prove che lo sviluppo biologico delle due forme di adattamento non sia concomitante.

D’altra parte, se gli studi proseguono e senza dubbio si sono fatti passi in avanti dai tempi in cui si riduceva la sofferenza per la separazione ad una crisi di astinenza da feniletilamine[3], non possiamo ancora dire di conoscere le basi neurobiologiche dell’innamoramento e dell’amore.

Fino a quando non si potranno mettere in rapporto i dati neurochimici con quelli relativi alla fisiologia dei sistemi e dei sotto-sistemi encefalici implicati, si rimarrà distanti dalla possibilità di definire un quadro esaustivo delle alterazioni indotte da separazione, abbandono o perdita di un partner.

 

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, con il quale ha discusso l’argomento trattato, e Isabella Floriani per la correzione della bozza.

 

Diane Richmond

BM&L-Aprile 2009

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE E DISCUSSIONE]

 

 

 

 



[1] Il CRF, che stimola il rilascio di ACTH ipofisario, è prodotto, oltre che al livello ipotalamico, dai neuroni dell’amigdala e di altre formazioni appartenenti al sistema limbico. Entrambi i recettori del CRF, il tipo 1 e il tipo 2, erano implicati nella risposta passiva allo stress.

[2] La risposta passiva allo stress, misurata con prove standard, è ritenuta equivalente ad una reazione depressiva umana.

[3] Donald Klein, dell’Istituto di Psichiatria dell’Università Statale di New York, negli anni Ottanta sostenne che il rilascio di feniletilamine conseguente ad un rapporto di coppia, genera uno stato di euforia che comunemente si interpreta come innamoramento. La cessazione di un rapporto si accompagna ad una brusca caduta del tasso di queste molecole simili all’amfetamina, con la conseguenza di una crisi di astinenza che culturalmente è riportata allo stereotipo delle “pene d’amore”. Klein notò anche che gli innamorati respinti o abbandonati spesso mangiano molto cioccolato, alimento ricco di feniletilamine.