I GENI CHE CI RENDONO UMANI

 

 

Il nostro DNA sarebbe per il 99% identico a quello dello scimpanzé (Pan troglotydes), secondo quanto si sente ripetere da genetisti ed esperti di evoluzione nei programmi di divulgazione scientifica, eppure è evidente che la differenza fra noi e le scimmie, nei caratteri e nelle abilità, rimane abissale, perciò è lecito chiedersi come si concilia questo dato genetico con l’esperienza. Una risposta immediata viene dall’osservazione che il criterio adottato per stimare l’identità è puramente quantitativo, mentre la ricerca sui geni che divergono fra l’uomo e la scimmia sta fornendo elementi qualitativi di straordinario rilievo che aiutano a comprendere perché Pan troglotydes è rimasto nella condizione di vita del suo progenitore ancestrale, mentre Homo sapiens ha trasformato l’intero pianeta creando il mondo, cioè il teatro culturale della vicenda umana (Katherine S. Pollard, What makes us human? Scientific American 300 (5), 32-37, May 2009).

Nell’evoluzione, l’accelerazione del tasso di cambiamento in alcune parti del genoma è un contrassegno della selezione positiva, in cui le mutazioni che aiutano un organismo a sopravvivere e a riprodursi hanno maggiore probabilità di essere trasmesse alle generazioni future. Queste parti del DNA, che presentano le maggiori differenze da quando la linea evolutiva dello scimpanzè e quella umana si sono separate, contengono le sequenze che con maggiore probabilità hanno dato forma alle caratteristiche uniche del genere umano.

Nel novembre del 2004, David Haussler e Katherine Pollard dell’Università della California a Santa Cruz, identificarono un’area del genoma umano contenente una concentrazione di queste sequenze a rapida evoluzione: una successione di 118 basi che fu battezzata HAR1 (da human accelerated region 1). Sulla base di risultati ottenuti in precedenza, ipotizzarono un rapporto fra questa regione e un gene non ancora identificato attivo nel cervello. L’encefalo umano differisce da quello degli altri primati per dimensioni, organizzazione e complessità, presentando nello sviluppo della corteccia cerebrale il maggiore salto dimensionale noto in biologia: Haussler e Pollard compresero che lo studio di HAR1 avrebbe potuto gettare luce su questo fenomeno ancora inspiegato quanto ai meccanismi.

I ricercatori hanno confrontato questa regione ad evoluzione rapida in varie specie animali, rilevando che la differenza fra la gallina e lo scimpanzè è di 2 sole basi su 118, mentre quella fra questa scimmia e l’uomo è di 18 su 118. L’antenato che abbiamo in comune con i polli si stima sia vissuto all’incirca 300 milioni di anni fa, mentre il predecessore comune con lo scimpanzé si stima risalga a 6 milioni di anni or sono: 300 milioni di anni per la variazione di due sole basi e 6 milioni per cambiarne 18. La straordinaria accelerazione appare evidente.

La regione HAR1 è attiva nel cervello, può essere necessaria per lo sviluppo della corteccia e sembra essere implicata nella produzione dello sperma.

Un aspetto qualitativo di notevole importanza, che è emerso da numerosi studi basati sul sequenziamento del genoma di molti microrganismi ed animali, consiste nel fatto che la localizzazione delle sostituzioni delle basi di DNA è molto importante e può avere un rilievo maggiore del numero delle sostituzioni stesse[1]. Infatti, in questi ultimi anni si è accertato che il modo in cui si sono determinati i grandi cambiamenti fenotipici fra noi e le scimmie non è consistito in un’accelerazione complessiva dell’orologio molecolare, ma in rapidi cambiamenti nei siti in cui le variazioni incidono maggiormente sul funzionamento dell’organismo.

Uno di questi siti è certamente HAR1, un altro corrisponde ad una successione di basi presente in un gene per molti versi straordinario come FOXP2, implicato nel canto degli uccelli e fondamentale per l’articolazione delle parole e in altri aspetti della comunicazione verbale umana (v. FOXP2 E LA PAROLA)[2].

Lo studio dell’evoluzione di FOXP2 ha portato a definire le caratteristiche del gene umano collegate alla facoltà di comunicare mediante un linguaggio verbale; si è pertanto cercato di stabilire quando sia apparsa la versione del gene associato alla parola. Nel 2007 fu estratto e sequenziato FOXP2 da un fossile di uomo di Neanderthal, ad opera di un gruppo di ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia: risultò che il progenitore estinto aveva già la nostra versione del gene. Le stime attuali circa l’epoca in cui la linea del Neanderthal si è separata da quella che porta fino a noi, suggeriscono che la forma di FOXP2 legata alla parola deve essere emersa almeno mezzo milione di anni fa.

Poiché è ragionevole supporre che le capacità di comunicazione non siano originate solo dalla possibilità di articolare suoni invece che semplicemente modularli, ma si siano evolute insieme con quelle cognitive in una sorta di interdipendenza genotipica e fenotipica, si deve supporre che il cervello che esprime la versione del gene legata alla parola sia giunto ad un livello di organizzazione e di sviluppo prossimo a quello attuale. Il grado di sviluppo cognitivo nell’evoluzione dei primati sembra essere in un rapporto di proporzione diretta con il volume dell’encefalo, che è più che triplicato nel corso dell’evoluzione umana. Uno dei geni più studiati fra quelli legati alle dimensioni cerebrali è ASPM.

Lo studio dei pazienti affetti da microcefalia ha consentito di accertare l’importanza di ASPM e di altri tre geni (MCPH1, CDK5RAP2 e CENPJ) nel controllare il volume della parte più cefalica del sistema nervoso centrale. Numerosi studi[3] hanno individuato vari cambiamenti esplosivi nel corso dell’evoluzione, almeno uno dei quali sembra essere intervenuto dopo che la linea umana si è separata da quella dello scimpanzè.

E’ interessante notare che altre parti del genoma possono aver influenzato l’evoluzione del cervello, anche se meno direttamente. Si pensi che la scansione computerizzata che ha consentito di identificare HAR1 ha individuato altre 201 regioni accelerate nel DNA umano e che più della metà dei geni prossimi alle regioni accelerate sono implicati nello sviluppo e nelle funzioni del cervello. I prodotti di molti di questi geni, come FOXP2, agiscono da regolatori dell’espressione di altri geni.

Altre sequenze specificamente umane si trovano in AMY1, LCT e HAR2.

L’AMY1 umano, facilitando la digestione dell’amido, può aver permesso l’utilizzo di nuovi cibi da parte degli uomini primitivi. LCT consente la digestione del lattosio nell’età adulta e, pertanto, ha avuto un ruolo nell’adozione del latte degli animali allevati come alimento.

HAR2 conduce l’attività dei geni nel polso e nel pollice, verosimilmente conferendo alla mano la destrezza per realizzare ed usare gli utensili e gli innumerevoli oggetti e strumenti prodotti dall’uomo.

In conclusione, in attesa di saperne di più sul 98,5% del nostro genoma che non codifica proteine, possiamo già dire che la comparazione qualitativa del DNA di Pan troglotydes ed Homo sapiens ha evidenziato grandi differenze e che, probabilmente, il prosieguo degli studi continuerà ad approfondire il solco fra le due specie, fino a renderci conto di tutti gli elementi biologici all’origine di quanto appare evidente anche allo sguardo di un bambino.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Maggio 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE E DISCUSSIONE]

 

 

 

 



[1] L’importanza qualitativa corrispondente al valore dei siti in cui avvengono le variazioni è confermata dal fatto che non occorrono molte mutazioni perché si abbia una nuova specie.

[2] Consigliamo la lettura di questo interessante saggio che introduce allo studio del ruolo fisiologico di FOXP2, presenta i principali risultati degli studi più recenti ed illustra con lineare chiarezza le implicazioni della sua espressione. Inizialmente definito “gene della parola”, è stato poi considerato nella sua funzione di regolatore di numerosi altri geni. L’interesse fonologopedico e neurolinguistico ha avuto origine nel 2001, quando ricercatori dell’Università di Oxford identificarono in una famiglia con disturbi del tipo disartria-dislalia una mutazione in FOXP2.

[3] In particolare quelli condotti dai ricercatori dell’Università di Chicago e dell’Università del Michigan ad Ann Arbour.