FOXP2 E LA PAROLA

 

 

La recente pubblicazione di una rassegna dei principali studi sul gene FOXP2[1] ha costituito un’occasione di approfondimento dell’argomento da parte dei soci di BM&L-Italia[2] che hanno raccolto riflessioni, recensioni ed elaborati sui principali temi e spunti problematici proposti dall’autore dell’articolo, Sebastian Haesler del Max Plank Institute for Molecular Genetics. Il testo che segue sintetizza i passi salienti dei contributi più significativi.

 

INTRODUZIONE. Sono numerosi i geni che negli anni recenti sono stati associati a disturbi del linguaggio, ma non era mai accaduto prima che un gene importante sia per l’ortofonia, sia per compiti cognitivi implicanti il pensiero verbale, si rivelasse precocemente attivo nello sviluppo embrionario dell’encefalo, potenzialmente intervenendo nello sviluppo psichico in generale. Per questo, fin dalla pubblicazione dei primi esperimenti relativi alla sua identificazione, FOXP2 ha suscitato un intenso dibattito sul suo ruolo fra genetisti molecolari e studiosi di varie discipline glottologiche.

Se oggi ci fa sorridere la concezione medioevale dell’innatismo linguistico che riteneva il greco, l’ebraico o il latino presenti nell’animo del bambino alla nascita, non possiamo però ancora segnare una netta linea di demarcazione fra i processi universalmente presenti e neurogeneticamente determinati negli esseri umani, e le specifiche funzioni impiegate nell’apprendimento e nell’uso di ciascuna delle lingue attualmente parlate al mondo. In altre parole, non abbiamo ancora gli elementi per distinguere con precisione il substrato neurale della comunicazione simbolica da quello di altri processi neuropsichici, né per distinguere esattamente ciò che appartiene alla neurofisiologia della parola in generale da ciò che è specifico di un singolo idioma[3].

Oggi nessun linguista mette in dubbio l’importanza di processi genetici ed epigenetici nelle facoltà cerebrali che consentono alla nostra specie, a differenza di quanto accade alle scimmie antropomorfe pur pazientemente addestrate, di apprendere, usare e creare una lingua; tuttavia non vi è un generale accordo sulla maniera in cui si realizzi la sintesi fra l’innato e l’appreso.

E’ necessario ricordare che i linguisti hanno nutrito a lungo una prudente diffidenza per le teorie biologiche della parola, storicamente accogliendo solo le più accreditate tesi dei maggiori neurologi e neuropsicologi studiosi dell’afasia (Broca, Wernicke, Pierre Marie, Luria), fino a quando non si sono sviluppate branche della linguistica ad orientamento scientifico-cognitivo e non sono nate scuole come quella del Massachusetts Institute of Technology (MIT) in grado di offrire un adeguato fondamento culturale al ponte interdisciplinare necessario a collegare il sapere dei biologi con quello dei glottologi[4].

Quando Lennenberg incaricò Noam Chomsky di scrivere un capitolo del suo celebre libro dedicato alla base biologica della parola[5], probabilmente non immaginava che la convinzione del suo allievo, dell’esistenza di una struttura profonda comune a tutte le lingue e a tutti i parlanti e di una grammatica generativa in grado di trasformarla nella struttura superficiale del singolo idioma, avrebbe avuto un’influenza così profonda e duratura da costituire ancora oggi un riferimento imprescindibile nel campo delle teorie linguistiche[6]. Ma, probabilmente, una delle ragioni della fortuna di quel pensiero è consistita nel fornire un’interpretazione razionale della comune esperienza dell’apprendimento della lingua da parte dei bambini.

Non sorprende che fra gli attuali sostenitori di tesi chomskiane molti abbiano visto in FOXP2 il gene all’origine della struttura profonda e della grammatica generativa.

Ma, a quanto pare, le cose non stanno così.

 

LA SCOPERTA DI FOXP2. L’identificazione del gene da molti ritenuto il più importante nel controllo delle funzioni che ci consentono di parlare, ha avuto origine dallo studio di vari membri di una famiglia inglese cui si è dato il nome convenzionale di KE.

Un numero rilevante di bambini di questo gruppo familiare era sottoposto a terapia logopedica per sintomi che andavano dall’articolazione non intelligibile delle parole, ad un difetto della grammatica naturale che non consentiva loro la descrizione di una successione di eventi nel corretto ordine cronologico[7]. Gli studi condotti da Jane A. Hurst e collaboratori presso l’Oxford Radcliffe Hospital consentirono di accertare che circa la metà della famiglia KE per tre generazioni aveva manifestato lo stesso tipo di disturbi delle funzioni comunicative verbali, e permisero di rilevare che i membri sottoposti ad accurato studio clinico presentavano integrità dell’apparato fonoarticolatorio e dell’udito, così come abilità motorie fini e cognitive nella norma.

I risultati del gruppo della Hurst deponevano per un’alterazione genetica espressa nei neuroni cerebrali e circoscritta all’uso della parola.

A breve distanza di tempo un gruppo di genetisti dell’Università di Oxford, guidato da Simon E. Fisher, identificò nella famiglia KE un segmento sul cromosoma 7 dove con elevata probabilità aveva sede una mutazione. L’esatta identificazione del gene avrebbe richiesto molti anni di lavoro se non si fosse verificata una circostanza favorevole che guidò i ricercatori verso un rapido approdo: un bambino con un disturbo simile a quelli riscontrati nella famiglia KE presentava un difetto evidente sul cromosoma 7 con una rottura in corrispondenza del gene FOXP2.

Nel 2001 il gruppo di Fisher identificò nel gene FOXP2 le mutazioni responsabili dei sintomi nei KE[8] e, successivamente, altri gruppi riscontrarono forme mutanti dello stesso gene in pazienti con disturbi simili, confermando la scoperta.

 

IL GENE FOXP2. Il nome deriva da quello di un’ampia famiglia di geni, FOX, ripartita in sottogruppi dalla A alla Q.  FOX sta per “fork head box”, una caratteristica sequenza presente in molti geni, e le cui mutazioni danno luogo nel moscerino della frutta Drosophila melanogaster ad una deformazione a forchetta della testa dell’embrione, da cui il nome.

FOXP2 vuol dire, dunque: gene della famiglia fork head box, sottogruppo P, membro numero 2. Altri membri dello stesso sottogruppo sono FOXP1, FOXP3 e FOXP4.

FOXP2 codifica un fattore di trascrizione, ossia una proteina che si lega a particolari segmenti del DNA, così determinando se altri geni saranno letti e tradotti nei loro rispettivi prodotti. La proteina FOXP2, in qualità di fattore di trascrizione, si ritiene che agisca da interruttore “on-off” di centinaia e forse migliaia di geni bersaglio.

Una mutazione in uno dei due alleli può comportare la riduzione alla metà delle molecole FOXP2 fisiologicamente valide, verosimilmente determinando lo sviluppo di disturbi come quelli osservati nella famiglia KE.

 

GENE DELLA PAROLA O GENERICO REGOLATORE? Non è mai semplice mettere in relazione un gene con la fisiologia di un sistema o di un intero organismo, ma nel caso di fattori di trascrizione in grado di agire su migliaia di altre sequenze del DNA genomico, l’impresa può apparire disperata soprattutto qualora se ne auspichi il compimento nell’arco di una generazione. Infatti, se in casi come quello della codifica di un enzima essenziale per la produzione di un neurotrasmettitore ci si può accontentare di far coincidere il ruolo del gene responsabile con la fisiologia nota di quel mediatore chimico, nel caso di geni come FOXP2, il ruolo dovrebbe essere ricavato da quello della moltitudine di sequenze geniche sulle quali agisce, e per far ciò si dovrebbe attendere la scoperta di tutte le attività funzionali regolate, comporle come tessere di un mosaico in un quadro complessivo, e infine operare una sintesi sulla base delle più recenti e confermate conoscenze fisiologiche.

E’ possibile, tuttavia, a questa prudente ma lenta procedura deduttiva, preferire in alternativa una modalità euristica, inevitabilmente limitata da un’approssimazione concettuale delle categorie funzionali, ma fondata su solide basi teoriche. Questo procedere diretto e un po’ garibaldino è stato seguito dai ricercatori che hanno verificato la presenza di FOXP2 in un ampio spettro di specie animali (significato filogenetico e comparativo) ed è attualmente impiegato da gruppi di ricerca che indagano le caratteristiche e le modalità dell’espressione in varie specie (topografia e cronologia dell’espressione genica). 

La complessa influenza che FOXP2 sembra esercitare sullo sviluppo e sulle funzioni del sistema nervoso centrale si conosce solo in una piccola parte, ma i primi risultati ottenuti in un percorso di ricerca che è solo agli inizi, hanno già indotto alcuni ricercatori a contestare l’etichetta di “gene del linguaggio” e ad ipotizzare un ruolo di regolatore generico o eclettico.

E’ stato accertato, ad esempio, che il gene esiste in animali appartenenti alla classe dei rettili, come i coccodrilli, oltre che negli uccelli, nelle balene e in una vasta gamma di altri mammiferi che vanno dai roditori ai primati[9]. La presenza di FOXP2 in animali privi di parola[10] e di funzioni comunicative a questa prossime non è tuttavia il principale elemento a sostegno dell’ipotesi di un ruolo aspecifico del gene, perché un dato ben più rilevante è emerso dalla sperimentazione: in mutanti di FOXP2 si è riscontrata la compromissione dello sviluppo di regioni cerebrali responsabili del controllo motorio del corpo.

Complessivamente, la ricerca basata sulla verifica degli effetti di forme mutanti sullo sviluppo dell’encefalo, ha finora rilevato deficit di evoluzione tanto in sistemi neuronici ascritti al versante motorio, quanto in aree in cui si ritiene che vengano elaborate le informazioni relative alla comunicazione[11].

Per cercare di comprendere la natura dei processi regolati da questo gene, vista la sua onnipresenza nei vertebrati saggiati, sono fondamentali gli studi volti alla definizione dell’epoca e dei territori cerebrali di maggiore espressione, ossia intesi a stabilire il quando e il dove dell’attività della proteina codificata.

 

CERVELLETTO, TALAMO E NUCLEI DELLA BASE DELL’EMBRIONE. Lo studio cronologico e topografico dell’espressione di FOXP2 ha fornito importanti informazioni sul suo profilo funzionale e ha suggerito riflessioni sulla base neurologica del linguaggio. E’ stato rilevato che la proteina FOXP2 è prodotta in epoca molto precoce nell’abbozzo encefalico dell’embrione ed è particolarmente concentrata nelle aree che daranno rispettivamente origine al cervelletto, al talamo e ai nuclei della base[12].    

Coerentemente con questo pattern di espressione, gli studi strutturali dell’encefalo di pazienti affetti da disturbi del tipo di quelli descritti nella famiglia KE, hanno rilevato volumi del cervelletto, dei nuclei della base e del talamo alterati rispetto alle persone non affette[13]. La conferma di una parziale corrispondenza fra sedi di espressione e di patologia è venuta dallo studio funzionale: quando questi pazienti parlano, una parte dei loro nuclei della base è meno attiva che di norma.  

Il cervelletto e i nuclei della base hanno una parte preponderante in funzioni del sistema extrapiramidale che vanno dalla regolazione del tono e dell’equilibrio posturale fino all’esecuzione di automatismi alla base dei movimenti fini e della fonoarticolazione, integrando le componenti volontarie del gesto e coscienti della comunicazione[14]. L’interazione con i circuiti sensitivi del talamo è costante e molto più estesa di quanto ritenuto in passato.

Cervelletto e nuclei della base del telencefalo sono intensamente attivi durante l’apprendimento di compiti motori complessi come suonare uno strumento musicale o scrivere mediante una tastiera, ma sembra abbiano un ruolo importante anche nell’apprendimento sensoriale uditivo. Inoltre, si ritiene che queste strutture svolgano un ruolo importante anche nella temporizzazione esecutiva, ossia nella coordinazione secondo un piano cronologico di vari movimenti ed atti mentali e materiali.

Su questa base si è ipotizzato che il difetto di sequenziamento motorio e di apprendimento procedurale sia alla base dei disturbi di articolazione e successione che caratterizzano la grave forma di disprassia verbale dello sviluppo riscontrata nei membri della famiglia KE[15].

 

BROCA, WERNICKE E L’ELABORAZIONE IN PARALLELO. Molti studiosi si sono chiesti se le due aree corticali canonicamente ritenute più importanti per la comprensione e l’esecuzione della parola, ossia l’area recettiva di Wernicke e l’area motoria di Broca, fossero alterate nei deficit legati a FOXP2. La risposta che viene dalla ricerca è affermativa, ma le alterazioni non sono così rilevanti come la tradizionale concezione della neurofisiologia del linguaggio farebbe supporre[16].

E’ noto che l’importanza quasi esclusiva delle due aree della corteccia cerebrale nella comprensione e nella produzione di messaggi verbali, deriva da un modello di neuroanatomia funzionale del linguaggio in larga misura influenzato dalla casistica afasiologica prevalentemente costituita da lesioni cerebrovascolari di quei territori della corteccia che, secondo il principio dell’encefalizzazione, assumono importanza prioritaria sui centri di elaborazione situati più caudalmente[17].

L’influenza delle mappe funzionali della corteccia cerebrale elaborate dalla scuola di Penfield, ha sicuramente avuto un peso notevole nel contribuire a creare una visione localizzatrice della fisiologia dell’encefalo[18]. Un ruolo non meno importante nell’indurre ad immaginare le funzioni neuropsichiche fondate su centri monofunzionali collegati fra loro, lo hanno avuto le dimostrazioni della scuola di Roger Sperry dell’esistenza di collegamenti punto per punto fra aree del sistema nervoso. Tutto ciò ha portato molti a considerare le aree corticali, la cui importanza è vincolante per esplicare una data funzione, alla stregua di centri autonomi ed autosufficienti all’esercizio della funzione stessa. Così il riscontro frequente da parte di Norman Geschwind di una lesione nella regione postero-mediale della superficie inferiore del lobo temporale in pazienti che avevano perso la capacità di riconoscere le persone dal loro viso (prosopoagnosia) ha dato luogo alla definizione e al concetto di “area dei volti”.

Oggi sappiamo che la fisiologia della parola e del pensiero verbale hanno una base complessa caratterizzata dal funzionamento contemporaneo o, come si è soliti dire, in parallelo di numerose aree subcorticali e corticali[19]. Non sorprende, pertanto, che i difetti osservati nella famiglia KE e in pazienti con disturbi simili non siano da ascrivere alle aree di Broca e Wernicke.

La recente nozione che la comprensione e l’esecuzione verbale richiedano l’elaborazione in parallelo, è coerente con un’altra osservazione sulla fisiologia del linguaggio nei membri affetti della famiglia KE: parti del cervello che normalmente non partecipano alle funzioni verbali sono attive nella comprensione e nella produzione della parola.

L’attività abnorme potrebbe derivare direttamente dal difetto di FOXP2, che regola geni e funzioni ancora in massima parte sconosciute, oppure essere espressione di un tentativo di compenso dei sistemi neuronici della parola all’epoca dell’apprendimento e dello sviluppo delle abilità linguistiche.

La distinzione fra gli effetti diretti ed indiretti di FOXP2 costituisce il principale limite interpretativo in assenza di dati sulla fisiologia dei sistemi regolati da questo fattore di trascrizione, per questo si può tentare la procedura per esclusione prendendo le mosse dalla verifica sperimentale di due ipotesi estreme e contrapposte, scolasticamente concepite in una forma semplificata:

 

a) il difetto embriogenetico sarebbe responsabile di un collegamento strutturale di base non corretto e/o della mancata formazione di gruppi neuronici specializzati;

 

b) i sintomi avrebbero origine esclusivamente nel corso dello sviluppo post-natale da alterazioni nell’elaborazione dell’informazione necessaria all’apprendimento e all’uso della lingua.

 

Si può facilmente concordare con l’opinione di Sebastian Haesler secondo il quale le mutazioni di FOXP2 causerebbero una condizione intermedia fra queste due ipotesi[20].

 

LO STUDIO DI FOXP2 NEGLI UCCELLI FORNISCE UNA TRACCIA. Lo studio comparato, come si è accennato in precedenza, è uno dei percorsi obbligati quando non si può immediatamente dedurre il significato di un gene dal ruolo che svolge il suo prodotto, ma in questo caso si è rivelato particolarmente produttivo per una insperata analogia genetico-comportamentale che è venuta in aiuto dei ricercatori.

La sequenza di FOXP2 è conservata nelle diverse specie animali, presentando solo lievissime differenze: ad esempio 712 dei 715 aminoacidi della proteina FOXP2 sono identici nel topo e nell’uomo. Allo stesso modo, cronologia e topografia dell’espressione genica si sono rivelate costanti negli animali studiati. Questo profilo depone per un ruolo sostanzialmente analogo.

Per cercare di comprendere il rapporto del gene con i disturbi evolutivi del linguaggio si è indagata la sua relazione con abilità vocali animali. Un numero straordinario di animali è in grado di emettere versi e segnali che si presentano come una dotazione standard acquisita con lo sviluppo, spesso specie-specifica, e che non muta nel corso della vita. Solo poche specie presentano la caratteristica di piccoli e giovani in grado di apprendere patterns vocali imitando i propri genitori in un modo che ricorda il nostro apprendimento della lingua. Fra queste specie vi sono i pipistrelli, alcuni mammiferi marini, i pappagalli, gli uccelli da canto e i colibrì.

Un piccolo di uccello che impara il canto per imitazione, come molti passeracei, nelle fasi iniziali riesce a riprodurre solo elementi minimi di quello che sarà il suo canto da adulto (subsong) in un tentativo che è stato paragonato alla lallazione (babbling)[21], ma che forse dovrebbe più opportunamente essere accostato alla pronuncia delle prime parole. L’ascolto delle frasi canore degli adulti, fungendo da modello acustico, induce gli uccellini ad adeguare progressivamente l’emissione di suoni, fino ad una perfetta imitazione.

Negli uccelli da canto[22] il processo di apprendimento è ancora più evidente, con la progressiva acquisizione di un intero repertorio di modulazioni entro l’età della completa maturazione sessuale. La necessità di imparare da un modello acustico è resa evidente dall’impossibilità di sviluppare le potenzialità vocali della specie in caso di sordità, esposizione a forti rumori e mancanza di feedback con i maschi adulti che fungono da maestri. Gli allevatori sfruttano da tempo la capacità di apprendimento dei cantori più pregiati e li addestrano per concorsi e mostre sottoponendoli per molte ore al giorno all’ascolto di registrazioni di “virtuosi” o di brani appositamente realizzati per selezione e montaggio dei campioni migliori.

La dipendenza dall’apprendimento rende il canto di questi uccelli simile alle lingue verbali acquisite nel contesto umano[23]. L’analogia non è solo relativa alla fenomenica comportamentale, ma riguarda anche la presenza di specifiche strutture neuroniche specializzate nella percezione e nella produzione dei suoni corrispondenti, rispettivamente, al canto aviario ed alla parola umana[24].

Questi elementi hanno indotto i ricercatori a studiare il ruolo di FOXP2 negli uccelli che apprendono il canto, per dedurne un ruolo nell’apprendimento della lingua.

Per facilitare la comprensione dei risultati della sperimentazione nelle specie aviarie sarà opportuno qualche riferimento ad alcune importanti differenze e somiglianze fra il cervello umano e quello degli uccelli.

Gli uccelli, che derivano geneticamente dai rettili, hanno un cervello piuttosto semplice con un’organizzazione spiccatamente modulare, in cui ciascun modulo funzionale assolve uno specifico compito. Le unità modulari si possono paragonare ai nuclei vegetativi del tronco encefalico umano, come i centri cardioinibitore, vasomotore, pneumotassico, apneustico, definiti dal compito fisiologico al quale sono preposti; nulla in comune con la complessa architettura funzionale ancora non del tutto decifrata del nostro telencefalo.

Nel cervello aviario gli stimoli acustici giungono al centro vocale superiore che controlla i movimenti muscolari dell’organo vocale mediante il centro motorio. Un importante aggregato di neuroni situato nei nuclei della base è l’area X detta anche centro di apprendimento del canto.

Una delle vie nervose più studiate del cervello degli uccelli passa proprio per l’area X e può considerarsi equivalente dei circuiti riverberanti della base del telencefalo umano (circuiti cortico-basali riverberanti) fondamentali per l’apprendimento. Il percorso di questa via si può così schematizzare: dal centro vocale superiore all’area X nei nuclei della base, da qui al talamo che riverbera i segnali alla corteccia[25].

Le lesioni dell’area X nei giovani determinano anomalie del canto, mentre negli adulti non alterano le prestazioni canore ma compromettono la possibilità di apprendere nuove modulazioni e fraseggi. Si ritiene, perciò, che il circuito cortico-basale sia importante per l’apprendimento vocale ma non necessario per la semplice esecuzione.

Un primo scopo della ricerca è stato quello di stabilire se le differenze fra le specie che apprendono il canto e quelle che lo ereditano come un carattere statico, abbiano un equivalente nell’espressione di FOXP2 nei neuroni cerebrali.

I risultati ottenuti sono davvero eloquenti. La tortora dal collare, che eredita un richiamo vocale tipico della specie ed è incapace di apprendere sibili, gorgheggi o fraseggi di alcun genere, non produce proteina FOXP2 nelle cellule nervose dell’area X; al contrario, negli uccelli da canto come lo zebra finch[26] la quantità di proteina prodotta durante la fase di apprendimento supera sia quella riscontrabile nelle prime fasi della vita, sia quella tipica dell’età adulta. Nel canarino, che cambia la melodia una volta l’anno dopo la stagione degli accoppiamenti, si ha la massima espressione di FOXP2 nell’area X proprio in corrispondenza della fase di apprendimento[27].

Accertato lo stretto rapporto fra il nostro fattore di trascrizione e la facoltà di apprendimento del canto da modelli acustici, si è indagata la possibilità di un suo ruolo nella cosiddetta song plasticity, ovvero l’abilità di imparare nuovi schemi strutturati e caratteristici di sequenze vocali, definite convenzionalmente dagli ornitologi “canzoni”. A questo scopo il gruppo di Haesler ha ridotto geneticamente la quota di FOXP2 nei neuroni dell’area X di esemplari di zebra finch per simulare una condizione simile a quella dei membri della famiglia KE o di altri pazienti portatori di mutazioni del gene. Gli esperimenti hanno mostrato che gli uccellini avevano grandi difficoltà nell’apprendere le loro canzoni, e i limiti nell’acquisizione delle frasi risultavano ben evidenti al confronto con gli esemplari non modificati geneticamente.

Questi studi hanno anche messo in evidenza che, nelle specie aviarie indagate, FOXP2 non sembra importante per l’attività motoria in generale, contrariamente a quanto era stato ipotizzato sulla base del rilievo nei mutanti di FOXP2 di difetti di sviluppo in aree deputate al controllo motorio.

 

CONCLUSIONI. La ricerca nelle specie aviarie ha reso evidente una corrispondenza fino al livello molecolare fra l’apprendimento del canto degli uccelli e l’acquisizione del linguaggio umano. Un’analogia così stretta consente di ipotizzare un ruolo importante del difetto di apprendimento vocale nella genesi del disturbo che affligge la famiglia KE. Infatti, se è vero che non è ancora stato possibile definire il modo in cui le conseguenze dell’alterazione genica sullo sviluppo embrionario partecipino alla patogenesi della disprassia verbale dello sviluppo, è probabile che nell’uomo, come nelle specie aviarie, l’apprendimento vocale sia compromesso in larga misura per la mancanza nei neuroni dei circuiti cortico-basali della quota di fattore di trascrizione necessaria al loro corretto funzionamento[28].

Anche se ci sembra riduttivo e un po’ approssimativo affermare con Haesler che il problema dei membri ammalati della famiglia inglese consista essenzialmente nella difficoltà di imitare i suoni dei propri genitori ed armonizzare il proprio linguaggio con quello degli altri (Haesler, 2007)[29], riteniamo condivisibile la tesi di fondo suggerita dal brillante lavoro sperimentale di questo autore, tesi che vogliamo riformulare così: è molto probabile che, nei bambini con un solo allele FOXP2 funzionante, sia gravemente deficitario il processo che genera memorie mediante automatismi imitativi e prevede la correzione sulla base della differenza, il rinforzo sulla base della somiglianza e il consolidamento per effetto dell’uso[30].

Gli apprendimenti procedurali complessi che fanno parte della vita quotidiana di molti di noi, come scrivere mediante una tastiera, guidare un’automobile, andare in bicicletta, danzare o suonare uno strumento musicale, si costruiscono mediante la formazione di nuove architetture funzionali basate su routines presenti alla nascita e necessarie per tutta la gamma di comportamenti motori di base caratteristici della specie[31]. Nonostante alcune rilevanti differenze, l’apprendimento delle sequenze di schemi fonoarticolatori che ci consente di parlare, può essere accostato a quello della successione dei passi in una danza, dei movimenti per scrivere, suonare o svolgere altri compiti basati su procedure acquisite, pertanto è lecito supporre un intervento di FOXP2 nell’acquisizione delle abilità necessarie almeno ad alcuni di tali compiti; per questo sarebbe interessante studiare più approfonditamente, nei portatori di mutazioni non funzionali, il raggio d’influenza del nostro fattore di trascrizione.

L’interesse per FOXP2 non è dato tanto dalla sua rilevanza clinica, infatti i più comuni disturbi che i bambini presentano nello sviluppo del linguaggio hanno una radice genetica diversa da quella osservata nella famiglia KE e sembrano trovare spiegazioni in alterazioni geniche localizzabili sui cromosomi 2, 13, 16 e 19 (Fisher, Lai e Monaco, 2003)[32], ma dagli insegnamenti che possiamo trarre dai risultati della ricerca sul suo ruolo funzionale. Due fra questi ci sembrano davvero preziosi: l’intimo legame fra linguaggio e apprendimento, e la remota origine filogenetica di una delle più straordinarie facoltà umane.

 

Diane Richmond & Giuseppe Perrella

BM&L-Settembre 2007

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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Diane Richmond & Giuseppe Perrella

BM&L-Settembre 2007

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[1] Haesler Sebastian, 2007; v. bibliografia al n.12.

[2] Sotto la guida del gruppo di studio che negli anni precedenti ha realizzato percorsi bibliografici ragionati e revisioni della letteratura scientifica sulla genetica della dislessia.

[3] Si vedano in proposito le osservazioni del professore Giovanni Rossi riguardo i recenti studi sulle differenze genetiche fra le popolazioni che parlano lingue tonali come il cinese mandarino e quelle che adottano lingue non tonali come la nostra (Note e Notizie 08-09-07 Dibattito su nuovi geni della parola).

[4] Si suole distinguere una linguistica diacronica basata sulla storia delle lingue, sulla filologia e sull’etimologia, ed una linguistica sincronica che si propone lo studio della lingua come un oggetto da analizzare, ad esempio secondo i metodi dello strutturalismo come nella linguistica strutturale di Fernand De Saussurre, oppure secondo i metodi della cognitive science come nella linguistica generativa teorizzata da Noam Chomsky al MIT.

[5] Lennenberg E. H., 1967; v. bibliografia al n.20.

[6] Chomsky ha contrapposto alla concezione dominante skinneriana, che considerava la facoltà di parlare una lingua uno dei tanti comportamenti appresi mediante rinforzo, l’idea dell’esistenza nel cervello del bambino di una potenzialità innata e generativa di apprendimento per elaborazione e non per semplice imitazione. Le tesi chomskiane sono state criticate, modificate e rielaborate soprattutto nell’ambito della linguistica generativa non trasformazionale che annovera teorie come quella della Grammatica a Struttura di Frase Generalizzata, elaborata da Gadzar, Pullum ed altri, e quella della Grammatica Lessico-Funzionale di Bresnan e Kaplan. I lavori più recenti di Chomsky hanno notevolmente modificato la formulazione iniziale della teoria, conservando però l’impianto concettuale di fondo.

[7] Il quadro clinico era dominato da una disprassia verbale dello sviluppo, alla quale si associavano vari altri sintomi evidenti nella pronuncia dei fonemi, nell’uso della lingua e nell’elaborazione della grammatica.

[8] Il lavoro del gruppo di Fisher pubblicato su Nature nel 2001 (si veda la bibliografia al n.16) riporta l’identificazione di FOXP2 e la dimostrazione che in assenza della sua funzione si determina un grave disturbo foniatrico. Si tratta della prima dimostrazione di un rapporto diretto fra un gene ed una patologia evolutiva del linguaggio e costituisce la fase conclusiva di un lungo studio caratterizzato, già nel corso degli anni Novanta, dalla proposta di FOXP2 quale importante responsabile del controllo delle funzioni linguistiche.

[9] E’ molto probabile che sia presente in tutti i vertebrati.

[10] E’ una diffusa convinzione fra i ricercatori, e soprattutto fra coloro che hanno una visione deterministica della neurogenetica, che alla facoltà di parlare debba corrispondere un gene o un profilo genetico specifico. Una simile ipotesi non è necessaria secondo la nostra visione che ritiene il linguaggio parte dell’evoluzione neuropsichica, da noi considerata un processo continuo, integrato, con una estesa ed importante componente epigenetica.

[11] Questi rilievi sono coerenti con la tesi secondo cui la facoltà umana di comunicare e pensare mediante strutture verbali abbia avuto origine da estesi e complessi adattamenti cellulari e molecolari e non dall’apparizione di un nuovo gene o set di geni della parola.

[12] L’espressione complessivamente riscontrata nella lamina corticale, nei nuclei della base, nel talamo, nei nuclei olivari inferiori e nel cervelletto, depone a favore di un’importanza nello sviluppo delle vie corticostriata (dalla corteccia ai nuclei della base appartenenti al corpo striato) ed olivo-cerebellare (dai nuclei olivari inferiori al cervelletto), importanti nel controllo motorio (Lai C. S. et al., 2003; v. bibliografia n.17).

[13] (Lai C. S. et al., 2003; v. bibliografia n.17).

[14] Per alcune recenti acquisizioni sul ruolo del cervelletto nel linguaggio verbale si veda sul nostro sito (www.brainmindlife.org, percorso: RUBRICHE → INTERVISTE) la seconda parte dell’Intervista a Giuseppe Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia.

[15] (Lai C. S. et al., 2003; v. bibliografia n.17).

[16] I modelli di neurofisiologia del linguaggio derivano in larga misura dagli studi sull’afasia, che costituiscono ancora il principale riferimento per le teorie sull’origine della parola (Ardila et al., 2006; v. bibliografia al n.1: l’articolo è una buona rassegna in lingua spagnola con testo completo gratuito sul sito web di PUBMED).

[17] La recente scoperta da parte di Marco Catani, psichiatra del King’s College di Londra, di una via indiretta accanto al fascicolo arcuato che, nel modello affermatosi già alla fine dell’Ottocento, costituiva l’unico collegamento fra l’area 44 o motoria del linguaggio o di Broca e l’area recettiva o di Wernicke (area 22 di Brodmann e parti limitrofe), è stato uno spunto importante per rivedere le vecchie nozioni e i classici modelli connessionisti, aprendo una nuova era nello studio del sostrato neurale delle funzioni verbali (Catani M. et al., 2005; v. bibliografia al n.3). Per due brevi discussioni al riguardo, si vedano: Note e Notizie 08-10-05 La parola e il cervello: una nuova era; Note e Notizie 07-10-05 Nuove vie e nuove basi neurali del linguaggio. Si veda anche la bibliografia al n.4 per l’interessante parabola delle “sindromi da disconnessione” ricostruita e discussa dallo stesso Catani con Ffytche.

 

[18] Penfield e Rasmussen, 1950; v. bibliografia al n.25.

[19] Sono esemplari in proposito gli studi degli ultimi due decenni della scuola di Semir Zeki che, contribuendo all’identificazione di 32 aree cerebrali per la funzione visiva, hanno dimostrato l’ingenuità e la fallacia di molti modelli connessionisti. La realtà che sta emergendo dalla ricerca più recente, si può agevolmente interpretare sulla base della pur complessa visione del cervello che si desume dalla teoria della mente di Gerald Edelman. In particolare il concetto di rientro fra aree indipendenti, ossia la comunicazione totale e reciproca di tutta l’attività svolta in tempo reale, fornisce una chiave interpretativa importante per la comprensione del funzionamento in parallelo.

[20] Sebastian Haesler, 2007; v. bibliografia al n.12. A fronte di una generale definizione di missense mutation eterozigote di FOXP2 alla base della disprassia verbale nella famiglia KE, più di recente l’esame di 49 soggetti affetti dallo stesso disturbo ha rivelato, in un caso in cui la sintomatologia era molto grave, una nonsense mutation con una proteina FOXP2 letteralmente troncata (MacDermot K. D. et al., 2005; v. bibliografia n.21). Mutazioni missense e nonsense di FOXP2 sono state estesamente studiate da un gruppo guidato da Fisher (Vernes S. C. et al., 2006; v. bibliografia n.34). L’analisi della sostituzione R553H nel tratto forkhead-box (riscontrata in tutti i membri affetti della famiglia KE) ha rivelato che la grave compromissione delle funzioni della proteina FOXP2 è principalmente dovuta alla perdita della localizzazione nucleare e delle proprietà di legame del DNA. La mutazione R328X, associata al troncamento della proteina, generava un prodotto instabile, prevalentemente citoplasmatico e privo di capacità di transattivazione.

 

 

[21] La lallazione è un processo di produzione di suoni vocali automatico, che ha un equivalente motorio nello sgambettare spontaneo del lattante, ed è presente anche negli audiolesi che non avranno una normale acquisizione della lingua e delle abilità comunicative per mancanza di modelli uditivi.

[22] Il canto, caratteristica del maschio, è un elemento di attrazione fondamentale ai fini della riproduzione.

[23] Studi come quelli sul passero dalla cresta bianca hanno rivelato analogie fra  apprendimento del canto aviario e delle lingue umane: Note e Notizie 05-02-05 Scoperte negli uccelli unità minime per lunghe memorie.

[24] Non è superfluo ricordare che, proprio studiando il canto degli uccelli, Fernando Nottebohm dimostrò l’esistenza della neurogenesi nel cervello di un vertebrato adulto, già individuata da Joseph Altman nel 1962, ma non riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale. Le ricerche di Nottebohm aprirono la strada all’identificazione di fenomeni di neurogenesi nell’encefalo umano, contribuendo ad un cambiamento epocale di prospettiva nelle neuroscienze.

[25] E’ stata recentemente dimostrata (Kubikova L. et al., 2007; v. bibliografia al n.15) un’interazione molecolare dinamica fra la via motoria dedicata all’esecuzione vocale e il circuito cortico-basale necessario all’apprendimento ed alle modificazioni del canto già appreso.

[26] Lo zebra finch (Poephila guttata) è un uccello di piccola taglia originario dell’Australia, che deve il suo nome alla livrea grigia e bianca con strisce nere in corrispondenza della coda. Si adatta bene alla vita in gabbia ed è un ottimo cantore. Un altro uccello studiato per FOXP2 è il meadow-lark un cantore americano del genere Sturnella, riconoscibile per il suo petto giallo sormontato da un collare scuro con una caratteristica macchia centrale a semiluna con la convessità rivolta verso il basso.

[27] Haesler S. et al., 2004; v. bibliografia al n.13.

[28] Mizutani A., et al., 2007; v. bibliografia al n.23.

[29] Sebastian Haesler, 2007; v. bibliografia al n.12.

 

[30] A questo processo non è estranea, come in ogni campionamento dell’esperienza da parte di un sistema nervoso complesso, l’estrazione di regole paradigmatiche di estensione (generalizzazione) e di esclusione, quale epifenomeno degli automatismi di apprendimento, ossia come procedura implicita e non come cognizione cosciente. D’altra parte, ciò che ci appare “regola paradigmatica”, al livello neurofunzionale è probabilmente la semplice scelta di una tipologia di funzionamento determinata da una serie di vincoli biologici.

[31] Vanno dagli schemi procedurali deambulatori ai fixed action patterns impiegati nell’alimentazione e nell’accoppiamento.

[32] Fisher, Lai e Monaco, 2003; v. bibliografia al n.9.