DOLORE E IMAGING: UNA CURA IMMAGINARIA    

 

 

Colgo l’occasione offertami dall’estensione di questa nota dedicata alla recensione di un lavoro appena pubblicato sulla rivista “Pain”, per esprimere in estrema sintesi il mio pensiero sui criteri correntemente impiegati per interpretare l’imaging funzionale, e manifestare il mio rispettoso ma convinto dissenso per l’opinione espressa da Ludovica Roversi Poggi nella Nota dell’11-02-06: Controllo del dolore in tempo reale.

Una delle principali caratteristiche del dolore è la sua varietà: sono diverse le forme in cui si manifesta, per intensità, qualità dell’esperienza e sede anatomica. La semeiotica medica dedica una branca speciale dei suoi studi a queste differenze, alcune delle quali si basano sulle sensazioni riferite dal soggetto: fitta, puntura, dolore sordo e profondo, dolore pulsante, dolenzìa diffusa, bruciore, sensazione di torsione, di perforazione, ecc. Alcune caratteristiche richiedono scarsa interpretazione, per cui anche un bambino è in grado di distinguere il suo mal di pancia dal dolore che prova pungendosi, pestandosi un dito o picchiando contro un’ostacolo. Questa capacità discriminativa ha senz’altro significato e valore in termini evoluzionistici ed è riflessa da tutta l’organizzazione dei sistemi di percezione ed elaborazione degli stimoli nocivi. In neurofisiologia si distingue il dolore nocicettivo da quello neuropatico; si spiegano le differenze sulla base delle proprietà delle quattro classi di nocicettori (termici, meccanici, polimodali e silenti) delle vie costituite da fibre a conduzione veloce o lenta, delle componenti periferiche e centrali di elaborazione.

Nell’elaborazione centrale del dolore, gli aspetti qualitativi che caratterizzano la tipologia, sono strettamente collegati con la qualità emozionale dell’esperienza, come è emerso in numerose ricerche ed è stato evidenziato al XXIV Annual Meeting dell’American Pain  Society (Boston, 30 marzo – 2 aprile 2005). Ad esempio, parte dei sistemi che mediano la paura e lo stress sono operanti nel dolore cronico e, dalla combinazione a vari gradi di attivazione di questi ed altri sistemi, derivano alcuni tratti distintivi della sofferenza esperita.

Eppure, si è fatta strada nella ricerca l’opinione secondo cui tutti i tipi di dolore siano mediati da un set fisso di strutture cerebrali o neuromatrix. Spesso i sostenitori di questa visione hanno anche un approccio “localizzazionista” alla neurofisiologia cerebrale, che li porta ad identificare, in questo insieme fisso, delle aree specifiche corrispondenti a sotto-componenti definite su base intuitiva.

Contro questa modo di concepire la neurofisiologia del dolore, e la neurofisiologia in generale, depongono anche i risultati della ricerca condotta mediante la metodica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) da Henderson, Bandler, Gandevia e Macefield, i quali affermano che, nel loro studio, sorprendenti differenze regionali nei patterns di attivazione cerebrale sono state la regola (Distinct forebrain activity patterns during deep versus superficial pain. Pain 120 (3), 286-296, 2006).

Differenze di segnale sono state rilevate nelle regioni implicate nelle emozioni (corteccia del giro del cingolo nel tratto perigenicolato) nella localizzazione e valutazione dell’intensità degli stimoli (corteccia somatosensoriale) e nel controllo motorio (area motoria del cingolo e corteccia motoria cingolata). Molte delle differenze rilevate alla fMRI corrispondevano alle differenze nell’intensità del dolore percepita dai soggetti.

I risultati emergenti dalle immagini funzionali hanno permesso agli autori di concludere che patterns diversi di attività in distinti gruppi di strutture cerebrali sono evocati dal dolore originato in diversi tessuti del corpo. Inoltre, è possibile sostenere che questi diversi schemi funzionali siano alla base delle peculiarità nella percezione algica e nella tipologia di correlati emozionali che distinguono le forme del dolore superficiale da quelle del dolore profondo.

A questa visione della fisiologia del dolore, concepita come uno spettro di patterns, ciascuno dei quali è costituito da una rete che conferisce specificità, si contrappone l’idea che una struttura “importante” nella mediazione delle sensazioni dolorose possa rappresentare una sorta di “centro del dolore” da inibire mediante un training (Note e Notizie 11-02-06 Controllo del dolore in tempo reale).

Innanzitutto, per valutare meglio la significatività dei dati proposti nel lavoro recensito da Ludovica Poggi, l’aumento o la riduzione del dolore che si accompagna ad aumento o riduzione nell’attività di quell’area, dovrebbe essere confrontato con le corrispondenti variazioni in tutte le altre strutture implicate nell’elaborazione degli stimoli nocicettivi e con quelle parti dell’encefalo che sono attive indipendentemente dalla percezione algica. In secondo luogo, le procedure di controllo con le quali è stata confrontata la metodica sono assolutamente insufficienti per un riscontro; ritengo, infatti, sarebbe stato più opportuno confrontarla, ad esempio, con metodi ipnotici o simil-ipnotici autosuggestivi di collaudata efficacia, che operano indebolendo il rapporto corteccia-strutture sottocorticali nella componente bottom-up e, pertanto, isolando i circuiti più profondi che veicolano le segnalazioni dolorose, ne prevengono la generalizzazione che si opererebbe in seno alla corteccia. In assenza del disturbo dato dalla disruption emozionale, il controllo inibitorio corticale tonico di base può prevalere.

La possibilità che questo training per un controllo real-time, non sia altro che una variante più trendy -per l’impiego del feed-back fMRI- e non necessariamente più efficace di queste metodiche, è tutta da accertare.

 

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella per le integrazioni e i suggerimenti e Isabella Floriani per la correzione della bozza.

 

Nicole Cardon

BM&L-Febbraio 2006

www.brainmindlife.org