NUOVI DATI E NUOVI SVILUPPI PER LA MALATTIA DI PARKINSON

 

 

Le formazioni grigie del corpo striato (putamen e caudato) integrano le afferenze talamiche e corticali, costituendo la struttura di input dei nuclei della base encefalica. I neuroni dello striato proiettano alla sostanza nera (Substantia nigra di Soemmering) nella sua parte reticolata, costituendo la via diretta, ed al nucleo pallido (Globus pallidus) formando la cosiddetta via indiretta. Squilibri nell’attività neurale di queste due vie sembrano essere alla base delle distonie funzionali conseguenti alla perdita di neuroni dopaminergici nella malattia di Parkinson, ed è stato proposto che un simile squilibrio sia all’origine dei disturbi motori della malattia di Huntington.

Kreitzer e Malenka hanno condotto uno studio dettagliato delle proprietà molecolari ed elettrofisiologiche delle due vie di connessione del corpo striato per cercare di determinare i fattori decisivi nello sviluppo della sintomatologia (Endocannabinoid-mediated rescue of striatal LTD and motor deficits in Parkinson’s disease. Nature 445 (7158): 643-647, 2007).

Lo studio, veramente interessante e ben condotto, merita di essere letto e studiato, perché accresce la nostra conoscenza sulle proprietà delle due vie di proiezione striatali e ci permette di comprendere in che modo il deficit dopaminergico causi la rottura dell’equilibrio fisiologico.

I risultati di questa ricerca ci consentono di concludere che una terapia ideale dovrebbe innalzare i livelli di endocannabinoidi e di dopamina in corrispondenza delle sinapsi della via indiretta.

Questo lavoro e l’altro di cui tratta Roberto Colonna (Note e Notizie 24-03-07 Primi markers della malattia di Parkinson) mi sollecitano una breve discussione.

Si è diffusa la tendenza, soprattutto fra i neurologi americani, ad includere nella categoria nosografica della malattia di Parkinson tutte le sindromi cliniche che si presentano con il tipico tremore a riposo, associato ad ipocinesia, rigidità cerea, rallentamento, perdita della fluidità e postura inclinata, sulla base dell’elemento patogenetico comune, consistente nella degenerazione della componente dopaminergica nigro-striatale, al quale fa ovvio riscontro l’identità terapeutica.

Questo atteggiamento clinico è stato probabilmente influenzato da un più generale orientamento culturale che ha portato alla costituzione di campi unificati per la ricerca, con numerosi vantaggi sia per la cooperazione fra studiosi sia, soprattutto, per il finanziamento.

La creazione di categorie semplici (il cancro, la leucemia, il diabete, ecc.) che includono decine o centinaia di malattie diverse, ha migliorato l’efficacia comunicativa ed operativa nell’ambito delle istituzioni bio-mediche, ma soprattutto nel rapporto mediatico con le fonti di finanziamento (si pensi al “Telethon” americano importato in Italia da membri della famiglia Agnelli in seguito alla malattia di un loro congiunto). Certamente, in tutto il mondo, anche l’attività delle associazioni che si occupano di malattie neuromotorie degenerative, è stata facilitata, in chiave comunicativa, dalla schematica ripartizione in poche categorie. Basti pensare in proposito ai finanziamenti che sono stati raccolti per la malattia di Parkinson ed hanno consentito anche lavori sulla malattia di Huntigton, su processi degenerativi del nucleo subtalamico, della via olivo-ponto-cerebellare, ecc.

Si deve, tuttavia, aver presente che i risultati della ricerca conducono nella direzione opposta, ossia quella della scomposizione analitica in tante entità diverse. Se si è superata la vecchia dicotomia fra “Morbo di Parkinson” ad eziologia idiopatica e “Parkinsonismi Post-Encefalitici” intesi come sindromi secondarie a patologia infettiva o tossica, adottata in clinica fino a qualche decennio fa, oggi si va incontro ad una ridefinizione nosografica che tiene conto in primo luogo dei risultati della ricerca genetica, in base ai quali è possibile riconoscere forme diverse per modalità di trasmissione, epoca di insorgenza e caratteristiche del decorso.

Una domanda frequentemente posta dai clinici al riguardo è la seguente: “Oltre alla realizzazione di screening profilattici per evitare la trasmissione, quale effettiva utilità si può avere in clinica dall’adozione di una classificazione su base genetica, considerato che la terapia genica è ancora una possibilità remota?”

La domanda non è peregrina e, per ora, si può senz’altro dire che il miglior supporto alla clinica non viene da buone classificazioni, ma dalla ricerca sui processi fisiopatologici che, come quella di Kreitzer e Malenka, può fornire nuove prospettive terapeutiche a varie condizioni patologiche che implicano la degenerazione delle connessioni del corpo striato.  

 

Giovanni Rossi

BM&L-Marzo 2007

www.brainmindlife.org