RIFLESSIONI CRITICHE SUL CODICE DELLA MEMORIA

 

 

La profonda stima che nutro per Joe Z. Tsien e l’apprezzamento che esprimo per i risultati del suo lavoro, non mi impediscono di riflettere in chiave critica su alcuni aspetti delle ricerche e delle interpretazioni del suo gruppo (Note e Notizie 13-10-07 Il codice della memoria). Voglio qui proporre qualche considerazione sul valore generale dei risultati degli esperimenti e sulla natura del codice che i collaboratori del fondatore dello Shanghai Institute of Brain Functional Genomics stanno decifrando.

I primi dubbi circa quanto siano generalizzabili i risultati vengono dai paradigmi sperimentali prevalentemente impiegati. I dati per definire il codice sono stati ottenuti registrando contemporaneamente 260 neuroni dell’area CA1 dell’ippocampo con questi tre tipi di procedura basati sullo startling e sull’allarme:

 

GETTO D’ARIA. Il topino è improvvisamente investito dal retro –in modo che non possa avvedersene- da una pressione aerea che lo induce a sobbalzare.

 

ASCENSORE CHE PRECIPITA. L’animale di laboratorio è posto in un contenitore che viene improvvisamente lasciato andare in caduta libera.

 

TERREMOTO. La gabbia viene scossa in modo che il roditore sperimenti la perdita di stabilità al suolo, come accade nei movimenti tellurici.

 

E’ noto che questi paradigmi sperimentali sono molto efficaci nel produrre risultati, perché la successione degli effetti nell’animale di laboratorio (impressione - conservazione della traccia - modifica del comportamento) si sviluppa in breve tempo e pressoché costantemente, tuttavia si tratta di un caso speciale di formazione della memoria, molto diverso da quello basato sulla percezione, l’elaborazione concettuale e la ripetizione che caratterizza la memoria semantica, ovvero la forma più importante di apprendimento nella realtà umana. Diversi sono i sistemi neuronici principalmente responsabili della mediazione, diverso è il loro modo di funzionare.

Si pensi ai processi cognitivi che si attivano nella lettura di queste righe: è necessario impiegare memorie di significati che vanno da quelli banali della parole più comuni della nostra lingua, a quelli relativi al senso delle locuzioni dalle quali dipende la comprensione del mio pensiero su questo argomento. Pertanto, mi riesce difficile pensare ad una codificazione di questi processi identica a quella necessaria ad associare una risposta motoria ad un evento che genera allarme.

Mi piace riferirmi ad un ammonimento alla prudenza del nostro presidente che, citando Wittgenstein nella celebre formulazione “concetto è un concetto vago”, ci ricorda che il significato di questa parola è profondamente legato all’esperienza cognitiva umana, elaborata in secoli di cultura trasmessa mediante l’istruzione basata sull’acquisizione dei codici linguistici e numerici. In questo senso, ciò che è mentalmente concepito (concetto, appunto) non è qualunque cosa appartenga all’ordine del pensabile, ma è connotato da un’astrazione basata a sua volta su strumenti interpretativi della realtà. Una tale natura distingue il concetto da un generico contenuto mentale che consente, ad esempio, il riconoscimento percettivo: in questo senso la memoria biologica che permette di distinguere il rosso dal blu non è una memoria concettuale. Se vogliamo adottare l’espressione “concetto di colore” per indicare il contenuto mentale latente rievocato ad ogni percezione cromatica, dobbiamo ricordare di aver compiuto un’operazione arbitraria di semplificazione, mettendo sullo stesso piano processi in larga parte geneticamente determinati e simili nelle varie specie di mammiferi, e processi in larga misura dipendenti dall’esercizio cognitivo individuale nel contesto culturale umano. La base neurobiologica di un “concetto”, inteso nel significato più elementare che ci viene proposto con l’educazione familiare fin da quando siamo bambini, e generalmente adottato nelle scuole di istruzione primaria, ha una sua specificità neocorticale che sarebbe imperdonabile ignorare. Alla base della peculiarità di un concetto umano, rispetto a forme di memoria associativa filogeneticamente remote, vi è un’architettura funzionale ancora in gran parte da definire, ma strettamente connessa con la profonda differenza che esiste fra la neurobiologia del nostro cervello e quella degli altri mammiferi.

Dunque, se solo ci si ferma al pensiero concettuale, senza avventurarsi nelle qualità sentimentali, estetiche ed ideali che caratterizzano la nostra vita mentale, ci si rende conto che difficilmente possono essere messe sullo stesso piano della codificazione di una risposta motoria automatica e condizionata dalla paura, generata in topi di laboratorio. Riesce perciò difficile pensare, come Joe Z. Tsien, che la definizione delle regole fisse che consentono a taluni gruppi di neuroni di influenzare l’attività di altri in modo prevedibile e riproducibile, sarà sufficiente per leggere il pensiero altrui.

Come sostiene il nostro presidente, confortato dai modelli elaborati da Gerald Edelman sulla base di decenni di sperimentazione, le interazioni fondate sullo scambio reciproco di segnali fra aree vicine e distanti (rientro) e i processi di redistribuzione globale dei segnali, creano virtualmente livelli più elevati (o semplicemente diversi) di funzione, che spiegano le sintesi astratte tipiche delle attività psichiche umane. Frammentando queste funzioni in parti arbitrarie, si rinvengono i meccanismi neurobiologici elementari comuni a tutti i processi cerebrali, ma si rischia di perdere la struttura di queste specifiche funzioni.

E’ possibile che il codice che si va decifrando all’Università di Boston, sia più vicino ad un alfabeto che a delle frasi di senso o, anche, ad una sorta di linguaggio-macchina ancora lontano dai programmi che esprimono il contenuto mentale e della coscienza. In questo caso, la strada per “leggere la mente mediante la macchina” sarebbe ancora lunga.

 

Le idee qui espresse derivano dalla lunga collaborazione con il presidente della nostra società scientifica. Si ringrazia L. L. Borgia per la resa del testo in un italiano corretto.

 

Nicole Cardon

BM&L-Ottobre 2007

www.brainmindlife.org