IL CERVELLO DEGLI ADOLESCENTI: UNA RIFLESSIONE CRITICA

 

 

Quasi non credevo ai miei occhi la scorsa settimana quando, leggendo la nota relativa agli ultimi studi sul cervello degli adolescenti, mi sono imbattuta nella frase: “una creatura interamente diversa da un adulto”. Le parole non venivano da un antico manoscritto di un amanuense eremita, né da una battuta di un copione di un film di fantascienza, ma dalle righe di Nature, la più prestigiosa rivista scientifica al mondo (Note e Notizie 07-10-06 Immagini funzionali del cervello degli adolescenti).

Il motivo immediato per cui gli autori di questi studi, invece di occuparsi di spiegarci il come biologico di una nota realtà umana, ritengono di poterci dire chi sia l’adolescente, lo ritroviamo nelle stesse parole di Nicole Cardon e Giuseppe Perrella: “E’ lecito chiedersi: perché questa differenza non può semplicemente essere considerata la base biologica della naturale immaturità di chi cresce, a tutti nota e caratterizzata da millenni in ogni cultura? La risposta è tanto semplice quanto impietosa: perché in tal caso le ricerche condotte mediante fMRI non avrebbero scoperto nulla.” (Note e Notizie 07-10-06 Immagini funzionali del cervello degli adolescenti).

Se questo è il motivo che spinge i ricercatori a sbilanciarsi tanto, perdendo stile e metodo pur di far sensazione, sono portata a chiedermi come ciò sia possibile. In altre parole, mi pongo domande sull’ambiente culturale, tanto omogeneo ad una tale impostazione da accettarla e legittimarla, in cui si è sviluppata una simile deriva.

Un tentativo di analisi per cercare delle risposte ai tanti dubbi e quesiti che si vanno affacciando alla mia mente, richiederebbe senz’altro un tempo di cui non dispongo e delle competenze che non possiedo, sicché mi limiterò a qualche considerazione estemporanea, rimandando ad eventuali occasioni di confronto e dibattito ogni ulteriore approfondimento.

L’adolescente è stato considerato come un “essere a sé stante”, probabilmente non solo e non tanto per quel tipo di deformazione professionale che porta a ritenere ciò di cui ci si occupa con impegno e passione, qualcosa di unico e perciò implicitamente distinto e distante da tutto il resto, ma probabilmente per effetto di una differente influenza.

Una bias, frequente nelle società americane contemporanee, consiste nell’impiego ontologico di stereotipi nati per caratterizzare gruppi di persone per esigenze economiche, politiche o sociologiche. Nel corso di più di mezzo secolo è accaduto che etichette di comodo per classificazioni mediatiche o pragmatiche di gruppi rappresentanti interessi, esigenze o peculiarità sociali, siano progressivamente divenute, nell’uso comune e nella coscienza collettiva, categorie di interpretazione tout court, impiegate in ogni circostanza, come se non avessero un puro valore euristico, ma esprimessero il senso più proprio e profondo della realtà denotata. E’ mia esperienza che l’impiego di tali cliché nei rapporti affettivi, alla stregua di preconcetti e pregiudizi, finisca per ostacolare la semplice e diretta conoscenza, determinando un aumento della distanza nella relazione ed una diminuzione dell’entità dello scambio realmente significativo.

Una tale deriva -facilitata dal prevalere nell’istruzione, nella comunicazione e nella cultura, di principi e criteri ispirati a regole dominanti in campo politico, giuridico ed economico, piuttosto che alla logica della conoscenza- è messa bene in evidenza da un esempio cinematografico.

Nella commedia brillante hollywoodiana degli anni Cinquanta, la scena di un genitore intento a leggere le pagine di una rivista o di un libro per sapere “chi realmente fosse” il suo figliolo impegnato a giocare o a studiare nella stanza accanto, aveva sicuro intento parodistico, e l’efficacia del suo effetto comico si basava sull’intesa che il regista aveva gioco facile a stabilire con il pubblico, proponendo la paradossale plausibilità di un tale comportamento in quella nuova società tecnologica di massa, sempre alle prese con i libretti delle istruzioni dell’ultima novità in fatto di aggeggi, strumenti ed elettrodomestici. Una satira di costume all’acqua di rose, che faceva leva sul comune disagio per un know-how che prendeva sempre più il sopravvento su quel constructive-knowledge, appreso a scuola e in famiglia, mediante il quale sembrava possibile dominare la realtà circostante con la pratica del buon senso e del senso comune. In una tale gag era implicito l’assurdo. Lo spaesamento del povero “uomo-medio”, di fronte ad un mondo di oggetti sempre nuovi, era divenuto stato mentale, estendendosi per sbaglio al mondo delle relazioni umane.

Oggi, per una tale scena, in un film o nella realtà, non si ride più: si è perso il senso di quell’assurdo.

In una società sempre più superficiale, che ciarla e comunica molto più di quanto pensi e capisca, il parlare per slogan di quarant’anni fa si è ipostatizzato in un pensare per stereotipi.

Lo stereotipo è la confezione in oggetto di scambio, ideale per il riconoscimento, di qualsiasi realtà. E’ una scatola chiusa che spesso trattiamo come una black box: una scatola nera dentro cui possono leggere solo degli specialisti.

Ma specialisti di cosa? Di cosa non importa, l’importante è che non siamo noi.

Il capire è sempre delegato ad altri, in una fuga metonimica di competenze. I competenti sono gli insegnanti, i pedagoghi, gli psicologi, i medici, gli scienziati, e così via. Conosco una madre scimpanzé che ha impiegato l’istinto per acquisire un suo sapere naturale sulla prole, che oggi le consente di modulare il comportamento con i suoi figlioli adolescenti sulla base delle caratteristiche del singolo. Lei non delega nessuno.

Nel nostro Paese siamo giunti all’esperienza tragicomica di uno psichiatra da salotto televisivo che scrive un libro, accolto come un avvenimento, per dire ai genitori che devono ascoltare i propri figli. Se riuscissi a spiegare questa cosa alla madre scimpanzé, nel suo linguaggio di gesti, sono certa che si farebbe le più matte risate.

L’adolescente sono io a quindici anni, le mie coetanee e i miei coetanei. Non dovrebbe essere tanto difficile ripartire da questo punto, nemmeno per la dottoressa Casey e chi altro con lei ritiene l’adolescente “an entirely different creature”. Se poi proprio non dovessero farcela, mi incaricherei personalmente di presentare loro la mia amica scimpanzé.

Mi piace concludere queste riflessioni con le parole che Giuseppe Perrella ha pronunciato al termine dell’incontro del 27 aprile del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere (“Arianna e Penelope: l’equilibrio fra procedere e resistere”):

“L’adolescente, più del bambino, è uno specchio limpido che riflette con intensità quelle parti di mondo che gli sono entrate dentro, perciò se noi sapremo, almeno un poco, conferire ragione a questo mondo, o se riusciremo a trasmettere, per lo meno a coloro che incontriamo, un piccolo mondo di ragione, avremo ancora adolescenti come Telemaco, Arianna e Teseo; ossia giovani la cui energia non si dissipi in passioni passeggere, ma nutra il desiderio di vita nell’esperienza del percorso e del progetto, della scoperta e della costruzione, consentendo alla speranza di prendere forma attraverso la pazienza della comprensione e la fatica della conoscenza.”

 

Monica Lanfredini

BM&L-Ottobre 2006

www.brainmindlife.org