LA BULIMIA NON E’ UNA TOSSICODIPENDENZA

 

 

Si è diffusa in anni recenti la tendenza nella pubblicistica scientifica ad equiparare la bulimia alle tossicodipendenze, soprattutto dopo l’identificazione di una presunta base fisiopatologica comune. In alcune trattazioni si è giunti perfino ad assimilare l’obesità da qualunque causa alle conseguenze patologiche della dipendenza dall’assunzione di sostanze psicotrope d’abuso. La recente pubblicazione su questo argomento di un articolo dello psichiatra tedesco Oliver Grimm, è una buona occasione per esaminare, sia pur sinteticamente, i motivi che hanno portato a questa erronea equiparazione (Oliver Grimm, Addicted to Food? Sci. Am. MIND 18 (2), 36-39, 2007).

Nel 1994 Jeffrey Friedman e colleghi della Rockfeller University scoprirono che il tessuto adiposo può agire a feed-back sulla fame, bloccando il desiderio di assumere cibo in eccesso. Gli adipociti, infatti, secernono una proteina (battezzata da Friedman leptina, dal greco leptos = snello, sottile) che attraverso il torrente circolatorio raggiunge l’ipotalamo dove interrompe l’attività dei neuroni che generano la sensazione di fame. I topi esprimenti mutanti non funzionanti del gene della leptina diventano rapidamente obesi.

Animali di laboratorio resi dipendenti da eroina soffrivano una crisi di astinenza più grave se tenuti a digiuno e, quindi, con bassi tassi di leptina. Questa osservazione ha portato a seguire la pista di un intervento di questo ormone della sazietà nelle tossicodipendenze.

Un commento critico alla logica sottesa da questo modo di procedere ci porterebbe troppo lontano, in questa sede ci limitiamo a sottolineare, ancora una volta, che non esistono molecole-funzione, per cui un singolo ormone o neurotrasmettitore non può considerarsi molecola del sonno, molecola dell’aggressività, molecola della fame, e così via; accade piuttosto che un singola molecola sia mediatrice in vari circuiti e vie deputate a funzioni diverse, e che, per converso, sistemi fisiologici diversi con svariati mediatori e modulatori concorrano alla stessa funzione. In proposito ricordiamo che la leptina, molecola appartenente alla famiglia delle citochine ad elica in grado di influenzare la risposta immune ed autoimmune, in recenti studi ha mostrato proprietà antidepressive, e si può essere facili profeti nel prevedere che future ricerche ne riscontreranno la partecipazione ad altre funzioni (Note e Notizie 04-03-06 La leptina come nuovo antidepressivo).

Il collegamento più importante e noto fra bulimia e tossicodipendenza è dato da una comune attivazione anomala del sistema a ricompensa troncoencefalico e, in particolare, delle vie dopaminergiche e dei sistemi che fanno capo al nucleo accumbens. I lavori pubblicati al riguardo sono numerosissimi da molti anni, ma in questa sede ci limitiamo a citare lo studio che ha proposto un’alterazione dei sistemi della dopamina come elemento comune alla condizione di obesità e a quella di dipendenza da sostanze d’abuso.

Nel 2001 Gene-Jack Wang e Nora Volkov confermarono un rapporto fra l’attività dopaminergica e la massa corporea (body mass index o BMI): maggiore era il BMI, minore era la quantità di recettori per la dopamina. I ricercatori conclusero che le persone obese, come i tossicodipendenti, soffrono di una carenza di effetti della dopamina che li porta ad una ricerca spasmodica di ricompense sotto forma di cibo.

I rilievi critici sono facili ed intuitivi anche in questo caso. Perché meravigliarsi che partecipi in entrambi i casi un’alterazione del sistema a ricompensa? Perché ritenerla una prova che “il cibo è una droga”? Il bisogno di assunzione della sostanza psicotropa sfrutta un sistema già esistente per il bisogno di cibo, la cui alterazione nel comportamento di iperalimentazione psicogena può considerarsi un antecedente naturale dell’addiction da eroina e reinforcing drugs. Sarebbe stato strano e straordinario che si fosse creato un circuito neuronico ad hoc per le droghe. Questi rilevi non dimostrano che il cibo è una droga, non fosse altro che per le banali differenze di biochimica metabolica e di tossicologia. Fra le quali, basti solo pensare che l’azione principale del cibo è nutritiva e non psicotropa recettoriale, che i cibi non agiscono come tossici in senso farmacologico, ossia composti con un range ristretto fra dose efficace e dose letale (DL50/DE50), non provocano una escalation di abitudine (necessità di aumentare la dose per ottenere lo stesso effetto) paragonabile a quella dei derivati morfinici e delle reinforcing drugs in generale, ecc. Soprattutto, si deve notare che non è l’azione recettoriale di un composto contenuto nel cibo a modificare il funzionamento dei sistemi encefalici che mediano il piacere e il desiderio, come accade con le sostanze d’abuso. E non è superfluo ricordare che una turba stabile del piacere e del desiderio deve già considerarsi disturbo psichico, perché queste due facoltà sono parti in equilibrio funzionale con altre che costituiscono funzioni globali (Giuseppe Perrella, Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, BM&L-Italia, maggio 2007).

Le Bar e colleghi (2001) hanno rilevato, nelle persone che hanno fame, un’attività notevole nei sistemi dell’amigdala appena si mostra loro del cibo; tale attività scompare con la sazietà. Clinton Kilts e collaboratori hanno riscontrato reperti simili mostrando cocaina a soggetti dipendenti. La similitudine fra i risultati dei gruppi di Le Bar e Kilts, ha portato alcuni ad affermare che l’attivazione dei neuroni dell’amigdala è una prova ulteriore che gli alimenti e le sostanze psicotrope innescano gli stessi processi cerebrali.

Non si tratta, invece, di un altro sostrato neurale comune fra la dipendenza da droghe e quella da cibo, ma del rilievo di un effetto che altri dati sperimentali hanno dimostrato essere aspecifico: quando l’amigdala rileva qualcosa di importante per la sopravvivenza dell’organismo e della specie, genera un segnale interno di allerta, sia che si tratti di una minaccia come un animale feroce, sia che si tratti di qualcosa di desiderabile come un cibo appetitoso o un partner attraente. Anche questo rilievo non dimostrerebbe altro che le sostanze d’abuso inducono l’attivazione anomala di meccanismi fisiologicamente presenti nell’organismo.

La corteccia dell’area orbito-frontale (OFC), da alcuni considerata un centro di controllo del comportamento umano, interviene in molti processi psichici e, recentemente, numerosi lavori ne hanno riscontrato la partecipazione alle attività cerebrali connesse con la dipendenza. Alcuni anni fa, Dana M. Small ha dimostrato che l’OFC elabora piacere ed avversione legate al cibo (2001). Anche questi rilievi sono stati interpretati e presentati come “prove” ulteriori di una elaborazione comune della dipendenza da molecole psicotrope e della compulsione alimentare. E’ noto, invece, che il danno traumatico o patologico della OFC causa un’incapacità di autocontrollo generale, con una generica tendenza ad agire impulsivamente e, in questo quadro, a cedere alle spinte di un bisogno dipendente.

In conclusione si può dire che il compito dello studioso è quello di contribuire al progresso delle conoscenze e, a tale scopo, si potrà adoperare l’analisi o la sintesi, perciò scomponendo o assimilando a seconda delle necessità, ma una cosa si dovrà sempre temere ed evitare: la confusione.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Luglio 2007

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