ALZHEIMER, LO STATO DELL’ARTE IN UN INCONTRO DI BM&L

 

 

La mole straordinaria di dati prodotti negli ultimi dieci anni dalla ricerca sulla malattia di Alzheimer, costituisce un notevole contributo alla conoscenza della biologia e della patologia del sistema nervoso centrale. Tuttavia, i tanto attesi passi decisivi verso la guarigione da questo immane flagello non sono stati ancora compiuti e l’aggiornamento circa i principali argomenti oggetto di indagine fa registrare solo poche novità sostanziali rispetto alla review redatta dal nostro presidente, Giuseppe Perrella (si veda: La Malattia di Alzheimer. Un’introduzione. BM&L Edition 2004).

In campo terapeutico, sebbene le prospettive siano ancora quelle delineate da Michael S. Wolfe nella sua ottima rassegna di circa quattro anni fa (Michael S. Wolfe, Therapeutic Strategies for Alzheimer’s Disease. Nature Reviews Drug Discovery 1, 859-866, 2002), lo stato di avanzamento della sperimentazione terapeutica vede alcuni farmaci prossimi al completamento dell’iter, nuove molecole in fase iniziale di sperimentazione e qualche cambiamento di orientamento, come si può leggere in un articolo a carattere generale e divulgativo, dello stesso Wolfe, pubblicato nello scorso mese di maggio su Scientific American (Michael S. Wolfe, Shutting down Alzheimer’s. Sci. Am. 294 (5): 60-67, 2006).

Riportiamo qui di seguito alcuni dei dati salienti proposti all’attenzione dei partecipanti all’incontro di aggiornamento dello scorso giovedì, 8 giugno 2006, dal gruppo strutturale di BM&L-Italia sulle malattie neurodegenerative.

E’ noto che, fin dalla prima descrizione di Alois Alzheimer, i due contrassegni della malattia sono le placche senili e gli aggregati fibrillari. Le prime, dette più propriamente placche amiloidi, sono costituite da assoni e dendriti degeneranti, spesso circondati da microglia, intorno a un “core” di accumulo del peptide β-amiloide, che forma una sostanza vischiosa che tende ad aumentare di consistenza nel tempo. I secondi rappresentano una degenerazione neurofibrillare intracellulare e sono costituiti da ammassi di neurofilamenti avvolti a spirale, contorti ed aggregati a seguito della perdita della configurazione fisiologica per l’iper-fosforilazione della proteina tau.

La contrapposizione su quale fosse il primum movens della malattia, l’accumulo di amiloide extracellulare o la degenerazione neurofibrillare intracellulare, ha creato due campi distinti di studio, che sono rimasti separati per decenni, perché espressione di due teorie apparentemente inconciliabili: la prima attribuiva il ruolo causale ad una cascata di eventi originati dal peptide beta amiloide (Beta-Amyloid-Plaques o BAP, per cui i suoi sostenitori erano chiamati BAP-tists), la seconda alle alterazioni dovute alla iperfosforilazione della proteina tau (i sostenitori erano perciò detti Tau-ists).

Attualmente la “cascata amiloide” è considerata più che una semplice ipotesi, e il processo innescato dal peptide (βA) isolato da Glenner e Wong, lungo 42-43 aminoacidi e in grado di assemblarsi in strutture filamentose come dimostrato da Lansbury, è stato collegato con l’alterazione neurofibrillare intracellulare. In particolare, gli aggregati βA extracellulari attivano una successione di eventi che porta le chinasi intracellulari a fosforilare in eccesso la proteina tau, con conseguente cambiamento delle sue proprietà chimiche ed avvio dello scompaginamento delle strutture neurofibrillari.

La dimostrazione di questo collegamento fra i due complessi di alterazioni patologiche principali, ulteriormente supporta l’idea di un’efficacia curativa e preventiva di farmaci in grado di bloccare la formazione di βA.

Il processo che dal precursore APP (amyloid-beta precursor protein) virtualmente in tutte le cellule porta alla formazione dei peptidi β-amiloidi (39-43 residui aminoacidici), i più lunghi dei quali (βA) tendono maggiormente ad aggregarsi, si è rivelato parte di una via di segnalazione. Le tappe fondamentali per la sintesi di βA sono catalizzate da due enzimi: β-secretasi e γ-secretasi.

La β-secretasi, individuata nel 1999 da cinque diversi gruppi di ricerca, appartiene alla famiglia delle aspartil-proteasi, enzimi che impiegano per la propria azione due residui di acido aspartico ed acqua. A questo subset di proteasi appartiene anche l’enzima implicato nella replicazione del virus HIV che causa l’AIDS. Gli inibitori della β-secretasi noti non sono adatti alla sperimentazione clinica, infatti le molecole fino ad oggi valutate non erano tanto piccole da attraversare efficacemente la barriera emato-encefalica.

La γ-secretasi è considerata l’enzima capostipite di una nuova classe di proteasi che trattengono acqua nella membrana cellulare per svolgere l’azione enzimatica. I geni presenilina 1 e 2, identificati dal gruppo di Peter St. George-Hyslop come responsabili di gravi forme della malattia ad insorgenza precoce, codificano per un costituente della γ-secretasi.

Gli inibitori di questo enzima sono piccole molecole in grado di attraversare agevolmente la barriera emato-encefalica, tuttavia nella maggior parte dei casi non sono impiegabili a scopo terapeutico per gli effetti dannosi che produrrebbero. Infatti, l’inibizione della γ-secretasi blocca la sua azione sul recettore Notch, una proteina di superficie che genera un frammento endocellulare che si dirige verso il nucleo al quale invia un segnale specifico. La via di segnalazione di Notch, oggetto di intensi studi, si sta rivelando di grande importanza nell’arco di tutta la vita del neurone. Da notare che uno di questi inibitori, potenzialmente nocivi per gli effetti di blocco della segnalazione mediata dal recettore Notch, è stato prodotto dalla Eli Lilly ed è giunto alla seconda fase di sperimentazione clinica. In altre parole, la molecola ha superato i tests generici sui volontari (Phase I clinical trials) ed ora ne è stata avviata la sperimentazione in pazienti con malattia di Alzheimer in fase iniziale (Phase II clinical trials).

Più opportunamente si è cercato di individuare molecole che interferiscono con la γ-secretasi non legandosi ai residui di acido aspartico necessari per l’azione su Notch, ma formando un legame con un sito diverso e determinando un cambiamento di conformazione in grado di prevenire la catalisi necessaria per la sintesi di βA.

Altri inibitori della γ-secretasi in sperimentazione, sembrano in grado di spostare la produzione dai frammenti peptidici più amiloidogenici (42-43 residui aminoacidici) a quelli che lo sono di meno (40 residui). Uno di questi farmaci, il Flurizan, è attualmente somministrato ad oltre 1000 pazienti inclusi nella III fase di sperimentazione clinica negli USA.

L’immunizzazione attiva, che aveva fatto tanto sperare per i risultati ottenuti sui modelli murini e per l’iniziale successo della sperimentazione umana, è stata quasi del tutto abbandonata dopo i numerosi casi di encefalite che imposero la sospensione dello studio clinico nel 2002. Secondo uno studio retrospettivo, l’imprevisto sviluppo della grave infiammazione dell’encefalo sarebbe stato innescato da una intensissima risposta dei linfociti T nell’attacco agli aggregati di βA. Alcuni studiosi, fra cui Cynthia Lemere, continuano a percorrere questa via, impiegando solo parti del peptide che sembrano in grado di attivare una risposta delle cellule B senza evocare la pericolosa reazione dei linfociti T. Questi tentativi sono però considerati con prudenza e scetticismo dalla maggior parte dei ricercatori.

L’immunizzazione passiva è invece di grande attualità ed il trattamento in grado di conferirla, realizzato dalla Elan Corporation, è giunto alla II fase di sperimentazione clinica. Gli anticorpi sono prodotti da cellule di topo geneticamente ingegnerizzate per prevenire il rigetto da parte dell’organismo umano, e sembra che non inneschino, da parte delle cellule-T, risposte nocive per l’encefalo. Tuttavia la reale efficacia terapeutica dell’immunizzazione passiva è ancora controversa. Si nota, ad esempio, che l’attraversamento della barriera emato-encefalica da parte degli anticorpi è apparso molto problematico in vari esperimenti e gli effetti dell’immunizzazione passiva riscontrati in alcune ricerche potrebbero essere la conseguenza di un processo indiretto. L’azione degli anticorpi contro i peptidi βA presenti diffusamente nell’organismo ne causerebbe una forte riduzione periferica, che indurrebbe il cervello a mobilizzare dalla placche i suoi peptidi in eccesso inviandoli alla periferia. Se tale è il meccanismo operante, l’immunizzazione passiva agirebbe, in qualche modo, alterando un equilibrio fisiologico.

Gli eparino-inibitori. L’eparina è un eteropolisaccaride a struttura octaciclica che svolge nel sangue la funzione di anticoagulante naturale, ma che è anche in grado di legarsi ai peptidi βA aumentandone criticamente la capacità di aggregarsi e formare depositi di amiloide. Il contrasto dell’azione eparinica sembra avere un buon effetto sulla riduzione delle placche. L’Alzhemed, prodotto dalla Neurochem in Quebec, è una piccola molecola in grado di legarsi su βA agli stessi siti dell’eparina, prevenendone l’effetto aggregante. Alcuni chiamano eparino-mimetico questo farmaco, ma la definizione non è corretta perché, considerando il meccanismo d’azione, si dovrebbe, al più, parlare di inibitore competitivo. L’Alzhemed sembra avere scarsa o nulla tossicità ed è giunto alla III fase di sperimentazione clinica. Per ciò che riguarda l’entità dell’efficacia valgono le riserve espresse per gli anticolesterolemici (v. dopo).

Gli inibitori delle chinasi. Sono stati deludenti, finora, i tentativi di prevenire la distorsione delle strutture neurofibrillari dei neuroni bloccando le chinasi che iper-fosforilano la proteina tau.

I farmaci anticolesterolemici, come la statina Lipitor, sono giunti nella terza fase di sperimentazione e, sebbene abbiano dimostrato una certa efficacia nel ridurre la formazione di depositi amiloidi, il loro meccanismo d’azione è ignoto e l’efficacia sulla malattia di Alzheimer ancora molto dubbia. In generale, si può osservare che il problema fondamentale nel declino cognitivo non è costituito dalla formazione delle placche, ma dalla degenerazione e dalla morte dei neuroni, conseguenza di molti eventi e non solo del formarsi dei depositi di amiloide.

Infine, non si può non menzionare il promettente tentativo di terapia cellulare che Mark Tuszynski dell’Università della California a San Diego ha sperimentato su alcuni volontari in una fase non avanzata della malattia. Dopo aver prelevato cellule dalle biopsie cutanee, vi ha inserito il gene codificante l’NGF; ha poi introdotto queste cellule geneticamente modificate nel proencefalo degli stessi pazienti, con il risultato di un marcato rallentamento del declino cognitivo. Anche se questo studio, per il basso numero dei soggetti trattati e la mancanza di adeguati controlli, non può ritenersi molto significativo, il suo buon esito ha incoraggiato l’avvio di nuovi progetti di terapia cellulare con protocolli più esigenti, che consentono di nutrire qualche speranza per il futuro.

 

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella, la cui relazione all’incontro di aggiornamento dell’8 giugno 2006 ha costituito la base di questo testo, e Isabella Floriani per la correzione della bozza. L’autrice si assume la responsabilità delle opinioni espresse.

 

Nicole Cardon

BM&L-Giugno 2006

www.brainmindlife.org