Nei Maya la cognizione probabilistica rivela la sua origine

 

 

LORENZO L. BORGIA & GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 15 novembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Introducendo l’incontro dedicato alla cognizione probabilistica dei seminari organizzati negli anni Novanta dal Cognitive Science Club, il nostro presidente proponeva una questione attraverso tre immagini: nella prima era riprodotto l’angolo di una via con un segnale stradale indicante la stazione ferroviaria e un cartello turistico indicante una pizzeria, nella seconda e nella terza era riprodotto lo stesso angolo, ma in una mancava l’indicazione della pizzeria, nell’altra il segnale della ferrovia. La situazione era presentata nel modo seguente: “La prima immagine riproduce un vostro ricordo di una città dalla quale mancate da un po’ di tempo; le altre due immagini raffigurano due possibili scene che si presentano al vostro ritorno in quel luogo, e a proposito delle quali dovete dire cosa pensereste”. All’apparire dell’immagine in cui mancava il cartello indicante la pizzeria, l’uditorio rispondeva in coro: “La pizzeria non c’è più!”; all’apparire dell’immagine in cui mancava il segnale della stazione, l’uditorio esclamava: “Il segnale non c’è più!”.

Questo genere di considerazioni è così spontaneo e immediato che non facciamo caso al sottostante processo automatico di valutazione della probabilità compiuto dal nostro cervello per noi. Tutti, nel vedere che era stata tolta l’indicazione della pizzeria, hanno pensato che il locale poteva essere stato chiuso o trasferito: evento, in generale, abbastanza probabile; nessuno invece ha pensato che in quel lasso di tempo la città avesse perso la stazione ferroviaria!

La cognizione probabilistica è un’area di crescente interesse nell’ambito delle scienze cognitive, che potrà fornire importanti indicazioni sui processi alla base delle funzioni mentali di più alto grado di complessità e di astrazione.

L’abilità di fare corrette valutazioni probabilistiche costituisce uno dei segni distintivi principali della razionalità umana, per questo determinarne l’esatta natura rappresenta un obiettivo di primaria importanza per la comprensione del fondamento cerebrale della ragione e della logica. La prima questione da chiarire è se la capacità di valutare e ragionare secondo probabilità si basa su processi che sono patrimonio della specie, built-in nel nostro cervello, o se dipende da apprendimenti culturali, magari legati all’istruzione scolastica o a memorie di esperienze acquisite nel corso della vita. Laura Fontanari, Michel Gonzalez, Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto[1] hanno affrontato questa questione sottoponendo una serie di problemi di natura probabilistica ad adulti non alfabetizzati e privi anche di istruzione all’uso dei numeri (preliterate e prenumerate) provenienti da due gruppi diversi di etnia maya. Lo scopo era quello di valutare le prestazioni di persone che, in quanto prive di una formazione scolastica, si ritiene che possano contare prevalentemente se non esclusivamente su abilità innate. Gli indigeni guatemaltechi adulti sono stati messi a confronto con scolari maya in età evolutiva e con un gruppo di controllo costituito da persone di cultura occidentale con una ordinaria istruzione scolastica.

Il risultato depone a favore di un’abilità posseduta a prescindere dall’istruzione (Fontanari L., et al. Probabilistic cognition in two indigenous Mayan groups. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1410583111, 2014).

La provenienza degli autori è la seguente: Laboratory of Cognitive Psychology, CNRS and Aix-Marseille University, Marseille (Francia); Center for Experimental Research in Management and Economics, DCP, University IUAV of Venice, Venezia (Italia); Center for Mind/Brain Sciences, University of Trento, Rovereto (Italia).

La scelta di questo tipo di volontari per studiare la cognizione probabilistica è quanto mai opportuna, ma non deve indurre il lettore non specialista ad equiparare un tale studio all’esame di menti “naturali”, ossia del tutto prive di apprendimenti cognitivi originati da esperienze culturali, sia pure derivanti da trasmissione orale.

Qualche dato sui Maya ci può aiutare a comprendere la differenza con quelle tribù animiste di regioni quasi inesplorate dell’Africa, rimaste in condizioni simili a quelle di epoca preistorica e fino a qualche decennio fa studiate dagli antropologi come modello di vita primitiva e naturale.

 

I Maya, al di là delle descrizioni favolose e romanzate comprensibilmente ispirate dal fascino di questa antica civiltà, rappresentano una popolazione autoctona dell’America Centrale, a lungo caratterizzata da tradizioni contadine e, verso la fine del XX secolo, prevalentemente di religione cristiana cattolica. Si descrivono tre ceppi principali: Maya propriamente detti, dello Yucatàn e del Chiapas (Messico), Quiché del Guatemala e Huaxtec dello stato di Vera Cruz (Messico). Si ritiene discendano tutti da un popolo della cui civiltà restano imponenti rovine e la cui storia certa comincia nel III secolo d.C., ma studi archeologici hanno consentito di trovare tracce risalenti al X secolo a.C., e di indicare l’arco temporale più documentato (250-900 d.C.) come periodo classico, seguito dall’epoca che va fino alla conquista spagnola.

Forse provenienti da una regione a Nord del Messico, eressero città nel bacino formato dal fiume Usumacinta e dei suoi affluenti, che corrisponde alla foresta Lacandona. L’Usumacinta scorre verso settentrione e segna oggi una parte del confine tra Guatemala (stato del Petén) e Messico (stato del Chiapas). Tra i complessi studiati dagli archeologi vi sono Palenque, Bonampak, Yaxchilàn in Messico, Piedras Negras e Tikàl in Guatemala. Infatti, nell’odierno Guatemala costituirono uno stato che fiorì all’incirca nel VI secolo, intorno a centri di notevole sviluppo demografico e culturale, quali Uaxactum, Tikal, Naranjo e Copan.

Emigrarono poi nello Yucatan dove fondarono varie città, raggiungendo una notevole organizzazione politico-sociale nel XII secolo, quando ebbero come capitale Uxmal e centri di rilievo nazionale in Chichen-Itzà, Mérida e Dzula. Con la scoperta dello Yucatàn da parte di Hernandez nel 1517 e la sua parziale occupazione da parte di F. de Montejo nel 1527, cominciarono i rapporti e i conflitti con gli Spagnoli. A quell’epoca erano già venuti in contatto con gli Aztechi e i Toltechi, che ne avevano assorbito la civiltà. Nonostante la supremazia militare degli Spagnoli, grazie alla coesione conferita da una forte identità culturale, i Maya riuscirono in parte a resistere, creando dei piccoli stati indipendenti o semi-indipendenti che capitolarono e scomparvero solo nella seconda metà del XIX secolo.

Anche se dei Maya si ricorda più spesso l’epoca storica delle origini politeistiche in cui adoravano il mitico serpente piumato Cuculcàn, insieme con il dio del sole nascente Itzamna ed altre divinità della natura, affrescando pareti monumentali con immagini di animali fantastici, la storia della civiltà di questo popolo ha conosciuto una complessa evoluzione in varie epoche e fasi.

I Maya sono stati grandi matematici ed astronomi, approdati a nozioni di assoluto valore precorrendo i tempi. Adoperarono il sistema vigesimale e, conoscendo l’uso dello zero da un’epoca remota e precedente quella della prima comparsa in India, lo introdussero nel loro complesso calendario[2] che, nel ciclo Haab, numerava i 20 giorni del mese da 0 a 19. Furono poi ingegneri edili, capaci di risolvere i problemi delle grandi costruzioni monumentali; tecnici dell’irrigazione, che svilupparono come pochi altri popoli; architetti e scultori dal gusto originale. È interessante rilevare che i Maya riservarono le loro abilità di fonditori alla realizzazione di gioielli, monili e oggetti ornamentali, che ebbero splendide forme in oro, argento e rame, mentre le loro armi rimasero di pietra.

I Maya conoscevano una scrittura elaborata che ci è giunta in due versioni principali, una monumentale ed una in manoscritti. In tempi recenti, in una costruzione piramidale fra le rovine precolombiane di San Bartolo, in Guatemala, sono state trovate iscrizioni in una lingua maya più antica di quella dell’epoca classica e risalente ad un periodo fra il 300 e il 200 a.C., ossia di cinque o sei secoli più antica della stele di Takal (292 d.C.). Comunicando questa scoperta, Monica Lanfredini ha proposto dati interessanti sulla cultura linguistica dei Maya in un testo sintetico ma ricco di contenuti al quale si rimanda il lettore (Note e Notizie 14-01-06 Scoperti glifi maya del III secolo avanti Cristo).

 

Naturalmente questi cenni storici, che marcano la differenza fra l’origine Maya e l’appartenenza a una tribù primitiva, non vogliono togliere nulla al valore della scelta, da parte dei ricercatori, di volontari che, pur appartenenti a un popolo con queste grandi tradizioni, non hanno ricevuto un’istruzione scolastica formale e sono in senso proprio analfabeti e privi di formazione all’uso dei simboli numerici anche per le più semplici operazioni aritmetiche. Solo, vogliono attrarre l’attenzione su una differenza. Chiunque abbia studiato le lingue verbali in chiave antropologica e psicologica, sa che le forme di espressione di una lingua non costituiscono un semplice codice neutro, ma includono una quantità di locuzioni, formule, modi di dire, detti, che contengono valori di “intelligenza potenziale”, che sono in gran parte diretta conseguenza della storia di un popolo.

Possedere una cultura scritta tramandata fa si che, già attraverso il semplice apprendimento orale della lingua madre in seno alla famiglia, si acquisisca una quantità notevole di schemi cognitivi, dai quali i processi neurobiologici di sviluppo naturale possono automaticamente estrarre paradigmi logici[3]. Naturalmente ciò non vuol dire che, senza una dimostrazione sperimentale, si possa assumere che l’acquisizione come lingua madre della lingua maya, impiegata per arte, scienza, tecnica e letteratura per qualche millennio, conferisca capacità cognitive superiori a quelle di un idioma orale parlato da un piccolo gruppo di indigeni che viene da generazioni che hanno vissuto come in epoca preistorica[4]. Per vari motivi, la differenza potrebbe rivelarsi assolutamente ininfluente, tuttavia rigore scientifico vuole che non la si ignori.

In generale, la scelta di studiare bambini in età prescolare e membri analfabeti di popolazioni a basso sviluppo socioculturale per accertare l’origine innata o acquisita di una facoltà, è fra le migliori possibili, anche se si deve aver presente che non equivale allo studio di cervelli al 100% non influenzati dalla cultura.

Tanto premesso, consideriamo in estrema sintesi i contenuti del lavoro qui recensito.

Fontanari e colleghi affermano che per verificare se la capacità di fare valutazioni probabilistiche corrette è guidata dall’apprendimento scolastico e culturale, hanno indagato la cognizione probabilistica nei membri analfabeti e privi anche di conoscenza delle cifre numeriche, di due gruppi indigeni maya: Kaqchikel e K’iche’. Gli indigeni erano adulti privi qualsiasi forma di istruzione, intesa secondo la comune accezione internazionale dell’espressione inglese formal education, e la cui vita si svolge in aree remote del Guatemala. I Maya analfabeti sono stati messi a confronto con un gruppo di scolari della stessa origine etnica e con un gruppo di volontari con la classica formazione scolastica e cultura “occidentale”.

Sottoposti ad una gamma di problemi probabilistici, spesso dalla soluzione intuitiva, i Maya sono apparsi in grado di risolverli in massima parte, facendo registrare una prestazione ragguardevole. In particolare, hanno dimostrato di saper impiegare correttamente informazioni precedenti e susseguenti, proporzioni ed elementari procedure combinatorie, per prevedere il verificarsi di esiti casuali. I risultati delle loro prove sono stati identici a quelli dei due gruppi di controllo.

Secondo gli autori dello studio la loro verifica attesta che, indipendentemente dalla scolarizzazione e dalla cultura, la mente umana possiede una conoscenza probabilistica di base[5]; un dato che depone a favore della natura universale della cognizione probabilistica.

Seppure non crediamo che l’esperimento oggetto di questo studio avesse in sé i requisiti per costituire una prova decisiva della qualità innata della cognizione probabilistica, riteniamo che i risultati corrispondano, con ogni probabilità, al vero. La nostra convinzione si basa sulla vasta mole di studi ed elaborazioni che negli ultimi decenni hanno provato a decifrare e teorizzare sull’origine della logica e della razionalità umana, in particolare ci riferiamo a quei contributi originali discussi ed apprezzati da Gerald Edelman già più di vent’anni fa[6].

 

Gli autori della nota ringraziano la professoressa Monica Lanfredini per i cenni storici sulla civiltà dei Maya e la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione, e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Giovanni Rossi

BM&L-15 novembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Ci piace sottolineare l’impegno di scuole italiane come quella dell’Università di Venezia e dell’Università di Trento. Ricordiamo il bando del MIUR-Università di Venezia per assegno di ricerca del 20/01/2013, per il progetto “Lo sviluppo della cognizione probabilistica”, finalizzato a studiare abilità e limiti nel ragionamento probabilistico di bambini piccoli e adulti non alfabetizzati.

[2] Il calendario Maya era composto da un ciclo “Tzolkin” della durata di 260 giorni, un ciclo “Haab”, vicino al nostro calendario ma particolarmente suggestivo, perché costituito da 360 giorni più “cinque giorni fuori dal tempo”, e un “Computo lungo” che calcolava il numero dei giorni dall’inizio dell’era Maya. I calendari degli Aztechi e dei Toltechi derivavano dal calendario Maya.

[3] Cfr. Richmond D. & Rossi G., Appunti sullo sviluppo della cognizione umana. BM&L, Firenze 2007.

[4] Pensiamo, ad esempio, a tutti quegli studi condotti su gruppi di primitivi che usano le vocalizzazioni quasi esclusivamente come una segnalazione legata alla necessità o per comunicazioni connesse a bisogni primari.

[5] Secondo l’insegnamento della nostra scuola neuroscientifica che distingue fra conoscenza, intesa come nozione, ed abilità, intesa come processo, non diremmo conoscenza (knowledge) probabilistica, ma un’abilità di base che consente la stima, il giudizio e il ragionamento probabilistico.

[6] Cfr., ad es., l’appendice in Edelman G. M., Bright Air, Brilliant Fire: On the Matter of the Mind. Basic Books, New York 1992.