Come sta cambiando la terapia della sclerosi multipla

 

 

A cura di GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 25 maggio 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Lo scorso sabato 18 maggio si è tenuto a Firenze un incontro di aggiornamento sulla terapia della sclerosi multipla, al quale hanno partecipato numerosi soci. La storia dei trattamenti in relazione alle ipotesi patogenetiche è stata trattata dalla professoressa Nicole Cardon e da chi scrive; l’evoluzione della concezione della malattia e gli studi attualmente in corso sull’eziopatogenesi, sono stati esposti in sintesi dalla professoressa Diane Richmond; singoli aspetti molecolari e cellulari della patologia sono stati discussi dai dottori Lorenzo L. Borgia (meccanismi autoimmuni), Simone Werner (processi infiammatori) e Roberto Colonna (processi degenerativi). La professoressa Ludovica R. Poggi ha presentato una dettagliata disamina del profilo farmacologico delle molecole attualmente in uso e in corso di sperimentazione. Infine, il presidente, Giuseppe Perrella, ha proposto un excursus sull’evoluzione della terapia della sclerosi multipla nel corso degli anni, ed ha fornito un aggiornamento sulle nuove e future possibilità di trattamento. Da questa relazione abbiamo estratto e trascritto qui di seguito alcuni brani che, nell’insieme, possono costituire un sintetico aggiornamento per i visitatori del sito.

 

Quasi tutti i trattamenti per la SM introdotti in clinica e impiegati in questi ultimi cinquant’anni, sono diretti a ridurre l’attacco portato dal sistema immunitario alle strutture del proprio sistema nervoso centrale. Negli anni Sessanta si impiegava l’ACTH, ossia l’ormone peptidico ipotalamico che stimola il corticosurrene a produrre cortisolo, il composto cortisonico naturale del nostro organismo che, oltre ad essere un potente antinfiammatorio, è un immunosoppressore. Poi sono stati introdotti i corticosteroidi sintetici, come il metilprednisolone, che sono ancora impiegati per le riaccensioni.

Si tratta di farmaci che non possono essere assunti a lungo perché causano effetti collaterali non lievi - che su un terreno di predisposizione possono diventare preoccupanti - quali scompensi dell’omeostasi glicidica riproducenti la sintomatologia del diabete mellito, osteoporosi, aumentato rischio di infezioni, patologia oculare e, soprattutto per dosi molto elevate, disturbi mentali fino a quadri psicotici con deliri e allucinazioni.

Negli anni seguenti, progressi nella conoscenza dei meccanismi immunopatologici, hanno consentito lo sviluppo di nuovi farmaci più mirati e virtualmente privi degli effetti collaterali dei cortisonici. Con queste nuove molecole si è avuto un miglioramento notevole della prognosi in relazione al trattamento perché, in assenza del rischio da tossicità collaterale, è stato possibile modificare il programma di somministrazione, effettuando terapie continuative, invece di ricorrere a prescrizioni limitate agli episodi di riaccensione delle manifestazioni cliniche o di peggioramento della sintomatologia. Valutazioni accurate dell’andamento della patologia hanno consentito di accertare che solo il 10% circa delle riaccensioni infiammatorie causa sintomi clinicamente apprezzabili, evidenziando l’importanza di questa protezione farmacologica costante.

Numerosi studi condotti in anni recenti hanno riscontrato che il trattamento continuo, non solo riduce la frequenza e la gravità delle recidive, ma sembra anche in grado di ritardare significativamente l’epoca di insorgenza della disabilità.

Fra i trattamenti di più recente introduzione, alcuni agiscono su classi di cellule del sistema immunitario implicate nelle fasi attive della malattia, riducendone la funzionalità, altri sono stati concepiti sulla base di un più fine ragionamento di interferenza con processi fisiopatologici della sclerosi multipla definiti con precisione solo di recente. Un esempio di quest’ultimo tipo è costituito dalle strategie terapeutiche sviluppate per fare fronte all’alterazione della barriera emato-encefalica (BEE).

La straordinaria rete cellulare posta tra encefalo e sangue, di cui si è occupato di recente il professor Rossi nel suo aggiornamento sui periciti, ha un compito fisiologico di cruciale importanza nel mantenere, con la sua azione di filtro selettivo, l’equilibrio interno del sistema nervoso centrale rispetto al sangue. La sua riduzione di efficacia funzionale nella sclerosi multipla, per effetto di una componente della risposta immunopatologica, è stata studiata a scopo terapeutico. Come accade in genere, le alterazioni della BEE si traducono in variazioni della sua permeabilità e, in questo caso, nella perdita della funzione di barriera per l’accesso dei leucociti all’interno del parenchima cerebrale o nella compagine del midollo spinale. Le cellule della serie bianca del sangue possono facilmente, nelle fasi di attività infiammatoria, interagire con dei recettori, abbondantemente espressi sulle cellule delle pareti vascolari della BEE, e in grado di mediare il passaggio all’interno del compartimento nervoso. Uno dei nuovi farmaci, il natalizumab, è un anticorpo che si lega a questi recettori e li blocca, precludendo ad un gran numero di cellule immunitarie di attraversare la BEE ed aggredire la mielina oligodendrocitica.

Un altro farmaco, del quale si è discusso approfonditamente in alcuni nostri incontri scientifici che hanno preceduto la sua introduzione in terapia, è il fingolimod (o composto FTY720; Gilenya), approvato nel 2010 per il trattamento orale della sclerosi multipla[1]. Si è ritenuto, e da parte di molti ancora si ritiene, che l’effetto prevalente alla base dell’efficacia terapeutica sia costituito dalla sua capacità di impedire ai linfociti di lasciare i linfonodi ed entrare in circolo, in tal modo precludendo la possibilità per queste cellule di aggredire il sistema nervoso centrale. In particolare, sembra che il fingolimod agisca mediante un metabolita fosforilato attivo (FTY720-P) che, essendo chimicamente simile alla molecola naturale sfingosina-1-P (S1P), può interagire con il sub-tipo recettoriale S1P1, causando l’alterazione del traffico dei linfociti.

Alcuni studi hanno dimostrato che il fingolimod può agire direttamente sul sistema nervoso centrale mediante la modulazione dei recettori espressi dai neuroni e dagli astrociti. Più specificamente, è stato rilevato in un lavoro condotto da J. W. Choi e colleghi e recensito da noi il 22 gennaio 2011[2], che il meccanismo primario dell’azione del fingolimod consista nel determinare la perdita del recettore S1P1 da parte degli astrociti e non dei neuroni.

In ogni caso, il fingolimod non distrugge le cellule del sistema immunitario, non esercitando effetti di immunosoppressione passibili di causare vulnerabilità alle infezioni ed altri squilibri immunologici potenzialmente pericolosi per l’organismo.

Un altro agente terapeutico impiegato per via orale è la teriflunomide (Aubagio). Si tratta di una molecola approvata per l’uso clinico verso la fine del 2012 e la cui azione farmacologica si esplica direttamente su cellule immunitarie; la sua specificità consiste nell’agire selettivamente su cellule in rapida divisione. In altri termini, la teriflunomide risparmia le cellule immunitarie che si moltiplicano a basso ritmo, sostanzialmente preservando la normale capacità di resistenza immunologica alle malattie, mentre agisce bloccando gli immunociti in rapida proliferazione implicati nell’attacco autoimmunitario alla mielina encefalomidollare.

Questi tre esempi di farmaci agenti con meccanismi d’azione diversi, ma accomunati dal non essere degli immunosoppressori indiscriminati, rendono evidente quanto avevo osservato in premessa: l’assenza di effetti collaterali, complicanze e vulnerabilità da soppressione immunitaria, migliora la qualità della vita e la prognosi nel suo complesso, virtualmente eliminando il rischio di iatrogenia.

Un caso a parte è costituito da un farmaco che ha generato una certa attesa e molta curiosità scientifica, in quanto fino ad oggi è stato impiegato in dermatologia per il trattamento della psoriasi: il BG-12 o acido dimetil-fumarico (Tecfidera). La molecola, le cui proprietà anti-infiammatorie ed antiossidanti si spera possano proteggere i neuroni, sembra in grado di modulare la funzione degli immunociti, in tal modo riducendo le conseguenze negative dei processi infiammatori. Uno studio su un grande numero di pazienti, coordinato dal neurologo Robert J. Fox della Cleveland Clinic e pubblicato nel 2012, ha valutato il BG-12 contro placebo in pazienti affetti dalla forma recidivante-remittente di sclerosi multipla, sulla base di un trattamento della durata di due anni. I volontari che avevano assunto il BG-12 presentavano, rispetto al gruppo di controllo che aveva assunto un placebo, un numero minore di episodi acuti, una progressione più lenta verso la disabilità e lesioni meno gravi ed estese alla verifica mediante risonanza magnetica nucleare.

L’approvazione del BG-12 per la sclerosi multipla da parte della FDA è attesa per quest’anno.

Sfortunatamente, in un certo numero di casi e in alcune fasi della malattia[3], questi farmaci non sono efficaci, pertanto si deve fare ricorso a strategie più drastiche. Più precisamente, il grado di disordine immunologico che caratterizza la fisiopatologia di questi stati, ha suggerito l’idea di tentare il ripristino delle condizioni fisiologiche di base del sistema immunitario (rebooting).  

L’alemtuzumab (Lemtrada), un anticorpo iniettabile approvato per il trattamento della leucemia linfatica acuta, è in grado di distruggere un gran numero di leucociti e causare immunosoppressione. Si ritiene che nella sclerosi multipla possa agire azzerando tutte le attività auto-aggressive e facilitando, al termine della sua azione, un ripristino dei processi fisiologici. La valutazione clinica dell’alemtuzumab ha evidenziato aspetti positivi e negativi. In un trial contro un farmaco standard ad azione anti-infiammatoria quale l’interferone β-1a, i 376 pazienti che hanno assunto l’anticorpo, rispetto ai 195 pazienti trattati con l’anti-infiammatorio, hanno fatto registrare il 55% in meno delle recidive. Nei due anni di sperimentazione, coloro che hanno assunto l’alemtuzumab hanno riportato il 30% in meno di disabilità. L’altra faccia della medaglia è costituita dagli effetti indesiderati: se il 67% dei volontari trattati con l’anticorpo ha sviluppato infezioni di entità variabile da lieve a media, solo il 45% di quelli che hanno assunto interferone ha fatto registrare lo stesso effetto collaterale. Ma l’accresciuto rischio di infezione non è la conseguenza più temibile: dal 20 al 30% dei pazienti trattati con alemtuzumab ha sviluppato una tiroidite autoimmune difficile da trattare. La ragione di questo effetto non è stata accertata, ma si suppone che sia una conseguenza del difetto di regolazione immunitaria alla base della sclerosi multipla che, inibito nella manifestazione di autoaggressione della mielina, si esprime nell’attacco autoimmunitario alla tiroide.

Un modo in linea teorica più fondato per determinare l’azzeramento e il riavvio del sistema immunitario, consiste nel trapianto del midollo osseo che, contenendo le cellule staminali per tutte le linee cellulari ematiche, può fornire un’estesa base di elementi “puri”, ossia privi delle modificazioni funzionali proprie dell’assetto patologico.

L’anno scorso un gruppo di ricerca guidato da James D. Bowen, direttore dell’Istituto Svedese di Neuroscienze di Seattle, ha pubblicato uno studio sugli effetti del trapianto di midollo osseo in 26 pazienti di sclerosi multipla gravemente disabili, molti dei quali incapaci di deambulazione autonoma. Bowen e colleghi hanno impiegato una combinazione di terapia radiante, chemioterapia e trattamenti con anticorpi per eliminare la massima parte delle cellule immunologicamente attive e poi hanno praticato in ciascuno il trapianto di midollo osseo, al fine di ottenere la ricostituzione di popolazioni di cellule immunitarie che non attaccassero più la mielina dei neuroni del sistema nervoso centrale.

Sulle prime e in un certo numero di pazienti, il trapianto sembrava aver prodotto gli effetti sperati, ma ben presto la sperimentazione si è rivelata per molti volontari un fallimento.

Inizialmente si è registrata una riduzione dei sintomi di riaccensione e i processi patologici, che in tutti erano già in rapida evoluzione, sono andati incontro a una stabilizzazione che ha raggiunto, in alcuni, i sei anni di durata. In ben 11 pazienti, tuttavia, la malattia ha proseguito la sua inesorabile progressione degenerativa aggravando notevolmente lo stato di disabilità in ordine alle più semplici attività della vita quotidiana. Ma l’aspetto più preoccupante è quello relativo al rischio di mortalità. Un paziente è deceduto per complicazioni derivate dal trapianto, un altro è morto per una patologia ematica probabilmente causata, almeno in parte, dalla terapia[4].

Complessivamente, gli effetti positivi del trapianto sono stati registrati nelle fasi meno avanzate della malattia, pertanto è lecito supporre che il tentativo di ricostituire una funzione immunitaria sana grazie all’attività emopoietica di un midollo osseo integro, abbia più speranze di riuscita nelle fasi precoci della malattia[5]. Bowen e colleghi stanno verificando questa ipotesi mediante uno studio di follow-up, che terminerà fra qualche anno.

L’esperienza di Bowen ed altri studi simili pongono l’accento su un aspetto ben noto ai neuropatologi, ma forse sottovalutato o trascurato in sede terapeutica: i processi autoimmuni non sono che una parte della patogenesi della sclerosi multipla e la neurodegenerazione, lungi dall’essere esclusivamente una conseguenza finale dell’autoaggressione, presenta aspetti di contemporaneità che hanno indotto alcuni ad ipotizzarne l’indipendenza. Personalmente sono portato anche a soffermare l’attenzione su un aspetto: le terapie concepite esclusivamente per curare una patologia autoimmune sono efficaci, e talvolta molto efficaci, in una parte di pazienti, mentre è sempre presente una quota di persone affette che, pur presentando l’attacco autoimmune della mielina, resta refrattario. Su quale base possiamo escludere che questa differente risposta alla terapia non riveli che si tratta, in realtà, di malattie diverse nella loro base patologica, accomunate da alcuni processi, segni e sintomi clinici?

Intanto, per spiegare il rapporto fra la fisiopatologia autoimmunitaria e quella neurodegenerativa, sono in campo tre diverse ipotesi, da qualche autore definite “teorie”:

1) il danno derivante da anni di attacchi immunitari innescherebbe, nei neuroni e negli oligodendrociti produttori di mielina, una cascata distruttiva in grado di autoalimentarsi, responsabile della sezione degli assoni e della conseguente necrosi della cellula nervosa;

2) un attacco autoimmune silente e non rilevabile con i comuni metodi di accertamento sarebbe costantemente presente negli ammalati e persisterebbe indisturbato anche durante le terapie immunosoppressive, causando una neurodegenerazione inizialmente inapparente e poi conclamata;

3) la sclerosi multipla sarebbe una malattia primariamente neurodegenerativa e solo secondariamente autoimmune: un difetto ereditario o l’azione di fattori ambientali quali virus, innescherebbe processi neurodegenerativi con la morte di cellule e la liberazione di proteine che darebbero il via ai fenomeni autoimmunitari.

Non è mia intenzione allontanarmi dal tema dell’incontro con una discussione delle ipotesi patogenetiche, ma ho voluto fare questa sintetica menzione, per ricordare lo scarto che ancora esiste fra la sperimentazione terapeutica e le conoscenze patologiche. Se la ricerca di molecole efficaci per il trattamento fosse stata un riflesso fedele di quanto emerso dalla ricerca di base, oggi si dovrebbe disporre di molti farmaci neuroprotettivi: fino ad oggi la FDA non ha ancora approvato per il trattamento della sclerosi multipla alcuna molecola con un’azione protettiva per i neuroni.

Credo che questo debba far riflettere, sia coloro che studiano i meccanismi molecolari della degenerazione nella malattia, sia quanti sono chiamati a prefigurare il profilo farmacodinamico di composti da adoperare in clinica per migliorare le condizioni dell’ammalato e la prognosi quoad vitam.

Per la verità, alcune molecole sperimentate ed approvate per la loro capacità di interferire con i meccanismi autoimmunitari, in particolare il BG-12, sembrano essere in grado di proteggere i neuroni e sembra che una parte dei loro effetti positivi siano da ascrivere a questa componente non ancora indagata. D’altra parte, non sono stato il solo in quest’ultimo decennio a riflettere e a sollecitare approfondimenti e discussioni su questo punto, e so che numerosi ricercatori hanno diretto il proprio interesse verso farmaci neuroprotettivi già in uso nel trattamento di altre patologie. In passato, la nostra società scientifica ha cercato di attrarre l’attenzione della ricerca clinica sulla prolattina, risultata efficace nell’induzione di remissioni durevoli in madri affette da sclerosi multipla durante la gravidanza, e poi indagata nei roditori per la sua capacità di indurre proliferazione oligodendrocitica[6]. Alcuni ricercatori hanno rilevato l’efficacia dell’eritropoietina, altri hanno raccolto elementi a favore degli ormoni sessuali, estrogeni e testosterone, altri ancora hanno ipotizzato, su base sperimentale, l’effetto protettivo del farmaco antiepilettico lamotrigine.

 

[Interrompiamo qui l’estratto dalla relazione del Presidente Perrella, che è proseguita con una dettagliata esposizione delle terapie basate sul trapianto di cellule staminali per la ricostituzione del tessuto danneggiato, e con una discussione critica e problematica circa lo stato presente e le prospettive future della terapia della sclerosi multipla].

 

L’autore invita alla lettura di tutti gli scritti di argomento connesso (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

A cura di Giovanni Rossi

BM&L-25 maggio 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Il profilo di sicurezza di FTY720 è stato studiato in modo approfondito facendo riferimento all’esperienza di oltre 4.500 pazienti volontari per anno.

[2] Note e Notizie 22-01-11 Il fingolimod è efficace nella sclerosi multipla grazie al suo meccanismo d’azione.

[3] La categoria clinica della sclerosi multipla, come ritengo accada per altre malattie neurodegenerative, potrebbe includere processi diversi per eziologia e per alcuni aspetti della patogenesi; ciò spiegherebbe le differenze nella genetica, nell’evoluzione, nel decorso e nella sensibilità ai trattamenti.

[4] Sebbene il piccolo numero di pazienti (26) non consenta un’estrapolazione significativa, a rigor di numeri di deve considerare una mortalità superiore al 7%.

[5] Credo che non si possa escludere che un trattamento così drastico per azzerare la funzione immunitaria patologica, come quello adoperato da Bowen e colleghi, possa aver influito negativamente sui sistemi dell’organismo già provati dalla malattia in fase avanzata.

[6] Note e Notizie 21-04-07 Sclerosi multipla: scoperto un agente di remissione.