La coscienza senza tre importanti aree corticali  

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 19 gennaio 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Il 7 luglio del 2012, un gruppo di studiosi di neuroscienze riuniti a convegno presso l’Università di Cambridge, ha sottoscritto un documento intitolato “Dichiarazione di Cambridge sulla coscienza in animali non umani”, nel quale si dichiara ufficialmente che molte specie animali “inclusi tutti i mammiferi e gli uccelli, e molte altre creature, inclusi i polpi”, sono coscienti.

Sulle prime ho pensato: questa la dice lunga sullo stato in cui versa attualmente quella che fu una gloriosa istituzione. Poi, ho riflettuto sulla questione e sui contenuti del documento, di sicuro effetto mediatico ma scientificamente inconsistente e, mi si perdoni, non ho sostanzialmente cambiato idea. Il concetto di coscienza, per quel che ne sappiamo, dal tempo dei filosofi presocratici, quando era più o meno confuso con quello di mente, ha avuto origine dall’esperienza soggettiva della consapevolezza umana, resa oggettiva nei termini della lingua verbale impiegata dai pensatori. Da allora, numerosi autori di scritti di tenore filosofico, religioso ed anche letterario, hanno proposto idee sulla coscienza esprimenti la cultura del proprio tempo e, talvolta, influenti sulle concezioni sviluppate nelle epoche successive.

Oggi possiamo dire che la coscienza umana, da un punto di visto psicologico, è caratterizzata dalla “consapevolezza di essere coscienti” e, in termini più generali, si declina come paradigma di una conoscenza responsabile nelle forme della coscienza morale, religiosa, civile, politica, e così via. Questa “coscienza” non ha nulla in comune con la capacità di un polpo, ad esempio, di distinguere il sé dal non sé ed agire sulla base di quanto appreso; e credo che questa estraneità appaia evidente anche ad un bambino nel periodo della seconda infanzia. Altra cosa è il fatto che si sia dimostrato da tempo che esiste in molti animali, molluschi compresi, un controllo sovraordinato del comportamento da parte di un ambito funzionale che integra apprendimenti della specie e dell’individuo in un’attività globale che sembra esprimere intenzionalità. In questo senso, l’esistenza di un’attività cosciente negli animali non aveva certo bisogno di una dichiarazione ufficiale: i neuroscienziati ne erano già al corrente da decenni e, con loro, la maggior parte dei biologi, dei fisiologi e dei neurologi: basti leggere gli scritti che da oltre trent’anni il Premio Nobel Gerald Edelman dedica a questo argomento, per rendersene conto.

Come ha spesso fatto notare Perrella, nell’ultimo secolo, ossia dopo l’affermarsi dell’idea darwiniana della continuità fra l’uomo e gli animali e della possibilità di studiare la mente in termini scientifici, è caduta la barriera culturale che precludeva ai biologi di occuparsi di coscienza. Seguendo Edelman e Perrella, possiamo dire che probabilmente fu proprio la pubblicazione del saggio Does Consciousness Exist? di William James[1], il padre della psicologia americana, a determinare il superamento della separazione tradizionalmente accettata fra filosofia e scienza. Whitehead osservò che James, affermando che la coscienza non è una sostanza ma un processo, fu per il Novecento ciò che Cartesio fu per il Seicento.

Da allora in poi, accettata la similarità per continuità evolutiva fra i processi del cervello animale e umano, si sono cercate e definite le somiglianze e le differenze. La coscienza degli animali, definita da Edelman coscienza primaria, include la consapevolezza del proprio corpo e del proprio ambiente, ma non va molto oltre l’uso del ricordo delle esperienze di volta in volta vissute, ossia il “presente ricordato”. La coscienza di ordine superiore, che include un modello dell’identità personale nel passato e nel futuro, consiste nella consapevolezza di sé come essere pensante e cosciente (coscienza di essere cosciente) e, aggiungerei, nella capacità di elaborazione consapevole, astratta ed immaginaria, entro la dimensione del passato e del futuro, di contenuti mentali propri ed altrui (G. Perrella, 2006)[2].

Edelman considera la coscienza primaria tipica degli animali e dei bambini, e la ritiene come una forma di fisiologia mentale che rimane nel cervello adulto dell’uomo, il quale è invece caratterizzato dalla coscienza di ordine superiore.

In proposito, però, Perrella propone un distinguo: “Queste definizioni operativamente utili e concettualmente efficaci, rimangono approssimative rispetto alla realtà, in quanto è ragionevole credere che gli elementi specifici nella costituzione morfo-funzionale del cervello umano e, in ultima analisi, di tutto il sistema nervoso e di tutto l’organismo, contribuiscano al conferimento di una qualità unica alla neurofisiologia della coscienza. In altri termini, la coscienza in evoluzione di un bambino, anche se può essere funzionalmente paragonata alla coscienza primaria di un animale, rimarrà intrinsecamente e potenzialmente umana in tutti gli aspetti. Senza contare l’interazione reciproca, che nella dimensione diacronica possiamo descrivere come un ciclo a “spirale evolutiva”, fra il cervello umano e il suo maggiore prodotto storico, ossia la cultura”[3]. Coerentemente afferma: “Il controllo apparentemente consapevole delle proprie azioni sulla base dell’esperienza ricordata, tipico di molti mammiferi ed altri animali, considerato da Edelman corrispondente alla coscienza primaria, potrebbe essere più propriamente indicato facendo ricorso ad una terminologia specifica, che rifletta lo stato delle nostre conoscenze attuali, senza rischiare di ingenerare confusione soprattutto in coloro che non abbiano nozione diretta dei risultati della ricerca scientifica, e possano essere indotti a credere che sia stata individuata con certezza una base biologica comune per la coscienza umana e animale”[4].

Ma, esauriti questi riferimenti teorici, ritornerei alla questione che sto affrontando da un po’ di tempo per conto della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, ossia la sede dei processi cerebrali all’origine della nostra coscienza[5].

Molti studi di neuroimaging funzionale hanno suggerito che atti mentali coscienti, quali riconoscere immagini di se stessi, pensare di sé e riflettere sui propri pensieri e sentimenti, richiedono sempre l’intervento della corteccia cerebrale. Tali esiti appaiono in perfetta coerenza con la teoria che attribuisce l’autoconsapevolezza tipicamente umana all’attività della corteccia cerebrale che nell’uomo ha, rispetto alle altre specie animali dotate di un encefalo notevolmente sviluppato, il rapporto proporzionale di gran lunga più elevato con le dimensioni del corpo e del resto del cervello. In altri termini, una corteccia cerebrale più spessa, più estesa in superficie, più complessa nell’organizzazione cito-architettonica, più ricca e sofisticata al livello cellulare e molecolare, spiegherebbe il nostro modo quantitativamente e qualitativamente incomparabile di essere consapevoli. Il manto corticale umano sarebbe, dunque, la sede principale dei processi della coscienza di ordine superiore.

Recenti evidenze stanno mettendo in dubbio questo assunto e, in particolare, un caso studiato di recente in maniera dettagliata, sembra confutare l’associazione neocorteccia umana/autocoscienza, da molti considerata ormai una certezza.

Un paziente di 57 anni, conosciuto con lo pseudonimo di Roger, a seguito di un danno cerebrale procurato da un’encefalite erpetica sofferta nel 1980, riportò la distruzione di gran parte della corteccia dell’insula (insula di Reil), della porzione anteriore del giro del cingolo e dell’area prefrontale mediale. Tutte regioni della corteccia cerebrale che si ritengono importanti per l’autoconsapevolezza. Circa il 90% dell’insula è andato in necrosi, e solo l’1% della corteccia del giro del cingolo è stato risparmiato. Clinicamente, Roger ha quasi perso la memoria autobiografica del periodo che va dal 1970 al 1980, ed ha grandi difficoltà nel ritenere nuovi dati o fatti, denunciando un notevole deficit di apprendimento; ha una grave compromissione del gusto e dell’odorato, ma sembra conservare alcune funzioni psichiche essenziali, come il senso di identità ed un generale buon senso nella gestione della vita quotidiana. In particolare, è stato accertato che si riconosce allo specchio e nelle fotografie, e il suo comportamento ordinario appare sostanzialmente normale.

Il grado e l’estensione dell’autoconsapevolezza di Roger sono stati di recente indagati da Carissa L. Philippi, una ricercatrice post-dottorato dell’Università di Wisconsin-Madison, dal neuroscienziato David Rudrauf dell’Università dello Iowa, e da loro colleghi[6].

Durante una prova di riconoscimento allo specchio, un ricercatore ha finto di togliere qualcosa dal naso di Roger con un pezzetto di tessuto che nascondeva un ombretto nero, in modo da sporcarlo in maniera evidente[7]. Dopo circa un quarto d’ora, si è chiesto al paziente di specchiarsi: Roger immediatamente ha cancellato la traccia scura sul suo naso e si è chiesto ad alta voce come si fosse prodotta.

Sono state poi mostrate a Roger delle immagini, essenzialmente costituite da fotografie che ritraevano lui, persone a lui note o estranei. Quasi sempre il paziente si è riconosciuto e non ha mai scambiato un’altra persona per se stesso (come accade per la perdita diffusa di neuroni nella malattia di Alzheimer o per altre cause); tuttavia, la strategia cognitiva che lo ha portato al riconoscimento, sembra si sia avvalsa di molti più segni di quanti non se ne adoperino in condizioni normali, probabilmente per il difetto di alcune routines specifiche, legate all’identificazione fisionomica. Infatti, Roger ha mostrato, a volte, difficoltà nel riconoscere il proprio viso, quando lo ha visto isolato su un fondo nero, privo di elementi identificativi di contorno.

Dopo queste valutazioni della coscienza di sé mediate dalla vista, è stata esplorata una modalità di consapevolezza a mediazione tattile: Roger è apparso in grado di distinguere la sensazione derivante dal solleticare se stesso, da quella conseguente all’essere solleticato da qualcun altro e, coerentemente, ha trovato la seconda più stimolante. Quando un ricercatore gli ha chiesto il permesso di solleticarlo nel cavo ascellare, Roger immediatamente ha detto: “Preso un asciugamano?”. Questa rapida battuta indica che, oltre a conservare il senso della propria identità, è in grado di porsi nella prospettiva dell’altro[8] e, anticipando il possibile fastidio per le sue ascelle sudate ed il suo conseguente imbarazzo, ha cercato di neutralizzare entrambe le evenienze con una informazione camuffata da motto di spirito[9].

In un altro compito, Roger doveva usare il mouse di un computer per trascinare un riquadro blu dal centro dello schermo verso un riquadro verde, posto in uno degli angoli della superficie di manovra. In alcuni casi, il programma consentiva all’operatore il completo controllo sul riquadro blu, in altri casi, riduceva le possibilità di spostamento. Roger distingueva molto agevolmente le sessioni in cui aveva il pieno controllo, da quelle in cui era attiva una forza indipendente da sé: in altri termini, non ha mai avuto difficoltà nel riconoscere le azioni di cui era responsabile da quelle di cui non era responsabile.

Il complesso delle prove cui è stato sottoposto questo paziente sembra indicare, almeno secondo la concezione corrente, una sostanziale integrità dell’autoconsapevolezza, pertanto Philippi, Rudrauf e colleghi concludono che i territori corticali dell’insula, della parte anteriore del giro del cingolo e della regione prefrontale mediale, non sono necessari per l’operazione cosciente di riconoscimento di se stessi, che potrebbe basarsi su elaborazioni cognitive diffuse, implicanti l’attività di regioni sottocorticali.

L’idea, come sappiamo, non è nuova, ma continua ad essere elusiva la definizione di quali siano i centri non corticali necessari e sufficienti, e quale sia la configurazione di questi sistemi neuronici. La parola, allora, ritorna alla ricerca e ad altri studi di osservazione clinica come questo.

 

L’autore del testo invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Giovanni Rossi

BM&L-19 gennaio 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Il saggio Does Consciousness exist? È incluso in The Writings of William James (a cura di J. J. McDermott, pp. 169-183) University of Chicago Press, Chicago 1977.

[2] Cfr. G. Perrella, Alcune osservazioni su teorie e ipotesi neurobiologiche della coscienza. BM&L, Firenze 2006.

[3] G. Perrella, Appunti sulla coscienza (manoscritto non pubblicato), p. 23, 1989.

[4] G. Perrella, Appunti sulla coscienza (manoscritto non pubblicato), p. 24, 1989.

[5] Si veda Note e Notizie 12-01-13 Coscienza senza corteccia in bimbi sfortunati.

[6] Carissa L. Philippi, et al., PLoS ONE, Vol. 7, No. 8; August 2012.

[7] Si tratta di un test derivato da una prova originariamente ideata per testare la capacità di riconoscimento delle scimmie allo specchio: durante il sonno si tingevano con dei colori parti del pelo prossimo al viso per verificare l’effetto sull’animale. Nel primo esperimento, solo pochi fra i primati che erano stati reclutati, mostrarono di riconoscere l’appartenenza a sé dell’immagine riflessa, toccando o stropicciando il colore su se stessi per portarlo via.

[8] Abilità che in psicologia è definita con un’espressione poco felice, ma ormai entrata nell’uso comune: “possedere una teoria della mente”. Prevedere un atteggiamento mentale o una risposta comportamentale di un altro membro della propria specie è considerato indice, per quell’animale, del possesso di una teoria della mente dell’altro.

[9] L’osservazione è ripresa da una comunicazione personale di Giuseppe Perrella, che mi ha fatto notare come siano stati gli stessi autori dell’articolo, Philippi e Rudrauf, a sottolineare l’importanza della battuta, ed ha anche rilevato che di questo studio fornisce un breve resoconto Ferris Jabr, sostituto di Christof Koch come redattore di una rubrica in “Scientific American MIND”.