Il lavoro di Angelo Vescovi e Gianvito Martino sulla rigenerazione della mielina
Il titolo dell’agenzia
ANSA: “Eccezionale scoperta di due ricercatori italiani” è il modo peggiore per
celebrare un buon lavoro ben condotto, di cui è giusto che si possa andare un
po’ fieri, ma che non è in nessun senso una “eccezionale scoperta”.
Da molto tempo molti ricercatori in tutto il
mondo lavorano e regolarmente pubblicano in questo campo: di tanto in tanto si
ottengono risultati incoraggianti come questo, che spingono a proseguire in
questa direzione. La pubblicazione su Nature (Pluchino S., Quattrini A., Brambilla E., Gritti A.,
Salani G., Dina G., Galli R., Del Carro U., Amadio S., Bergami A., Furlan R.,
Comi G., Vescovi A. L., Martino G., Injection of adult neurospheres
induces recovery in a chronic model of multiple sclerosis, Nature; 422(6933):
688-94, 2003) è già un
prestigioso riconoscimento per il valore di una ricerca, ma se vogliamo
aggiungere i nostri complimenti non dobbiamo certo farlo nello stile della
maggiore agenzia giornalistica italiana: “Dalle staminali la cura per la
sclerosi multipla”, perché questo sarebbe appropriato per il buon esito della
sperimentazione umana di una ben definita modalità terapeutica per questa
malattia.
Il lavoro ha
indubbiamente un pregio ed una rilevanza maggiore di una ricerca clinica, ma il
suo valore consiste proprio e solo nei risultati ottenuti con l’iniezione di
staminali che rigenerano parzialmente la mielina nel topo: sette topi su dieci
hanno ripreso la locomozione di cui non erano capaci per le lesioni cerebrali e
tre su dieci sembrano aver avuto un recupero completo. L’insieme dei dati
ricavati da molti lavori come questo, in vari laboratori in tutto il mondo,
aumenta le nostre conoscenze di biologia del sistema nervoso, cosa che è un
valore in sé, in quanto può contribuire al progresso di un numero indefinibile
di altre ricerche.
I giornalisti,
soprattutto quelli italiani, sembrano essere rimasti legati ad un’idea
ottocentesca della ricerca scientifica e, conseguentemente, alla “scoperta” che
un singolo individuo in un certo momento fa nel proprio laboratorio, magari
esplorando al microscopio uno spazio equivalente a quello periegetico dei
grandi navigatori. Per loro, sicuri di interpretare l’ignoranza nazionale,
esiste “la scoperta della cura della malattia”. Tutto al singolare, come vuole
la buona ed efficace “mitologia” propria dell’insegnamento delle scuole
elementari: Colombo scopre l’America, Marconi inventa la radio, Koch scopre il
bacillo della tubercolosi, ecc. Per costoro sembra sia inutile dire che le
malattie sono migliaia (solo le sindromi genetiche si stima siano circa 7.000,
con oscillazioni che variano secondo il criterio tassonomico adottato); inutile
sottolineare che la ricerca biomedica da oltre mezzo secolo si incentra su
molecole che sono parte di complessi sistemi; inutile dire che i gruppi di
ricerca che si occupano di un singolo problema o di una singola molecola in
tutto il mondo sono sempre numerosi e lavorano per anni. Ad esempio il gruppo
di Angelo Vescovi ha dedicato dodici anni all’isolamento delle staminali,
problema studiato in innumerevoli altri laboratori. E’ notoriamente difficile
definire il numero dei ricercatori che hanno contribuito all’ottenimento di un
risultato e, per quanto riguarda i meriti, non sempre il team che taglia il
traguardo dopo vari passaggi di testimone, nel corso di staffette che durano
decenni, è quello che merita di più la menzione ed il riconoscimento della
comunità scientifica.
Un risultato di rilievo
è sempre parte di una realtà di ricerca complessa e il suo valore richiede
competenza per essere compreso: questo concetto dovrebbe essere ben chiaro a
chiunque sia latore di informazione scientifica.
A
questo proposito mi sembra esemplarmente esplicativo il riferimento a Rita Levi
Montalcini: la nostra amatissima gloria nazionale delle neuroscienze ha
ricevuto il premio Nobel, come è noto,
per i suoi studi su una delle tante proteine importanti nel sistema
nervoso, il fattore di crescita dei neuroni (NGF), che certo non cura alcuna
forma di cancro o di altra malattia nota e che ha richiesto decenni di
sperimentazione e una straordinaria quantità di contributi perché si
cominciasse a comprenderne le funzioni.
Cercherò
di ricostruire a memoria le tappe salienti. I primi esperimenti che
dimostravano l’esistenza in sarcomi di pollo di un fattore chimico capace di
stimolare la crescita di fibre nervose, furono condotti dalla Montalcini con
Hertha Meyer dell’Istituto di Biofisica di Rio de Janeiro, presso questo
istituto brasiliano nel 1953. La ricercatrice italiana continuò gli studi alla
Washington University di St. Louis, dove lavorava sotto la direzione di Viktor
Hamburger fin dal 1947. Non le fu
possibile, però, fare grandi passi in avanti fino all’arrivo del geniale
biochimico Stanley Cohen. Fu Cohen che purificò per primo il Nerve Growth Factor che,
poi, con una diversa metodica, fu purificato anche da Silvio Varon ed Eric
Shooter della Stanford University. Per l’estrema difficoltà nel produrre NGF,
sarebbe stato oltremodo difficile procedere negli studi se Bocchini e
Angeletti, del Centro di Neurobiologia dell’Istituto Superiore di Sanità di
Roma, non avessero ideato un metodo per ottenere ingenti quantità del fattore
di crescita dalle ghiandole salivari di topo. Questo metodo fu sfruttato da
Ralph A. Bradshow e Ruth Hogue Angeletti che determinarono la successione di
aminoacidi del NGF, ovvero la sua struttura primaria. Definita la
sequenza, furono avviati in molti laboratori gli studi di comparazione con
altri peptidi, allo scopo di inferire ipotesi sul funzionamento e sui geni
preposti alla sua sintesi. William A. Frazier scoprì le analogie con
l’insulina. Lo studio strutturale fu iniziato da Eric Shooter che si unì
al gruppo di A. Berger, con il quale aveva formulato l’ipotesi della biosintesi
del NGF da un precursore che battezzarono Pro-NGF; ma per la definizione delle
caratteristiche fu necessaria la cristallizzazione -ottenuta da A. Wlodawer e
Keyth Hodgson- che consentì gli studi
mediante diffrazione dei raggi X.
J.
A. Hendry dell’Australian National University e i suoi collaboratori, per primi
ipotizzarono il ruolo del fattore di crescita nel determinare la sopravvivenza
di neuroblasti soggetti a morire nel corso dello sviluppo normale. Fu il gruppo
di Harvard, guidato da Robert B. Campenot, a dimostrare la capacità della
proteina di guidare la crescita delle fibre nervose. K. Stoekel e H. Thoenen
dell’Istituto di Immunologia di Basilea (oltre al già citato Hendry)
dimostrarono che i terminali assonici delle cellule gangliari captano il NGF,
che risale in direzione antidromica lungo il neurite fino al pirenoforo,
cioè al corpo della cellula. Greene e Tischler della Harvard Medical School
dimostrarono per primi che una linea cellulare derivata da un tumore
surrenalico, trattata con il fattore di crescita, acquisiva alcune specifiche
caratteristiche dei neuroni dei gangli simpatici. Si deve ad A. Bjorklung, B.
Bierre e U. Stenevi dell’Università di Lund la dimostrazione che neuroni
catecolaminergici cerebrali rispondono al NGF con una estesa ramificazione dei
prolungamenti.
Consultando
un po’ di bibliografia sull’argomento si potrebbe continuare per pagine e
pagine ma, ciò che già risulta evidente, è la complessa trama di nuove nozioni
che uno studio come questo ha tessuto, definendo l’ambiente in cui hanno preso
senso e valore i risultati di Rita Levi-Montalcini. E si deve anche notare che
il percorso di conoscenza si è snodato attraverso numerose ricerche non sempre
giunte a buon fine che, come quelle che hanno avuto successo, si sono avvalse del lavoro di tanti
ricercatori rimasti sconosciuti, perché sottintesi dal perfido “et al.” delle
citazioni formali.
Forse
sarebbe utile studiare un po’, o almeno leggere qualche resoconto come quello
appena tracciato, prima di spiegare a milioni di persone quello che non si è
assolutamente capito.
La distanza fra questi
studi e gli obiettivi clinici più facilmente comprensibili per il grosso
pubblico è ancora notevole, così i giornalisti scelgono la scorciatoia
peggiore, ossia invece di avvicinare le persone non specialiste alla realtà del
lavoro scientifico, modificano la realtà per adattarla a ciò che ritengono che
la “gente” possa capire e si aspetti di sentire.
Come ho già accennato a proposito
dell’impiego di cellule staminali nella terapia del morbo di Parkinson, i
risultati, dopo un iniziale entusiasmo, si sono rivelati un fallimento. Ma,
soprattutto, bisogna notare che gli esperimenti sugli animali, in ogni settore
della rigenerazione e riparazione neurale, si sono sempre rivelati poco
significativi per prevedere quanto sarebbe accaduto nell’uomo: Merzenich, il
cui gruppo è ritenuto leader nel mondo, è recentemente incorso nell’errore di
eccessivo ottimismo (si veda la lettera di Stuart Butler) nell’estrapolare i
risultati ottenuti nel topo e nella scimmia. Nel caso del lavoro condotto al S.
Raffaele di Milano dal nutrito gruppo di Vescovi e Martino, si deve anche
sottolineare che il modello di patologia autoimmune indotta nei topi non è
esattamente la stessa cosa della sclerosi multipla umana, sebbene ne ricalchi
le caratteristiche anatomo-patologiche. L’aspetto identico delle lesioni non è
garanzia di un uguale comportamento fisiopatologico, come spesso si è
riscontrato nella ricerca sulla malattia di Alzheimer: la sperimentazione
clinica ha spesso mostrato il comportamento diverso della patologia umana dal
modello animale che presentava la stessa morfologia di lesione cerebrale. L’essere
riusciti ad indurre nei topi lo sviluppo di placche in tutto simili a quelle
alzheimeriane umane aveva fatto ben sperare i ricercatori, ma la complessità
funzionale del sistema nervoso umano si riflette anche nel comportamento
patologico. Ad esempio, il siero in grado di dissolvere per lisi le placche nel
topo, con risultati straordinari, quando è stato impiegato in trials umani,
dopo un buon inizio, ha determinato lo sviluppo di una encefalite che ha
imposto l’interruzione della sperimentazione. Pertanto, anche per la
rigenerazione della mielina, si dovrà attendere la riprova della
sperimentazione clinica, dopo aver avuto le necessarie conferme di questi
risultati.
Se si pensa a questa
ricerca in funzione di una terapia per la sclerosi multipla, si deve osservare
che l’iniezione di cellule stem autologhe potrà essere impiegata nei primi
stadi della malattia o per arrestarne la progressione, perché la morte di un
gran numero di neuroni, come accade nelle fasi avanzate, ne richiederebbe la sostituzione con cellule
staminali in grado non solo di differenziarsi e contribuire alla massa critica
necessaria per svolgere funzioni grossomotorie, ma di modellare la propria
fisiologia secondo i circuiti danneggiati.
BM&L-Aprile
2003