BASI DEGLI EFFETTI BENEFICI DI UMORISMO E RISATE

 

(NONA E ULTIMA PARTE)

 

UMORISMO E RISATE COME TERAPIA. Probabilmente gli effetti biologici, più dell’efficacia del metodo di McGhee nel rendere più allegri e sereni individui sani, hanno avuto un ruolo decisivo nel persuadere molti psichiatri e psicologi clinici ad accettare la sperimentazione terapeutica in condizioni di sofferenza psichica come quelle derivanti da disturbi dell’umore di entità non grave[1]. E’ noto che la maggior parte dei casi di depressione ha origine in stati psichici di cronica attivazione dei sistemi dello stress e il peggioramento della reazione depressiva, che verosimilmente ha una base biologica nella perdita di neuroni ippocampali e di altri distretti proencefalici, avviene per effetto di circoli viziosi alimentati da fattori di tensione, allarme o paura. Per far fronte a questo problema, in molte tecniche psicoterapeutiche si insegnano modalità e strategie per gestire i sintomi e gli eventi in grado di innescare e mantenere le risposte patogene, in tal modo si spera di creare una distanza emotiva che modifichi la tendenza reattiva[2]. Secondo Barbara Wild, un corso che insegni ad assumere un atteggiamento mentale volto a cogliere gli aspetti divertenti delle esperienze e ad esprimere il proprio talento comico può contribuire a raggiungere questo obiettivo.

La Wild e la Falkenberg hanno istruito i pazienti volontari per il trattamento con il metodo di McGhee a tessere trame da commedia con i fatti della propria vita quotidiana, mettendo a frutto le esperienze maturate nella gestione dei corsi da loro rivolti a persone non affette da disturbi psichici.

Le due psichiatre di Marburg, per caratterizzare il senso dell’umorismo dei partecipanti (primo passo della procedura), hanno chiesto loro di raccontare una storia o una circostanza comica di cui sono stati protagonisti o alla quale hanno assistito; poi, sempre allo stesso scopo, hanno chiesto di fornire immagini o cartoni che questi avessero trovato divertenti.

Per il secondo passo del programma, hanno incoraggiato i volontari a vedere il lato risibile delle situazioni attraverso un gioco interpretativo di gruppo con aspetti assurdi e paradossali, e creando o raccogliendo storielle divertenti su situazioni e circostanze della vita quotidiana. Proseguendo nel training, sono stati eseguiti esercizi per le altre sei fasi del metodo McGhee esposte in precedenza.

E’ importante notare che sono state imposte delle regole volte ad evitare effetti negativi indesiderati[3]: era proibito fare dello spirito sulla base della derisione o del sarcasmo, e secondo qualsiasi altro atteggiamento sottilmente sadico, come pure era bandito il suscitare ilarità per disgrazie o danni occorsi ad altri. Naturalmente si concedeva come eccezione all’autoironia di poter essere malevola, soprattutto quando consisteva in una boutade a cuor leggero e non esprimeva sentimenti di autoaccusa.

Il risultato preliminare dello studio di Wild e Falkenberg ha accertato che il programma di McGhee può avere effetto terapeutico in senso stretto, migliorando temporaneamente il tono dell’umore dei pazienti depressi. Questo esito incoraggiante ha indotto le ricercatrici ad avviare un nuovo studio per valutare la possibilità di ottenere effetti di lungo termine senza l’impiego di farmaci.

In proposito si deve ricordare che la “humor therapy”, in associazione con un trattamento farmacologico standard, era già stata applicata nel disturbo depressivo. Marc Walter, con i suoi collaboratori dell’Università di Basilea, in Svizzera, nel 2007 ha riportato risultati positivi nel trattamento combinato di pazienti anziani depressi: i 10 soggetti che erano stati sottoposti al training volto a stimolare l’allegria e l’umorismo, erano più sereni e soddisfatti della propria vita delle persone appartenenti al gruppo di controllo che aveva ricevuto solo farmaci. Gli effetti positivi non erano limitati alle sensazioni soggettive, ma avevano investito notevolmente la sfera relazionale, perché gli anziani che avevano seguito il programma per il buon umore, nei rapporti con gli altri apparivano più vivaci, immediati, comunicativi, tendenti ad aprirsi nel colloquio e ad esprimere i propri pensieri.

Questi studi sono ancora agli inizi e la rigorosa applicazione in terapia psichiatrica di programmi come quello di McGhee incontra non poche difficoltà. In primo luogo si deve considerare l’inapplicabilità del metodo in tutte quelle condizioni in cui risulta impossibile provocare il riso e creare una comunicazione basata sull’umorismo e la comicità (sindromi autistiche gravi ed altre forme di disturbi pervasivi dello sviluppo, gravi ritardi dello sviluppo cognitivo, demenze in fase avanzata, psicosi con disintegrazione di processi cognitivi e/o affettivi, ecc.), poi si devono contemplare i casi individuali che includono la mancanza totale di senso dello humor, l’incapacità per motivi cognitivi, emozionali e/o culturali di seguire con attenzione il significato di una storia fino alla punch line, ossia al compimento che suscita il riso. A questi casi si devono aggiungere tutti quelli in cui, pur esistendo i requisiti potenziali per l’applicazione dell’esercizio, manca la compliance del paziente, che per varie ragioni non accetta l’idea di un simile training come cura per i propri sintomi o soluzione dei propri problemi.

Anche se la via da percorrere per un impiego della humor therapy nei trattamenti psichiatrici sembra ancora lunga e le indicazioni appaiono limitate ad un numero ristretto di disturbi e di casi, un più generico uso per far fronte agli effetti negativi dello stress e delle frustrazioni della vita quotidiana di un esercizio volto a promuovere le nostre risorse umoristiche e comiche, sembra avere una prospettiva più rosea. E, anche se non vogliamo o non possiamo partecipare ad un corso specialistico che migliori la nostra disposizione temperamentale e ci aiuti a cogliere gli aspetti grotteschi delle situazioni, sarà utile aver presenti i benefici effetti dell’umorismo e delle risate sulla nostra mente e sul nostro organismo, per coltivare un modo di essere e di affrontare la vita che certamente giova alla salute.

 

La curatrice della nota ringrazia il Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, autore della relazione qui sintetizzata e divisa in parti per i visitatori del sito.

 

Isabella Floriani

BM&L-Luglio 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: SINTESI DI UNA RELAZIONE]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] In questo paragrafo della relazione si fa riferimento solo alla sperimentazione controllata basata sull’applicazione a disturbi depressivo-ansiosi di programmi di training formalizzati e già verificati su volontari sani. Nel primo paragrafo  (si veda in Note e Notizie 16-05-09 Basi degli effetti benefici di umorismo e risate – prima parte) si è fatta menzione degli effetti antidolorifici del buon umore, ma in quel campo la ricerca è ancora agli inizi.

[2] A questo punto della relazione, il presidente ha osservato che molti autori fanno risalire a un’opinione espressa da Freud nel 1928 (per la precisione il saggio sull’umorismo fu dato alle stampe nel 1927), consistente nell’attribuzione al senso dell’umorismo della capacità di proteggerci da affetti naturalmente generati da alcune circostanze, l’origine della sua adozione  a scopo terapeutico. Ma la citazione non appare molto appropriata in quanto questo significato era stato rilevato già in precedenza e difficilmente, conoscendo i testi freudiani, si potrebbe attribuire al padre della psicoanalisi l’intenzione di usare l’umorismo come terapia. In Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (1905), sebbene riconosca all’arguzia la dignità di facoltà mentale da accostare ad intelligenza e memoria, non esita a paragonare ad una psiconevrosi la facile tendenza al motto di spirito e al comico. Giuseppe Perrella ha poi proseguito trattando nel dettaglio le opinioni espresse dagli “autori di Freud” su questo tema, fra cui quella del celebre psichiatra e nosografista Kraepelin nel saggio del 1885 sulla psicologia del comico, quella di Kant nella Critica del Giudizio (I,1,54), e poi ha citato i filosofi Vischer, Fischer e Lipps, il romanziere Richter, ecc. Si è scelto di non riportare questa parte della relazione, sia perché troppo specialistica, sia soprattutto per non interrompere il filo della discussione basato sulla rassegna.

[3] Non bisogna sottovalutare gli effetti negativi dei motti di spirito quando sono impiegati per dileggiare, svalutare o vilipendere qualcuno. In proposito, ricordiamo che l’interesse di Freud per il motto di spirito nei suoi rapporti con l’inconscio nasce proprio dalle storielle umoristiche sugli Ebrei, basate su luoghi comuni denigratori e caricaturali di quelli che si riteneva fossero i caratteri di un popolo. Questo umorismo in parte può essere accostato a quello tipico delle barzellette americane sui Polacchi (diventate in Italia le barzellette sui carabinieri) ai quali si attribuiva una stupidità in grado di dar luogo ad esiti assurdi e divertenti; in parte consisteva in cattiverie gratuite che mal celavano avversione ed ostilità, e che furono amplificate e diffuse ad arte dalla macchina di propaganda nazista per generare frustrazione, umiliazione e sensi di colpa nella minoranza di tradizione ebraica ed alimentare contro di essa l’intolleranza e l’odio razziale nei cittadini del Terzo Reich.