BASI DEGLI EFFETTI BENEFICI DI UMORISMO E RISATE

 

(PRIMA PARTE)

 

“Aristotele considerava la risata un esercizio fisico prezioso per la salute e Immanuel Kant riteneva che le tre strategie naturali adottate dagli esseri umani per far fronte al disturbo derivante dai problemi della vita quotidiana, sono ridere, sperare e dormire”. Con queste parole Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, ha introdotto l’incontro del gruppo di studio sui Positive Affects (PA), inizialmente costituitosi in seno al Seminario sulla felicità di Brain, Mind & Life che, ricordiamo, aveva preso le mosse da una serie di incontri tenutisi presso il caffè storico fiorentino “Gilli”, fra il 2006 e il 2007.

La relazione ha ripercorso le principali tappe dello studio scientifico della risata e dell’umorismo a partire da osservazioni condotte negli anni Trenta sul rilassamento muscolare indotto dal riso. Secondo questi studi pionieristici, la riduzione del tono dei muscoli esaminati si protraeva fino a 45 minuti dopo il cessare della manifestazione di divertimento e faceva supporre l’innesco di processi in grado di migliorare lo stato emotivo di base.

Lo studio delle emozioni in quegli anni risentiva delle tesi del fisiologo danese Carl Lange e del padre della psicologia americana, William James, che attribuivano ai processi nervosi periferici un ruolo centrale nella genesi dei vari stati affettivo-emotivi. Giuseppe Perrella ha sottolineato che James in “What is an Emotion?” (1884), un saggio basato su introspezione ed osservazione, sostiene che “le emozioni sono percezioni viscerali originate nel corpo, dove generano riflessi nei vari distretti dell’organismo: quando questi raggiungono la nostra mente, vi costruiamo su una storia”. Si comprende che una tale visione, che attribuiva la massima importanza alla periferia corporea e neurovegetativa come sede di origine degli stati emotivi, inducesse a porre la massima attenzione all’idea che una reazione psicomotoria come la risata potesse essere impiegata per modificare uno stato mentale, ritenuto epifenomeno di processi periferici. Allo stesso modo gli epigoni di Lange, i quali ritenevano che non si piange perché si è tristi ma che l’umore triste nasce quando il corpo sta per produrre le lacrime, sostenendo la derivazione neuromuscolare di alcune emozioni potevano facilmente attribuire all’evocazione del riso la capacità di mutare l’umore di una persona.

Nei decenni successivi prevalse la visione di Wilder Penfield che, stimolando con un elettrodo la corteccia limbica al di sopra dell’amigdala in soggetti svegli scalottati, provocò gioia, rabbia, commozione e cordoglio, dimostrando l’origine cerebrale delle emozioni. Il risultato di questa prova sperimentale ebbe subito l’unanime riconoscimento della comunità scientifica, anche perché faceva parte di quegli studi che avevano portato a definire con precisione le mappe corticali del controllo sensitivo e motorio di tutto il corpo[1], contribuendo a determinare un cambiamento culturale di portata epocale nel campo della fisiologia del sistema nervoso. Conseguenza non voluta di questa visione cerebrocentrica, fu l’affermarsi della tendenza a trascurare la periferia nervosa, relegandola spesso al ruolo di semplice apparato recettivo ed esecutivo di funzioni completamente ascritte all’attività encefalica.

Oggi, come vedremo in seguito, abbiamo una visione della realtà mente/corpo meno ingenua e schematica dei nostri padri nobili, e studiamo i complessi feedbacks e i feedforwards che esistono fra il centro e la periferia, ritenendo interessante l’interferenza con questi patterns funzionali da parte dell’evocazione di un evento fisiologico come la risata, consistente in una risposta neuromotoria tonica o tonico-clonica, in grado di generare rilassamento muscolare.

E’ interessante notare che, nello stesso periodo in cui fu descritto per la prima volta il rilassamento muscolare indotto dalla risata, si ebbe un’altra osservazione pionieristica che ha tracciato un solco nel quale prosegue la ricerca attuale: nel 1928 il medico newyorkese James J. Walsh notò che il riso riduceva il dolore causato dall’intervento chirurgico.

Si può dire che gran parte delle ricerche sviluppate nella seconda metà del XX secolo e in questo primo decennio del XXI, sul ruolo “terapeutico” e sul significato fisiologico del riso e degli stati mentali a questo collegabili, hanno seguito questi due filoni: 1) il primo, che ha considerato l’azione di rilassamento muscolare come parte di un quadro funzionale opposto a quello caratteristico dell’ansia, della paura e dell’allarme, con i suoi caratteristici patterns neurofunzionali e neuroendocrini; 2) il secondo, che ha studiato gli effetti antidolorifici del riso, del sorriso e dell’umorismo.

A questi due orientamenti tradizionali, negli anni recenti si è aggiunta la ricerca volta a definire le basi morfo-funzionali delle facoltà psichiche che ci consentono di cogliere il senso umoristico di qualcosa che percepiamo e di reagire con manifestazioni di gradimento. In particolare, lo studio del cervello mediante metodiche basate sulla risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging), sta cercando di definire la rete di aree implicate nell’apprezzamento di motti di spirito, barzellette, storie e circostanze divertenti.

 

[continua]

 

La curatrice della nota ringrazia il Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, autore della relazione qui sintetizzata e divisa in parti per i visitatori del sito.

 

Monica Lanfredini

BM&L-Maggio 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: SINTESI DI UNA RELAZIONE]

 

 

 

 

 



[1] Penfield W. & Rasmussen T., The Cerebral Cortex of Man. Macmillan, New York 1950.