TRASMISSIONE INTERPERSONALE DELLA CONOSCENZA
E’ esperienza comune
quanto sia diverso urlare o berciare al pubblico dal palco di un comizio,
conversare con amici in un caffè letterario o sussurrarsi parole mano nella
mano per aggiungere poco altro a ciò che dicono gli sguardi. Le differenze non
si limitano alla forma della comunicazione, ma riguardano l’atteggiamento
mentale che definisce ambiti di esperienza completamente diversi.
In
ciascuna di queste circostanze si determina, per effetto di evocazione,
l’attivazione di una specifica gamma di patterns mentali adatti alla
circostanza. Se all’interno di questi patterns mentali esiste uno spettro di
variazione che giunge fino alla caratterizzazione individuale per un soggetto
in un particolare momento, è pur vero che è possibile riconoscere una
condizione cognitivo-emotiva genericamente comune a queste tre diverse distanze
di interazione. Si pensa in maniera diversa, si percepisce e si decodifica
secondo una diversa disposizione, si richiamano alla mente i ricordi secondo
liste di priorità diverse.
Ben
si comprende quanto possa essere rilevante questo aspetto in ogni interazione
umana che comporti una definita esperienza di apprendimento.
Eppure,
soprattutto se si guarda la maniera in cui negli ordinamenti scolastici è
concepita l’istruzione, sembra che non si dia alcun peso a queste differenze
che rendono tanto diverso l’apprendimento nei rapporti uno a uno, in piccoli
gruppi o nei grandi uditori.
Non
sorprende che in Francia si stia verificando in questi giorni l’espansione
esponenziale del ricorso al “personal coach”, ossia a preparatori in
grado di personalizzare un insegnamento.
I
commentatori dei grandi mass media hanno parlato per lo più di
“moda”, magari paragonandola a quella del “personal trainer” per l’esercizio
fisico, trascurando il valore sostanziale all’origine di questa richiesta.
Infatti,
la maggior parte delle forme della didattica e della comunicazione, dalla
lezione universitaria al corso di aggiornamento aziendale, sono tarate sullo
schema della conferenza o della “presentazione” di un argomento ad un convegno.
Questa modalità può essere efficace e sufficiente per la trasmissione di
nozioni o di un “know how” schematico. Si rivela, invece, inadatta quando si
debbano sviluppare vere e proprie concezioni, quando si debba costruire una
mentalità, quando non si debba semplicemente acquisire un algoritmo, ma
piuttosto si debbano imparare i criteri per scegliere quale algoritmo
applicare; quando si debbano assumere grandi quantità di conoscenze complesse
nel loro adattamento a realtà mutevoli.
Non
si tratta certo di una scoperta recente. Infatti, nel mondo antico l’aio
trasmetteva un insegnamento personalizzato, così come faceva il filosofo con i
suoi discepoli, quotidianamente rispondendo a domande, dialogando, proponendosi
talvolta come esempio da imitare. L’artista rinascimentale correggeva
personalmente gli errori degli allievi molte volte al giorno, perché il loro
lavoro era parte della sua opera, e gli allievi trascorrevano ore ad osservarlo
e ad imparare per imitazione.
Il
rapporto di trasmissione interpersonale dell’esperienza e della conoscenza, che
ancora oggi sembra a molti la forma più adatta per insegnare un’arte o un
mestiere, è stato oggetto di una riflessione approfondita e di un dibattito fra
i soci di BM&L-Italia lo scorso mercoledì.
BM&L-Gennaio 2005