IL PUNTO SULLA TERAPIA CELLULARE NEL PARKINSON

 

 

L’impianto di neuroni dopaminergici fetali nell’encefalo di pazienti affetti da malattia di Parkinson, si pratica da molti anni e sembra ormai tempo di tracciare un bilancio e provare a definire cosa abbiamo imparato da questa esperienza, anche allo scopo di valutare se e come andrà proseguita.

Lo scorso sabato 24 maggio, su questo argomento, i soci della Società Nazionale di Neuroscienze “BM&L-Italia” hanno tenuto un incontro a Firenze, che ha preso le mosse dal lavoro, appena pubblicato, di tre gruppi di ricerca indipendenti che hanno valutato gli esiti dell’intervento in pazienti sottoposti a trapianto da 9 a 16 anni or sono (1. Kordower J. H., et al. Lewy body-like pathology in long-term embryonic nigral transplants in Parkinson’s disease. Nature Medicine 14 (5), 504-506, 2008; 2. Mendez I., et al. Dopamine neurons implanted into people with Parkinson’s disease survive without pathology for 14 years. Nature Medicine 14 (5), 507-509, 2008; 3. Li J. Y., et al. Lewy bodies in grafted neurons in subjects with Parkinson’s disease suggest host-to graft disease propagation. Nature Medicine 14 (5), 501-503, 2008).

Come è noto, le prime sperimentazioni hanno dato risultati contrastanti e, fino ad esperienze recenti, accanto a miglioramenti marcati e durevoli si sono registrati insuccessi tali da suggerire a qualche scuola neurologica l’abbandono di questo tipo di trattamento in attesa di progressi che ne consentano un’applicazione di più sicura efficacia. Pertanto, la possibilità di studiare post-mortem il cervello di persone affette, che hanno vissuto con cellule fetali sane impiantate e differenziate in loco per un periodo considerevole della propria vita, e significativamente lungo rispetto al decorso della malattia, ha fatto sperare di poter individuare gli elementi responsabili degli esiti dell’intervento.

La degenerazione e la perdita dei neuroni dopaminergici della substantia nigra che proiettano alle formazioni del corpo striato rappresenta il problema centrale nella fisiopatologia della malattia di Parkinson, pertanto l’intervento cui erano state sottoposte le 6 persone complessivamente esaminate dai tre gruppi di ricerca, era consistito nell’impianto di tessuto mesencefalico fetale nello striato.

In tutti e tre gli studi, l’osservazione ha consentito di rilevare che le cellule fetali, sviluppatesi come neuroni dopaminergici maturi, erano sopravvissute e si erano perfettamente integrate nel tessuto cerebrale del ricevente.

Un problema di fondamentale importanza per la valutazione dell’opportunità e dell’efficacia potenziale della terapia cellulare, è costituito dallo stato di salute dei neuroni impiantati: è importante verificare se i processi che determinano la malattia li lascino del tutto indenni o, nel tempo, interessino anche loro.

Kordower e colleghi del Department of Neurological Sciences e Center for Brain Repair del Rush University Medical Center di Chicago (v. sopra, 1. Kordower J. H., et al., 2008), e Brundin e i suoi collaboratori del Neuronal Survival Unit presso il Wallenberg Neuroscience Centre di Lund, in Svezia (v. sopra, 3. Li J. Y. , et al., 2008, in cui sono esaminati due casi di sopravvivenza a 11 e 16 anni), hanno riscontrato in una piccola percentuale di neuroni sviluppati dagli elementi cellulari fetali impiantati, la presenza di inclusioni contenenti α-sinucleina, corpi di Lewy e patologia Lewy-body-like; tutti segni che la malattia aveva interessato anche le cellule trapiantate.

Al contrario, il gruppo canadese della Dalhousie University e Queen Elizabeth II Health Sciences Centre guidato da Isacson (v. sopra, 2. Mendez I., et al., 2008) ha rilevato i classici segni delle alterazioni degenerative nei neuroni dell’ospite, ma non ha rilevato corpi di Lewy o inclusi contenenti α-sinucleina nelle cellule trapiantate dal mesencefalo fetale, ossia non ha riscontrato segni di patologia parkinsoniana nei neuroni di origine eterologa.

Le ragioni di queste differenze sono difficili da determinare, e si possono attribuire ai diversi protocolli terapeutici, all’ambiente tessutale nel quale gli elementi cellulari sono stati trapiantati o all’età delle cellule stesse al momento della morte.

A queste ragioni si può aggiungere, come osservato da Giuseppe Perrella e Diane Richmond, che i processi neurodegenerativi, inclusi nella comune definizione di malattia di Parkinson, siano in realtà eterogenei e presentino differenze patogenetiche e fisiopatologiche che potrebbero giustificare i diversi reperti.

Ma il gruppo di Isacson ha fatto un’osservazione di notevole rilievo: il tessuto mesencefalico impiantato non era costituito unicamente da elementi dopaminergici, ma conteneva neuroni con granuli di 5-HT. Poiché i neuroni serotoninergici sono stati associati all’insorgenza della discinesia seguente al trattamento con L-Dopa, si è osservato che, in futuro, sarà probabilmente preferibile eliminarli prima di introdurre il tessuto nervoso nel cervello del paziente.

Questi risultati, lungi dal fornire una risposta definitiva, propongono ancora un quadro problematico: 1) le cellule del mesencefalo fetale trapiantate possono sopravvivere per un periodo di tempo significativo e, in alcuni casi, determinare un discreto miglioramento clinico;

2) le cellule del tessuto trapiantato sono esposte a segnali verosimilmente provenienti dall’ambiente neuronico e gliale dell’encefalo del paziente, ma anche a processi interni al tessuto impiantato, dai quali dipende l’interessamento patologico e la progressione della malattia;

3) il tessuto impiantato non contiene solo cellule dopaminergiche, e questo potrebbe non risultare in un arricchimento fisiologico delle strutture encefaliche della persona affetta, ma costituire un fattore negativo per la presenza di elementi cellulari, come i neuroni serotoninergici, che in particolari condizioni possono contribuire alla genesi di sintomi.

In conclusione, il risultato di questi tre studi indica la necessità di una più approfondita conoscenza dei meccanismi molecolari della patogenesi della malattia di Parkinson, sia in generale per comprendere i processi che determinano la progressione del danno, sia per concepire e sviluppare una terapia cellulare su un fondamento di conoscenze più preciso e dettagliato, in grado di migliorare la qualità e il grado di certezza della prognosi post-trattamento.

 

Nicole Cardon & Giovanni Rossi

BM&L-Maggio 2008

www.brainmindlife.org