Ritorna la molecola del suicidio
Sul numero di marzo di “Le Scienze” Carol Ezzell ci spiega
che il suicidio è causato da difetti del metabolismo della serotonina
Quando nel 1976 il mio professore di anatomia microscopica, nonché mio maestro di istochimica, mi affidò un gruppo di colleghi per una ricerca bibliografica su serotonina, istamina e prostaglandine nel sistema A.P.U.D. (da Amine Precursor Uptake and Decarboxylation), si era in piena epoca di “amine biogene” e “neurotrasmettitori”. Ricordo che una mattina, varcando la soglia del laboratorio carico di fotocopie di articoli sulla serotonina e di domande sulle innumerevoli funzioni che avrebbe svolto questa molecola, il giovane professore, quasi mi avesse letto nel pensiero, disse: “La serotonina rivela l’istinto dell’Uomo a produrre pubblicazioni scientifiche”. Quella frase, una battuta di spirito intelligente e dissacrante al contempo, com’era nello stile dell’uomo, mi ha accompagnato per molto tempo. Qualche anno dopo, durante il mio internato in Clinica Psichiatrica, leggevo spesso articoli sulle basi neurobiologiche della depressione, dei disturbi del sonno e di psicopatie sessuali, tutti invariabilmente attribuiti al disordine del metabolismo di questa molecola, e ricordo che i professori di psichiatria erano non meno scettici e critici. Mi ritorna in mente, era forse il 1979 o il 1980, un lavoro documentatissimo eseguito su grandi numeri –come si suol dire- che metteva seriamente in crisi la teoria serotoninica della depressione: si era soliti misurare i tassi del catabolita urinario della 5-HT, il 5-idrossi-indolacetato, dando per assunto che l’aumento oltre un certo range fosse espressione di patologia e verosimilmente di depressione. Se nonché in questo lavoro si dimostrava, con la forza dei numeri, che il catabolita urinario della serotonina aumentava, quasi come nella depressione grave, in soggetti sottoposti ad intensa attività fisica ma soddisfatti e felici, forse anche per il compenso percepito per fare da cavia.
Il sospetto, che nella mente dei più anziani e più saggi era una certezza, della malafede dei ricercatori che lavoravano per le case farmaceutiche, induceva gli psichiatri a non tener conto dei risultati di quel tipo di ricerca clinica. Era ovvio che riportare una sindrome psichiatrica o un dramma esistenziale all’eccesso o al difetto di una molecola per la quale erano già pronti agonisti ed antagonisti farmacologici, semplificava molto la vita dei clinici più superficiali, accrescendo il fatturato di benemerite multinazionali e dispensando benefici effetti placebo, che estendevano la loro azione ansiolitica su curanti, curati e presentatori scientifici di case farmaceutiche.
Anche se molto abbiamo imparato sul cervello nell’ultimo quarto di secolo, era già chiaro allora che non esisteva un principio organizzativo banale del sistema nervoso fondato sui neurotrasmettitori e che non c’era un rapporto “uno a uno” fra una funzione psicologica e, ad esempio, neuroni a serotonina, a noradrenalina o a GABA.
Un’altra ipotesi che si era diffusa all’epoca, senza mai
prendere corpo in una tesi scientifica definita, era che molecole come la
serotonina, che fungevano da neurotrasmettitori, fossero le parole di un
codice, la cui decifrazione ci avrebbe dato importanti ragguagli sulla
fisiologia cerebrale. Non troppo coerentemente con questa ipotesi, la maggior
parte degli studi rimaneva di carattere quantitativo, cioè si misurava la
quantità del composto, la densità neuronale e, indirettamente, il numero delle
cellule per area studiata; man mano che si scoprivano nuovi recettori si
calcolava quanti di un certo tipo, piuttosto che di un altro, vi fossero in una
determinata regione per quel composto. Inutile sottolineare che gli studi
quantitativi che facevano riferimento ad aree cerebrali peccavano di ingenuità
localizzatrice. Ad esempio, supposto che il lobo frontale per convenzione
neuropsicologica fosse la sede della volontà, della personalità e delle abilità
logiche, i numerosi neuroni colinergici di quella regione, venivano arruolati
di diritto nell’esercito dei microscopici garanti del buon senso e
dell’intelligenza della persona; cellule che si parlavano fra loro con
l’acetilcolina, secondo costoro, ma senza che nessuno si prendesse la briga di
spiegare in che modo la “parola-molecola” potesse entrare in rapporto con il
“discorso-funzione”.
Pochi neurobiologi
erano disposti a prendere sul serio questo modo fantasioso ed approssimativo di
razionalizzare ed organizzare dati frammentari ed eterogenei. Si attribuisce ad
Axelrod, in un afterhour, la seguente critica all’ipotesi dei codici:
“Se pure fosse vera questa idea, non la si potrebbe dimostrare con questo tipo
di studi, sarebbe come cercare di capire il significato di un discorso in una
lingua sconosciuta dalla frequenza delle sue parole…Se un extraterrestre
applicasse questo criterio ascoltando noi, nel mio laboratorio, si
convincerebbe che “asshole” è il concetto più importante espresso dalla lingua
inglese!”
Ora mi chiedo, come è possibile dopo più di due decenni di importanti scoperte ed acquisizioni di fisiologia cerebrale, che si torni al marchiano errore di metodo di riportare uno stato mentale ed un comportamento alle variazioni quantitative di una singola molecola, in un’epoca orfana delle ipotesi o ubbie degli anni Settanta sul ruolo dei neurotrasmettitori.
Ma
certamente l’errore più grossolano è quello di livello.
Questo
tipo di errore, nelle discipline che studiano i rapporti fra mente e cervello,
è come una malattia tanto difficile da eradicare, da indurre molti a sopportare
con rassegnazione gli effetti della sua cronicità sulla comunità scientifica.
Ma, non
lo sa anche un bambino che il suicidio è un comportamento? E non lo sa anche il
più giovane studente di liceo che non esistono molecole-comportamento, ovvero
che la realtà biologica e culturale umana è un tantino più complessa?
Lasciatemi
riferire un altro ricordo, risalente questo agli anni Ottanta, proprio per
sottolineare che questi problemi non sono nuovi.
Ero con
un amico e collega ad un congresso che si teneva presso l’aula magna del nostro
ateneo, avevamo da poco ascoltato un relatore che aveva illustrato una
splendida review di aggiornamento sull’actomiosina, la troponina e tutto quanto
si era scoperto da poco sulle basi molecolari della fisiologia muscolare,
quando un appassionato e declamatorio oratore prese a parlare di ACTH e
cortisolo come delle basi molecolari accertate del suicidio. Per la serotonina,
ci disse, c’era ancora qualche dubbio, ma l’impressione che si ricavava dal suo
atteggiamento era che quei dubbi si sarebbero chiariti presto. Il mio collega
era sconfortato e disturbato dall’essere rappresentato culturalmente da quel
genere di impostazione e mormorò: “Ma perché noi che ci occupiamo di mente e
cervello dobbiamo apparire sempre più stupidi di coloro che studiano il cuore e
i muscoli? Mica il fisiologo muscolare ci ha detto che sono state scoperte le
basi molecolari delle punizioni di Platini e Maradona?”
Mi
sembra che questa critica, anche se richiede un po’ di conoscenza calcistica,
nella sua immediatezza sia molto più efficace di cento discorsi epistemologici
per illustrare l’errore di livello.
Non è
cosa da poco, perché questo genere di conoscenza scientifica assume valore in
ragione del quadro concettuale in cui viene assunta, in altre parole il rilievo
del dato biochimico o di neuroimmagine non ha significato di per sé come
un’evidenza. Scoprire un fiume, un lago o un monte non richiede una particolare
teoria scientifica per sapere in presenza di cosa ci si trovi: questo si può
paragonare alle scoperte morfologiche dei pionieri della microscopia. Camillo
Golgi scoprì l’organulo cellulare, poi indicato con l’eponimo “Complesso di
Golgi”, e non c’era bisogno d’altro per capire che qualcosa di nuovo era stato
trovato. Ma, per comprenderne il funzionamento, è necessario scomodare una
quantità di concetti, processi, teorie e meccanismi che investono campi che
vanno dalla citofisiologia alla proteomica.
Rilevare
l’incremento di un neurotrasmettitore, di un enzima che interviene nella sua
biosintesi o del suo metabolismo (con la PET) in una determinata area
cerebrale, senza considerare tutti gli altri processi funzionali conosciuti di
cui il fenomeno è parte, ha davvero poco significato.
Inoltre,
bisogna sempre tener presente che un quadro biochimico-funzionale che
accompagna uno stato mentale può essere la conseguenza e non la causa di questo
e, inoltre, che i metodi di genetica inversa non si possono applicare a questo
genere di studi, come ci ha magistralmente spiegato Bertrand Jordan[1].
Ciò
tenuto presente, si potrà leggere l’articolo (Le
Scienze, 415, 46-53, marzo 2003) senza il rischio di cadere nella
trappola di una iper-semplificazione che isola dal contesto ed ignora i livelli
funzionali e fenomenici. Per chi non abbia competenze specialistiche può essere
un’ utile lettura, in quanto si tratta di una trattazione svolta in una forma
piana e bene documentata, scritta da una giornalista scientifica che merita
rispetto, se non altro per la tragica vicenda umana che l’ ha colpita come
figlia di una suicida.
BM&L-Marzo
2003
[1] Bertrand Jordan, Gli Impostori della Genetica,
Einaudi, 2002.
Jordan, direttore del Centro Nazionale della Ricerca
Scientifica (CNRS), equivalente del CNR italiano, è anche a capo del
prestigioso centro di Immunologia di Marsiglia-Luminy.