LA RICERCA DELLO SPIRITO NEL CERVELLO

 

(SETTIMA PARTE)

 

Gli studi più importanti, come abbiamo visto fin qui, sono stati condotti su buddisti in meditazione e su religiose cristiane in contemplazione, in genere assumendo un’ipotetica equivalenza fra stati mentali indotti da due pratiche fondate su concezioni e tradizioni tanto diverse. In un certo senso, nel ritenere equivalenti lo stato meditativo e quello contemplativo, si è fatto di necessità virtù, per la nota impossibilità di accedere ai contenuti mentali con procedure che li rendano oggettivi. Infatti, se con le metodiche di studio attualmente impiegate si può facilmente distinguere un cervello attivamente impegnato nell’elaborazione di un pensiero da uno passivamente disposto al riposo, non è possibile leggere i contenuti ideativi, ed è oltremodo difficile ricondurre i patterns di attivazione osservati ad esperienze soggettive o a processi di elaborazione non cosciente.

In altre parole, in questi studi la ratio interpretativa indotta dalla necessità assimila le differenze legate alla religione a contenuti inesplorabili e, per questo, non rilevanti ai fini della ricerca. Riteniamo, invece, che differenze quali l’opposto comportamento dei lobi parietali nei buddisti e nelle suore, siano meritevoli di attenzione e possano essere oggetto di una riflessione che tenga conto della possibile influenza del tipo di pratica religiosa sulla neurofisiologia encefalica.

In proposito, osserviamo che la netta separazione fra stato cerebrale e suo contenuto, come se il primo fosse un semplice contenitore materiale del secondo[1], può nascondere un’insidia interpretativa non di poco conto, consistente nell’assumere la mai dimostrata indipendenza delle funzioni cerebrali che caratterizzano gli stati di coscienza da ciò che si pensa e dal modo in cui ciascuno, per effetto di cultura collettiva ed evoluzione individuale, adopera il proprio cervello. Si pensi, ad esempio, al diverso modo di concepire la coscienza da parte di buddisti e cristiani: sulle prime sembra possibile ridurre tutto ad una questione che riguarda la coscienza morale e non quella neurologica, intesa come stato vigile che consente l’orientamento nel tempo e nello spazio, ma ad una riflessione più attenta, si può osservare che il diverso modo di concepire il soggetto, il suo essere nel mondo e rapportarsi con la realtà, può incidere sulla coscienza tout court, potendo determinare un diverso assetto di alcuni correlati neurofunzionali degli stati mentali. Per questo motivo ci sembra utile discutere, sia pur brevemente, alcune differenze fra i due tipi di ispirazione religiosa.

Nel buddismo, come in altre espressioni della religiosità orientale, si suppone l’esistenza di uno stato cosmico di stabile equilibrio al quale il soggetto deve tendere ad appartenere. Per ottenere questa immaginaria fusione e percepire l’effetto benefico di un’armonia interiore, è necessario rinunciare alle istanze della volontà individuale ed indebolire la coscienza; infatti la maggior parte delle pratiche induce stati pre-ipnotici.

La coscienza per il cristiano è il luogo dell’incontro con Dio[2], la dimensione dell’essere in cui il soggetto veglia sul rischio di abbandonarsi agli istinti e sorveglia se stesso per evitare di distrarsi dal suo allocutore[3] e cedere alle lusinghe del mondo.

I cristiani, cattolici, protestanti ed ortodossi, fondano la propria spiritualità sul libero accoglimento della legge dell’amore, che sancisce un patto individuale con la divinità, in base al quale saranno giudicati[4]. Il libero arbitrio, somma espressione della libertà di coscienza, è il presupposto imprescindibile perché si abbia, nell’esercizio della volontà messa alla prova[5], la scelta dell’imitazione di Gesù Cristo. E’ in questa consapevolezza che assume valore lo scioglimento dei vincoli che legano l’uomo all’istinto e la loro sostituzione con i legami di responsabilità. Ed è nella consapevolezza condivisa, che si esercita il valore di testimonianza dell’agire cristiano. Scelta, responsabilità e testimonianza, tre cardini per la nascita e la manifestazione della fede, sono funzione della coscienza individuale, così come la vigilanza, ossia la sorveglianza di sé nella costante attenzione all’esercizio della virtù.

Questa profonda differenza fra le religioni affermatesi in Oriente e in Occidente, ci aiuta a capire il ruolo differente della pratica rituale in queste due realtà.

Nel primo caso l’esercizio quotidiano ha per obiettivo diretto la genesi di stati psico-somatici assimilabili ad un rilassamento profondo[6] e considerati manifestazione nell’essere di ciò in cui si crede; nel secondo caso, le principali espressioni del culto, dalle orazioni del mattino all’esame di coscienza serale[7] richiedono attenzione consapevole.

A corollario di questa distinzione schematica[8], vogliamo citare il caso di una pratica religiosa presente fra i cristiani d’Oriente, consistente nella reiterazione di una formula –ad esempio un’invocazione- centinaia di volte. E’ evidente la somiglianza con le tradizioni asiatiche di lunga e monotona ripetizione di suoni o parole che generano calma e rilassamento.

Per la comprensione del rapporto fra dimensione religiosa e dimensione spirituale è utile rilevare che, mentre nel buddismo pratica rituale ed esperienza spirituale largamente coincidono, nell’ispirazione più profonda ed originaria della vita cristiana, le pratiche rituali hanno valore solo in funzione del sostegno che possono dare allo spirito. Infine, ricordiamo che il cristianesimo non nasce come una religione, ma come la testimonianza di un fatto avvenuto in seno all’ebraismo: l’incarnazione di Dio nella persona di Gesù Cristo.

 

[continua]

 

L’ottava parte de “La ricerca dello spirito nel cervello” sarà pubblicata dopo le vacanze natalizie. Con l’ultima delle note su questo argomento, saranno forniti i riferimenti bibliografici delle fonti citate. Le autrici ringraziano il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, perché il presente testo è tratto dalla sua discussione settimanale al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini & Nicole Cardon

BM&L-Dicembre 2007

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 



[1] Anche in psicologia e in filosofia della mente l’annosa distinzione fra contenuto e coscienza costituisce un problema di non facile soluzione con il quale, per oltre quarant’anni, si è cimentata una folta schiera di studiosi che ha avuto in Daniel Dennet il suo capofila. Si veda: Daniel C. Dennet, Content and Consciousness, Routledge and Kegan Paul, Londra 1969 (testo originario, presentato come tesi di dottorato); la seconda edizione totalmente rivista è del 1986 ed è tradotta in Italiano: Daniel C. Dennet, Contenuto e Coscienza, Il Mulino, Bologna 1992.

[2] Nella cultura occidentale è il luogo privilegiato dell’essere, nel quale la volontà del soggetto si assume la responsabilità delle scelte.

[3] Il termine, introdotto da Edouard Pichon, indica un interlocutore materialmente assente, ma al quale si rivolge pensiero e parola.

[4] La teologia del patto, nel cristianesimo, prosegue la tradizione ebraica del Vecchio Testamento che, nei dieci comandamenti, esprime i vincoli che legano la coscienza morale alla volontà di Dio.

[5] Il sacrificio di Abramo è un esempio paradigmatico della prova: chiedendogli di sacrificare il figlio unigenito Isacco, Dio saggia la fedeltà del patriarca spingendolo oltre il limite del tollerabile per l’uomo, ma costatata la sua fede, lo ferma e lo premia con benefici estesi alle generazioni successive. Questo episodio biblico esemplare, richiama alla mente una costante della cultura giudaico-cristiana: Dio chiama e l’uomo risponde; una scena che ha per teatro la coscienza e per protagonista la volontà.

[6] Come abbiamo visto in precedenza, gli studi di Davidson e colleghi presso la Wisconsin-Madison University hanno dimostrato che maggiore è l’esercizio della pratica buddista, più rilevante è la riduzione di attività cerebrale; ciò che corrisponde allo stato di “concentrazione senza sforzo” riferito dai praticanti, può riflettere l’apprendimento cerebrale ad indebolire con maggiore immediatezza ed efficacia la coscienza.

[7] Schematicamente possiamo distinguere la preghiera, con scopo di comunicazione, e la cerimonia con intento di commemorazione. Nel Padre Nostro, esempio paradigmatico della preghiera cristiana, il credente si rivolge ad un Allocutore invisibile e presente nella propria mente, legando, attraverso la propria coscienza, l’individuale all’universale. I riti cerimoniali collettivi, che includono la preghiera e prevedono numerose forme e procedure, hanno in comune la commemorazione, nel senso etimologico di rendere attuale alla coscienza.

[8] Ci rendiamo conto che si tratta di una distinzione semplicistica ed approssimativa, tuttavia la proponiamo perché ci sembra efficace nel cogliere i due aspetti salienti della differenza.