LA RICERCA DELLO SPIRITO NEL CERVELLO

 

(TERZA PARTE)

 

Infatti, quando ciascuno degli otto buddisti tibetani partecipanti all’esperimento comunicava di aver raggiunto tale stato, la distribuzione del radionuclide nel cervello assumeva una configurazione del tutto peculiare, caratterizzata da una brusca caduta di attività in una estesa area del lobo parietale, associata ad un incremento funzionale nella corteccia prefrontale dorsolaterale, frontale inferiore ed orbitaria, oltre che nel talamo e nel giro del cingolo.

Newberg, d’Aquili e i loro colleghi, hanno fornito un’interpretazione di tale quadro sulla base di nozioni classiche di neuroanatomia funzionale (Newberg et al., 2001). Infatti, poiché la parte in questione del lobo parietale interviene nella perlustrazione, nella ricerca della direzione da seguire per raggiungere una meta, nell’esplorazione di ambienti nuovi e nell’orientamento spaziale, hanno ipotizzato che il suo silenzio riflettesse la cessazione di processi che collegano il soggetto con l’ambiente circostante, facilitando la sensazione di dissoluzione dei confini fisici e lo sviluppo del sentimento di fusione con l’universo. Allo stesso modo, l’iperattività della corteccia prefrontale è stata interpretata facendo ricorso alla sua ben nota importanza nell’attenzione, nella pianificazione e in compiti cognitivi che richiedono concentrazione: il suo reclutamento al picco dello stato meditativo rifletterebbe il fatto che il raggiungimento di tale condizione si ottiene spesso concentrandosi su un pensiero o su un oggetto (Newberg et al., 2001; David Biello, 2007).

Richard J. Davidson, con i suoi collaboratori della Wisconsin-Madison University, ha studiato centinaia di buddisti provenienti da ogni parte del mondo, impiegando la risonanza magnetica funzionale (fMRI).

La risonanza magnetica nucleare (MRI) consente di ottenere le immagini del cervello con il più alto grado di risoluzione spaziale e tonale e, dunque, con la massima fedeltà anatomica; perciò, fin dalla sua introduzione, è stata considerata la metodica elettiva per lo studio morfologico del sistema nervoso centrale. Come è noto, si basa sulla possibilità che hanno alcuni nuclei atomici di “risuonare”, ossia di assorbire e cedere energia nella forma di un segnale contenente informazioni sulla densità e sulle caratteristiche chimiche del tessuto; l’opportuna elaborazione di questo segnale si traduce in immagini. Il limite principale di questa metodica consiste nel non fornire dati sulla fisiologia dell’organo esaminato. Per avere immagini della funzione cerebrale si è fatto ricorso, a lungo, alla tomografia ad emissione di positroni (PET) con Fluoro-18-desossiglucosio che, pur presentando numerosi vantaggi rispetto alla SPECT (o SPET), rimane molto lontana dalla fedeltà anatomica che si ottiene mediante la IR (Inversion-Recovery) nella risonanza magnetica.

La messa a punto di tecniche che hanno consentito alla MRI di associare alla precisione anatomica lo studio dell’attività dei neuroni, realizzando una nuova procedura detta appunto risonanza magnetica funzionale (fMRI), ha fornito alla ricerca uno strumento prezioso per valutare quali siano le aree attive durante un processo psichico o uno stato mentale.

La fMRI è in grado di tracciare il flusso del sangue ossigenato, in virtù delle sue proprietà magnetiche che lo rendono diverso dal sangue povero di O2. Poiché questo flusso è diretto dalle richieste dei neuroni che sono attivi in quel momento, la fMRI è in grado di riportare fedelmente la distribuzione delle aree con le cellule nervose maggiormente impegnate in attività metaboliche al servizio della neurotrasmissione. Si presume che i gruppi neuronici più attivi durante un compito o nel provare un’emozione, siano quelli responsabili di tali funzioni, e l’interpretazione delle immagini prevede la taratura del giudizio sulla base di repertori standard di quadri cerebrali ottenuti da volontari in condizioni basali, o correlati a vari stati fisiologici e patologici.

Le osservazioni di Davidson, sulle prime, appaiono molto simili a quelle di Newberg e d’Aquili, ma ad uno studio più approfondito emergono interessanti differenze (Davidson et al., 2002).

Una prima differenza è data dalla maggiore precisione nella definizione delle aree, sebbene l’attivazione della corteccia prefrontale risulti confermata. Gli autori interpretano il dato come l’espressione della capacità dei praticanti esperti di concentrarsi a dispetto delle distrazioni dovute alla condizione sperimentale. Considerato l’alto numero dei partecipanti, la sensibilità e la fedeltà maggiore della fMRI rispetto alla SPECT, il risultato è stato accettato come definitivo.

Un altro dato emergente da questi studi è il riscontro, durante la meditazione, di una bassa attivazione cerebrale nei buddisti di lungo corso, rispetto ai praticanti meno esperti. L’interpretazione fornita dai ricercatori della Wisconsin-Madison University si basa su un principio di fisiologia cerebrale: un apprendimento consolidato da migliaia di ripetizioni migliora molto l’efficienza della prestazione, riducendo lo sforzo funzionale richiesto per l'esecuzione. Un’interpretazione alternativa potrebbe essere che l’obiettivo di un profondo stato meditativo corrisponde ad una bassa funzione psichica attuale, meglio ottenuta dai praticanti esperti.

Lo stesso Davidson ha recentemente proposto un commento che ci sembra maggiormente in linea con la nostra interpretazione alternativa: i veterani della pratica buddista dichiarano di aver raggiunto uno stato di “concentrazione senza sforzo” (David Biello, 2007)[1].

Vogliamo, a questo punto, richiamare l’attenzione su una conseguenza derivante dall’accettazione della spiegazione lineare, ed apparentemente quasi banale, data dal gruppo di Davidson alla minore attivazione nei praticanti esperti: se il quadro registrato con la fMRI nei meno esperti esprime uno sforzo funzionale, allora riflette in parte un’attività aspecifica e non strettamente correlata con i processi necessari alla meditazione.

Non si tratta di un’osservazione di poco conto, visto che gli studi condotti con metodiche di neuroimaging basano la loro validità su un’equazione fra immagine e funzione psichica studiata.

E’ interessante notare che in questo tipo di ricerche, se da un canto le funzioni psichiche sono poste al vaglio delle tecniche, dall’altro la sperimentazione costituisce un banco di prova per le tecniche stesse e per i ragionamenti interpretativi degli esiti, su cui si basa il senso che attribuiamo ai risultati.

In questa prospettiva, lo studio condotto da Newberg e d’Aquili su suore appartenenti ad un ordine francescano, l’anno successivo alla pubblicazione del lavoro sui buddisti appena discusso, può assumere un valore di verifica (Newberg, Pourdehnad, Alavi e d’Aquili, 2003).

I ricercatori della Divisione di Medicina Nucleare dell’Università della Pennsylvania hanno deciso di concentrare l’attenzione sulla fase più intima ed intensa dell’esperienza spirituale, perciò hanno scelto tre delle religiose cattoliche, che soddisfacevano il criterio di accedere ad un’intensa e profonda partecipazione, e le hanno sottoposte a SPECT durante una preghiera meditativa caratterizzata dalla ripetizione mentale di una formula verbale. In questa condizione, le suore vivevano la sensazione di essere estremamente vicine a Dio, fino a sentirsi in una completa comunione spirituale col divino.

Il profilo di attivazione cerebrale delle religiose cristiane per alcuni aspetti ricalcava quello dei buddisti ma, soprattutto, ha reso evidente che durante la meditazione hanno luogo vari processi cognitivi fra loro coordinati, che richiedono un affinamento metodologico per essere studiati[2].

E’ stato obiettato che, con le attuali metodiche, lo studio del correlato funzionale di uno stato di estasi meditativa è molto aspecifico e rischia di non avere un vero e proprio rapporto con il vissuto religioso. Secondo tale posizione critica, andrebbero studiati e confrontati vari aspetti della vita spirituale, e i ricercatori dovrebbero essere attenti a tutti i fenomeni che interessano la coscienza del soggetto producendo effetti comunicabili.  

Fra i ricercatori sensibili a questa prospettiva c’è lo stesso Newberg che, non molto tempo fa (2006), ha avuto modo di studiare la funzione cerebrale durante un evento eccezionale noto come “il dono delle lingue”, ossia un fenomeno che si verifica spontaneamente durante uno stato di intenso fervore religioso e consiste nell’esprimersi in vari idiomi, spesso incomprensibili ai presenti […]

 

[continua]

 

La quarta parte de “La ricerca dello spirito nel cervello” sarà pubblicata la prossima settimana; la quinta parte è prevista per quella successiva. Con l’ultima delle note su questo argomento, saranno forniti i riferimenti bibliografici delle fonti citate nel testo. Le autrici della nota ringraziano il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, che ha fatto conoscere loro questo campo di studi, presentandone i risultati al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini & Nicole Cardon

BM&L-Novembre 2007

www.brainmindlife.org

 

 

 



[1] Si veda alla p. 42 di David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[2] Come vedremo più avanti, Mario Beauregard dell’Università di Montreal ha studiato, mediante fMRI, 15 suore carmelitane che avevano risposto al suo appello nel quale si chiedeva la partecipazione a volontari “who have had an experience of intense union with God”. Beauregard ha scelto una procedura più specifica dello studio di uno stato meditativo.