LA RICERCA DELLO SPIRITO NEL CERVELLO

 

(DECIMA PARTE)

 

Se la “Spiritual Neuroscience” vuole rivendicare il diritto all’esistenza come branca distinta di studi, non può certo limitare i suoi interessi alle applicazioni terapeutiche della meditazione, ma deve approfondire ogni aspetto dell’influenza dell’esperienza spirituale sui processi cerebrali, dalle modificazioni fisiologiche nella correlazione mente-corpo, ad un diverso atteggiamento verso il mondo. Questo tipo di ricerca è solo agli inizi, e gli studi finora condotti non sono stati intrapresi sulla base di programmi e protocolli concepiti nell’ottica della dimensione spirituale intesa come realtà neurofunzionale. Ad esempio, è stata studiata l’influenza su parametri immunologici dell’assistere a guarigioni nel corso di cerimonie religiose, o sono stati valutati gli effetti sul sistema immunitario di un film dagli intensi contenuti di fede e speranza, ma non si è ancora provato a definire il pattern cerebrale neuroimmunologico che rende queste esperienze più efficaci nei credenti.

A questo riguardo le neuroscienze dello spirito stanno avviando un affascinante collegamento con la psiconeuroimmunologia, prendendo le mosse dagli effetti sul sistema immunitario degli stati mentali che rientrano nella definizione di affetto positivo (positive affect). Riportiamo di seguito uno stralcio della discussione del presidente di BM&L all’incontro di giovedì 24-01-08 del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

“L’uso del termine “affetto” è consolidato in psichiatria, psicologia e neuroscienze in generale, nel significato che Aristotile attribuiva alla parola greca corrispondente al termine latino affectus, ossia stato interno derivante da una condizione esterna. Sebbene la letteratura scientifica sui rapporti fra fenomeni biologici e sentimenti, emozioni ed affetti, faccia costantemente riferimento alla categoria “positive affect” (PA), ossia affetto positivo, non esiste ancora una definizione unanimemente accettata. In “Psychoneuroimmunology” (Ader, 2007) Marsland, Pressmann e Cohen adottano la definizione di Clark (Clark et al., 1989): “si definiscono PA quei sentimenti che riflettono un livello di impegno piacevole con l’ambiente come la felicità, la gioia, l’eccitazione, l’entusiasmo e la contentezza”. Ma in molti studi per PA si intendono processi e manifestazioni psicologiche diverse e varie. In alcuni casi si tratta di costrutti cognitivi e motivazionali, quali l’auto-stima, l’ottimismo, l’estroversione, la propositività e la consapevolezza dell’abilità; in altri casi si tratta di complesse misure della qualità della vita e del benessere soggettivo. […]

“Gli stati di PA sono stati associati con cambiamenti significativi nel sistema immune (Pressman e Cohen, 2005). I primi studi avevano rilevato un aumento di immunoglobuline A (IgA) di tipo secretorio, presenti nel sistema immune delle mucose e reperite in secreti come la saliva (Hucklebridge et al., 2000; Lambert e Lambert, 1995; McClelland e Cheriff, 1997). Questi studi, non sempre di facile interpretazione, sono stati criticati per le procedure seguite. Un approccio meno controverso ha impiegato la somministrazione di antigeni e la verifica della formazione del relativo anticorpo (IgA secretoria) con e senza l’induzione di affetto positivo: due studi hanno dato esito positivo, documentando un aumento del livello di IgA prodotta sotto l’effetto di PA (Stone et al., 1987; Stone et al., 1994), uno non ha confermato questo risultato (Evans et al, 1993).

“Gli studi più recenti hanno associato il PA con l’aumento di subpopolazioni di leucociti, ma il complesso degli studi offre risultati contraddittori alla luce delle attuali conoscenze. In un caso il PA ha determinato un effetto simile a quello generato da un agente stressante acuto (Segerstrom e Miller, 2004).

“In passato l’induzione di PA aveva determinato l’aumento della risposta proliferativa linfocitaria allo stimolo con mitogeni (Futterman et al., 1992).

“L’induzione di un umore positivo, che potremmo paragonare alle sensazioni di chi si sente in uno stato di grazia[1], può associarsi a livelli più elevati di alcune citochine (IL-2, IL-3) e più bassi di altre, quali interferon-γ e TNF-α (Mittwoch-Jaffe et al., 1995).

“E’ stato rilevato da vari ricercatori un aumento di cellule NK nell’induzione di PA, ma uno studio, condotto negli anni Novanta e non ancora smentito da ricerche successive, aveva fatto registrare un incremento di NKCA sia nell’induzione di stati affettivi positivi, sia in quella di stati affettivi negativi; in entrambi i casi sembra che l’effetto sia stato mediato dall’attivazione dell’ortosimpatico (Futterman et al., 1994). […]”

Questo stralcio dei dati proposti da Giuseppe Perrella è già sufficiente per rendersi conto di quanta strada vi sia ancora da percorrere per accertare e descrivere processi e meccanismi molecolari sottostanti gli stati psicofisici generati dalle esperienze spirituali. La determinazione, tuttavia, non manca in molti ricercatori, soprattutto fra quelli che più attivamente si stanno impegnando per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza e del valore dello studio delle basi neurobiologiche della dimensione trascendente.

Beuaregard sostiene che l’esperienza spirituale possa migliorare le funzioni del sistema immunitario e curare o prevenire disturbi psichici come la depressione, attraverso una visione positiva della vita che innesca circoli virtuosi nelle interazioni sociali ed innalza la soglia di squilibrio omeostatico ad eventi frustranti e stressanti. Paquette va oltre, sostenendo che la conoscenza degli elementi essenziali della fisiologia cerebrale della spiritualità potrà consentire la loro induzione in chiave terapeutica, modificando l’assetto funzionale di quei cervelli che sembrano disposti a generare scompensi psichici: “Noi potremmo generare una salutare ed ottimale matrice cerebrale”[2].

Una cosa è certa, nessuno oppone più resistenza a questo genere di studi e molti si attendono risposte utili sia per la scienza che per la fede.

D’altra parte, la precisa identificazione dei processi che consentono alle reti di cellule cerebrali di mediare esperienze mistiche, religiose e spirituali, se per i non credenti costituirà una conferma della natura biologica del fenomeno religioso, per i credenti potrà essere, come per le suore carmelitane che hanno consentito lo studio del loro cervello, un motivo in più per credere in Dio: ritrovare impressa l’impronta indelebile della Sua immagine in quei sistemi neuronici che ci consentono, solo se lo vogliamo, di incontrarlo dentro di noi.

 

Le dieci parti de “La ricerca dello spirito nel cervello”, pubblicate nelle “Note e Notizie” dal 10 di novembre del 2007 ad oggi, saranno raccolte in un unico testo corredato di bibliografia generale e speciale.

Le autrici ringraziano il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, perché la presente nota è tratta dalla sua discussione settimanale al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini & Nicole Cardon

BM&L-Gennaio 2008

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 



[1] Sia nel senso cristiano della Grazia, intesa come anticipazione terrena dello stato di beatitudine, sia nel senso dello stato d’animo positivo e costante descritto con varie formule in altre religioni.

[2] David Biello, Searching for God in the Brain., p. 45, Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.