LA VOLONTA’: DA SENECA ALLE NEUROSCIENZE

 

 

Velle non discitur: la volontà non si impara, affermava Seneca, il quale impiegava talvolta il termine voluntas con un significato vicino a quello che le moderne neuroscienze attribuiscono alle sue componenti costitutive non coscienti. In questa concezione la volontà non si identifica con l’intenzionalità cosciente che la esprime, ma con un processo più profondo che prenderà forma nella coscienza: “Nessuno può dire quale sia l’origine della sua volontà” (Seneca, Epist., 37, 5).

Da questa stimolante prospettiva ha preso le mosse un incontro di studio dal titolo “La volontà, dalla Stoa alle neuroscienze”, a margine del seminario permanente sull’arte del vivere di BML-Italia.

Nel corso dell’incontro sono state studiate le tesi contrapposte di Pohlenz e Grimal ed è stata dimostrata la fondatezza delle argomentazioni del primo, che riconosce originalità alla concezione della volontà di Seneca rispetto a quella dell’antica Stoa. Tuttavia, dall’acuta descrizione che Grimal propone del pensiero stoico è stato estratto un passo che consente un suggestivo accostamento con la prospettiva neuroscientifica attuale: “…l’esistenza di un moto istintivo dell’anima, uno slancio (impetus, hormé), che non è, in sé stesso, razionale, ma che è una manifestazione primaria dell’essere. Lo studio di questo slancio originario costituisce per gli stoici una delle parti principali della filosofia morale, e il compito della ragione è di agire su questo slancio, irrazionale in sé, per trasformarlo in volontà cosciente, aggiungendogli il consenso (adsensio)” (P. Grimal, Seneca, p. Garzanti, Milano 1992).

E’ evidente come si possa accostare lo slancio primario -l’hormé dell’antica Stoa e di Seneca- a quei processi cerebrali che sostengono la propensione ad agire (motivazione) e la spinta all’azione (conazione).

Giovanni Reale osserva che nella vecchia Stoa non c’è traccia di una volontà intesa come facoltà determinante e distinta dalla ragione e, sebbene questa scuola riconosca all’origine dell’azione una disposizione d’animo, riconduce, poi, questa disposizione alla conoscenza, secondo la più diffusa concezione intellettualistica dell’epoca. E’ Lucio Anneo Seneca a rompere lo schema dell’intellettualismo ellenico introducendo il concetto di voluntas.

“Il termine latino voluntas non ha nella lingua greca un corrispettivo che ricopra la stessa area concettuale, ma esprime un’esperienza etica nuova e di differente calibratura” (G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Bompiani, Milano 2004).

L’originalità del concetto di volontà in Seneca e la continuità con il pensiero degli antichi stoici sono bene illustrate da Giovanni Reale, ma già studiate in passato da Max Pohlenz, dal quale è stato tratto un altro spunto interessante: “Seneca, come non l’ha fatto per la coscienza, non inserisce la volontà in un sistema psicologico” (si veda: Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1967, alle pagine 89-90 del secondo volume e, in particolare, la nota 56 di pagina 90).

Nel corso dell’incontro, la discussione ha proprio affrontato questi due temi: 1) l’hormé in una prospettiva neurobiologica e 2) l’inserimento della volontà in un sistema psicologico.

Il secondo tema è stato svolto impiegando la teoria della coscienza di Gerald Edelman.

 

Roberto Colonna & Isabella Floriani

BM&L-Aprile 2006

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