SCHIZOFRENIA: TROVATA UN’ALTERAZIONE FUNZIONALE

 

 

Probabilmente lo studio migliore delle alterazioni cognitive che caratterizzano la schizofrenia, rimane quello condotto da Von Domarus, poi proseguito e ripreso da Silvano Arieti, ed efficacemente espresso e riassunto nel termine paralogica.

Oggi è invalso l’uso dell’aggettivo schizofrenico come sinonimo di contraddittorio e, probabilmente, non è estranea a questa deriva semantica la lettura e la vulgata traslata del saggio L’Io diviso di Ronald Laing, per decenni diffuso in tutto il mondo. Questa accezione non è solo iper-semplificativa, ma può rivelarsi fuorviante per chi, non conoscendo a fondo la psichiatria, voglia comprendere il senso di alcune ricerche di base. Per questo motivo ci sembra opportuno un piccolo approfondimento esplicativo per introdurre i risultati di una nuova ricerca.

 

La schizofrenia è la forma più comune di patologia psichiatrica grave o psicosi. Sebbene la distinzione fra nevrosi e psicosi venga ritenuta oggi troppo scolastica e sia stata abbandonata da molte scuole di psichiatria, rimane valida quando si voglia distinguere da quelle forme di sofferenza ansiosa che possono riguardare tutti noi (nevrosi), una sindrome caratterizzata da deliri, allucinazioni, regressione della personalità e distacco dalla realtà con atteggiamenti e comportamenti incongrui, abnormi od estremi rispetto al contesto (psicosi). La psicosi, nella forma schizofrenica, corrisponde in larga misura al prototipo del pazzo della cultura popolare italiana.

Un altro riferimento utile per chi non ha studiato psicopatologia e voglia orientarsi impiegando conoscenze di cultura generale, è dato dal fatto che nelle psicosi si suppone che siano determinanti particolari predisposizioni genetiche od alterazioni organiche cerebrali, talvolta espresse in vere e proprie malattie neurologiche.

Ciò premesso, ricordiamo con quale significato fu introdotto il termine schizofrenia.

Emil Kraepelin nel 1896 descrisse per la prima volta secondo precisi criteri nosografici questa malattia, chiamandola dementia praecox.

Questa definizione era già stata impiegata da Morel nel 1860 e da Pick nel 1891. In particolare Morel aveva pubblicato la prima descrizione psichiatrica di questa psicosi in un ragazzo di 14 anni, sottolineando come la compromissione delle sue capacità cognitive, che paragonava alla demenza dell’anziano, si fosse verificata così precocemente. Kraepelin, pur avendo il merito di aver approfondito lo studio delineando i confini di questa patologia rispetto alle altre, rimane a lungo in questo solco concettuale che focalizza l’attenzione sulla perdita delle funzioni legate all’intelligenza.

Pertanto, quando Bleuler nel 1911 pubblica la sua monografia, frutto di un lungo studio di ricerca sull’argomento, decide di ribattezzare la sindrome “schizofrenia” per sottolineare che la caratteristica fondamentale non consisteva nel complessivo e progressivo declino delle funzioni mentali come nella demenza, ma nella scissione delle varie funzioni psichiche.

In altre parole Bleuler notava la perdita della normale integrazione delle sottocomponenti delle funzioni psichiche complesse; integrazione cui siamo abituati dalla quotidiana esperienza di noi stessi e degli altri. Non solo il pensiero gli appariva incoerente, ma anche sintomi psicomotori e comportamentali come quelli che chiamiamo, ad esempio, manierismi e stereotipie, gli apparivano come il frutto di scissioni fra segmenti di attività psichiche che normalmente sono organizzati in schemi di comportamento coerente e finalizzato. 

Eugen Bleuler attribuì tutte le scissioni alla disorganizzazione del processo associativo, sintomo sempre presente nella schizofrenia insieme con un particolare atteggiamento mentale autoreferenziale che definì autismo. 

 

Alla luce di queste conoscenze è più facile comprendere il valore che possono avere i risultati di un interessante lavoro condotto con metodiche elettrofisiologiche da Spencer e collaboratori su 20 pazienti affetti da schizofrenia cronica e 20 soggetti di controllo  (Neural synchrony indexes disordered perception and cognition in schizophrenia. Proceedings of the National Academy of Sciences USA, di prossima pubblicazione nel corrente anno 2005).

Gli autori hanno impiegato un test percettivo, noto come Gestalt perception task, in cui venivano mostrate immagini nelle quali poteva essere presente o meno un quadrato dai contorni illusori. Nelle figure così definite, come quelle degli studi pionieristici di Gaetano Kanizsa, i contorni non sono marcati da una linea, ma si desumono per l’effetto prodotto sullo sfondo. Si ritiene che la percezione di queste figure, per quanto facile e spontanea, richieda un processo associativo che avrebbe la sua base in una attività elettrica cerebrale misurabile.

In sintesi, si può dire che la sincronizzazione dei circuiti si rivelava anormale negli schizofrenici, presentando un’alta correlazione con i sintomi principali della malattia.

 

Nell’opinione di BM&L la validità dello studio del gruppo di Spencer, al di là della portata effettiva dei suoi risultati, consiste nella coerenza metodologica con le più recenti acquisizioni neurobiologiche, secondo cui il livello di indagine al quale bisogna cercare le basi patologiche delle manifestazioni schizofreniche è quello della fisiologia dei circuiti, e non quello dell’alterazione di una specifica area o di un singolo neurotrasmettitore.

 

BM&L-Gennaio 2005