BRAIN MIND & LIFE E ALBERT EINSTEIN NELL’ANNO MONDIALE DELLA FISICA

SEMINARIO DI STUDI

 

 Firenze e Roma, novembre-dicembre 2004

 

 

SCHEDA INTRODUTTIVA

 

 

BRAIN MIND & LIFE DI ALBERT EINSTEIN

 

 

Quando sono nata Albert Einstein era già morto da tempo e sulla sua vita erano fiorite storie e leggende note almeno quanto la sua teoria della relatività. A appartengo, dunque, a quella generazione che ha conosciuto il mito di Einstein come prototipo dello scienziato e massima espressione del genio contemporaneo.

La sua unicità è stata eletta a simbolo di un’epoca, come era accaduto con Leonardo da Vinci per il Rinascimento, ma senza aspettare secoli di posterità, con la velocità tipica del Novecento e con una unanimità finora sconosciuta. Al punto che, a seguito dell’inchiesta di TIME magazine che proclamava nel 2000 Einstein uomo del secolo, molti lo candidarono quale simbolo del millennio.

Parte delle riflessioni che oggi vi propongo derivano da conversazioni avute in questi giorni con Giuseppe Perrella, il quale mi chiedeva cosa avesse di speciale il testo -inteso in senso assoluto- di Einstein. E, quando gli ho risposto: “Il limpido sviluppo dei ragionamenti”, mi ha detto più o meno così: “E’ troppo poco. Si potrebbe dire che questa è una qualità comune alla prosa scientifica di fine Ottocento ed inizio Novecento, soprattutto nella tradizione di lingua tedesca. Ad esempio, uno dei motivi che rende ancora affascinante ed attuale la lettura di un testo freudiano è la distinzione netta tra la descrizione oggettiva ed imparziale dei fatti, come se fossero fenomeni naturali osservati da un fisico, e lo sviluppo di ragionamenti precisi e coerenti, spesso aporemici, ossia aperti a due o più soluzioni. Quasi un Kant o un Hegel che descriva ed interpreti eventi della vita quotidiana rinunciando al gergo filosofico, ma con uguale efficacia logica e chiarezza espositiva.”

Questo commento ha agito da sprone e da guida nella ricerca di ciò che rende “speciali” gli scritti di Einstein: ne sono seguite lunghe ore di dibattito inframmezzate dalla lettura di testi. Le convinzioni che ho maturato sono frutto di queste discussioni e, perciò, non saprei dire con esattezza dove sia il confine fra le mie idee e quelle del mio interlocutore privilegiato. E’ certo che gli appunti che ho preso in questi giorni sarebbero sufficienti per scrivere un lungo saggio.

Se dovessi sintetizzare tutto quanto in poche parole, direi che l’ordine del testo di Einstein ci ha riportati all’ordine delle sue idee e questo, ci sembra di poter dire, si è rivelato come un vero e proprio abito del suo pensiero.

Se il compito di questa scheda introduttiva è quello di proporre delle priorità al dibattito, vorrei attrarre la vostra attenzione sull’ordinato procedere mentale di Einstein dal quale derivano direttamente due conseguenze: una incomparabile efficacia nell’illustrazione delle proprie idee ed una straordinaria capacità di esercitare la logica oltre i limiti del condizionamento culturale e psicologico.

La prima caratteristica lo rende il miglior divulgatore delle proprie idee e, direi, anche il miglior insegnante. Per rendersene conto basta confrontare una delle innumerevoli esposizioni della teoria della relatività prodotte nel corso degli anni con intento di divulgazione, con il testo scritto dallo stesso Einstein.

La seconda caratteristica contribuisce al successo della sua ricerca di soluzioni ai problemi posti dalla fenomenica della realtà.

In particolare, riflettendo sull’uso che Einstein fa della logica applicata alle conoscenze nel campo della fisica, ho soffermato l’attenzione sulla sua abilità nel sottrarsi al condizionamento psicologico.

Ogni attività mentale umana ha una componente psicologica, anche quando non appare perché consiste solo in un substrato represso che raccorda il pensiero al corpo.

Tuttavia è comune esperienza che alcune forme di impiego culturale del pensiero, il cui esempio più chiaro è rappresentato dal ragionamento matematico, possano rimanere immuni da ogni influenza soggettiva. In altre parole, la somma di due numeri o il calcolo di una derivata non cambiano con lo stato d’animo di chi li esegue.

Però il ragionamento matematico non è la mente, ma avviene in una mente. Perché possa essere immune da influenze che lo distorcano è necessario che la mente lo impieghi nella maniera giusta. Infatti, si può obiettare che l’automatica esecuzione di un calcolo equivale alla rievocazione di memorie, non all’attuale esecuzione di un ragionamento. Ma, in realtà, anche ragionamenti matematici come quelli appresi sui banchi scuola, per effetto dell’esercizio, diventeranno consolidati blocchi di memorie.

Questo richiede che si apprendano delle procedure e si impari a scegliere quelle giuste.

Ad esempio nella soluzione di un problema di geometria euclidea con l’impiego delle operazioni aritmetiche, il ragionamento matematico consente di applicare concetti appresi in geometria ed usare le tabelline per giungere al risultato numerico.

Tutto questo, quando è bene esercitato ed iper-appreso (overlearning), viene memorizzato in una forma molto compatta e catafratta nella nostra mente, che consente un uso sicuro e preciso, come accade per gli apprendimenti psicomotori necessari per scrivere al computer o suonare uno strumento musicale.

Si dice, di queste forme di apprendimento, che sono state proceduralizzate (si veda Giuseppe Perrella, Processi Cognitivi nell’Apprendimento, Cognitive Science Club, 3, 1-16, 1993). Queste forme di pensiero sono diventate meccanismi, ossia memorie automatiche impiegate secondo standard definiti di applicazione. E’ questa loro natura, che attinge al livello neurofunzionale, a proteggerle dai condizionamenti culturali e psicologici.

Al contrario, l’influenza della psicologia sul ragionamento matematico -che è quello seguito anche dal fisico teorico- nello studio volto all’interpretazione e all’organizzazione dei dati, è potenzialmente notevole. Infatti, nell’elaborare una nuova teoria si deve partire da un concepire, che avverrà nel campo aperto della mente del soggetto, in seguito al quale si sceglieranno le procedure per passi e le altre forme di conoscenza consolidata che corrispondono nella funzione “hardware” cerebrale a meccanismi automatizzati.

 

Oggi si fa un gran parlare di bias psicologiche -ossia di tendenze inconsapevoli che influenzano il ragionamento- ma, poi, non si riesce nella maggior parte dei casi ad evitarne l’influenza nefasta quando si teorizza. Einstein smonta pezzo a pezzo le bias che impedivano a molti studiosi di guardare gli orizzonti che lui esplorava e di vedere ciò che lui metteva a fuoco, rendendolo chiaro e distinto in una solare evidenza.

Ecco due esempi eloquenti, il primo tratto dalla nota alla quindicesima edizione inglese del saggio divulgativo sulla teoria della relatività (Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie) ed il secondo tratto dall’ottavo capitolo dello stesso saggio.

 

 

“…desideravo mostrare che lo spazio-tempo non è di necessità qualcosa a cui si possa attribuire un’esistenza separata, indipendentemente dagli oggetti effettivi della realtà fisica. Gli oggetti fisici non sono nello spazio, bensì spazialmente estesi. In tal modo il concetto di ‘spazio vuoto’ perde il suo significato.”

 

 

“L’origine psicologica del concetto di spazio, o della necessità di esso, è lungi dall’essere così ovvia come potrebbe apparire in base al nostro abituale modo di pensare. Gli antichi geometri trattano di oggetti mentali (retta, punto, superficie), ma non propriamente dello spazio in quanto tale, come più tardi è stato fatto dalla geometria analitica. Il concetto di spazio, tuttavia, è suggerito da certe esperienze primitive. Supponiamo che si sia costruita una scatola. Vi si possono disporre in un certo ordine degli oggetti, in modo che essa risulti piena. La possibilità di queste disposizioni è una proprietà dell’oggetto materiale “scatola”, qualcosa che è dato con la scatola, lo “spazio racchiuso” dalla scatola. Questo è qualcosa di differente per le varie scatole, qualcosa che in modo del tutto naturale viene pensato come indipendente dal fatto che vi siano o no, in generale, degli oggetti nella scatola. Quando non vi sono oggetti nella scatola, il suo spazio appare “vuoto”.

Fin qui, il nostro concetto di spazio è stato associato alla scatola. Ci si accorge però che le possibilità di disposizione che formano lo spazio-scatola sono indipendenti dallo spessore delle pareti della scatola. Non sarebbe possibile ridurre a zero tale spessore, senza che si abbia per risultato la perdita dello “spazio”? La naturalezza di tale passaggio al limite è ovvia, e ora rimane al nostro pensiero lo spazio senza scatola, una cosa autonoma, che tuttavia appare così irreale se dimentichiamo l’origine di tale concetto. Si può capire che ripugnasse a Cartesio il considerare lo spazio come indipendente da oggetti corporei, capace di esistere senza materia. […]

Orbene, se il concetto di spazio viene formato nella maniera qui sopra delineata, in connessione all’esperienza del “riempire” la scatola, allora lo spazio è originariamente uno spazio limitato.  Questa limitatezza non appare tuttavia essenziale; perché manifestamente si può sempre ricorrere ad una scatola più grande che contenga quella più piccola. In tal modo lo spazio appare come qualcosa di non limitato.”

 

[A. Einstein: Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie - gemeinverständlich, 1916. Ed. It. (tr. Virginia Geymonat): Relatività: Esposizione Divulgativa, Boringhieri, Torino, 1967. Riedito da CDE Milano su lic. Boringhieri, p. 44 e pp. 295-296].

 

 

Diane Richmond

BM&L- Novembre-Dicembre 2004

 

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