SABINE, IL MOSTRO E IL
PTSD EVITATO
Chi si ricorda di Sabine Dardenne,
l’eroica fanciulla sopravvissuta al sequestro di quel criminale cui si diede il
nome giornalistico di “mostro di Marcinelle”?
Lo scorso sabato Giuseppe
Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BRAIN MIND &
LIFE – ITALIA, introducendo un dibattito su dolore psichico, personalità e
patologia, ha proposto il caso di Sabine nella sua terrificante esemplarità di
condizione traumatica grave e protratta nel tempo che non ha determinato lo
sviluppo di disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
Il libro-diario, di recente
pubblicato in Italia (Sabine Dardenne, “Avevo 12 anni, ho preso la mia bici…IL DIARIO
DEGLI 80 GIORNI CON IL MOSTRO DI MARCINELLE”, Bompiani, Milano 2004), oltre a rappresentare
un’importante testimonianza di una tragedia umana, fornisce spunti interessanti
per riflettere almeno su due questioni di estremo rilievo: 1) la scelta operata
da Sabine contro il parere dei sanitari, che si è rivelata appropriata ed
efficace per la sua salute psichica; 2) il rischio di perdere il buon senso
ispiratore delle prime terapie psicologiche, nella realtà di servizi largamente
concepiti sulla base dello standard procedurale dell’intervento
medico-chirurgico ambulatoriale.
Sabine, dopo il primo colloquio
impostole dalla routine, dice di non aver voluto più parlare con uno psicologo,
perché -sostiene- era questa la maniera più giusta per uscirne. Voleva
allontanarsi dalla tragedia e vivere: spiega che i “perché” e i “come” degli
psicologi l’avrebbero fatta diventare matta. In altre parole, avrebbero agito
da perpetuatori ed attualizzatori del trauma, cosa che lei non era disposta a
subire.
I suoi familiari sono stati
seguiti da uno psicologo per anni e volevano che anche lei partecipasse a
sedute di terapia familiare.
Sabine ricorda che il suo avvocato
aveva ben compreso la sua esigenza di vita normale, per questo desiderava
parlargli, ma ciò le veniva impedito perché minorenne.
La giovanissima ed eroica vittima
cercava di allontanarsi da tutto ciò che le ricordava quell’arresto della sua
esistenza, per coltivare una vita psichica sana, di cui sentiva desiderio ed
urgenza; si capisce come l’approccio diagnostico standard con l’impiego di tests
accademici formali le apparisse più che inappropriato. Nel suo libro
ridicolizza l’impiego dei tests reattivi, proponendo il metodo come evidenza di
un’assurdità: “volevano che reagissi”.
Infatti, faceva notare il presidente di BM&L, il modello diagnostico-terapeutico che nasce con la psicoanalisi freudiana e poi si evolve nelle varie branche e forme della psicologia clinica contemporanea, origina da una richiesta di aiuto motivata da una condizione di malattia o da uno stato di male. E, di volta in volta, lo psicanalista e, poi, lo psichiatra o lo psicoterapeuta, sono interpellati liberamente dalla persona stessa, che suppone e spera di poter essere aiutata. Eccezione è il caso di bambini tanto piccoli, come il celeberrimo “piccolo Hans”, per il quale Freud viene consultato dai genitori che, in tempi diversi, erano stati suoi pazienti. Ma Freud parlerà con il piccolo Hans, affetto da fobia, con naturalezza, favorendo l’interazione spontanea, senza che questi potesse avvertire l’artificio di una circostanza formale.
La migliore tradizione di psicoterapia, anche quando non fondata sulle teorie psicoanalitiche, ha rispettato a lungo questa impostazione.
E’ l’evidenza patologica e/o la spontanea richiesta di aiuto del soggetto che chiama in causa l’esperto della mente.
Se la concezione di malattia psichica di Freud (conflitto, ritorno del rimosso, inconscio patogeno, ecc.) rimanda sempre alla persona, questo deriva dal fatto che si considerava ammalato chi presentava un “funzionamento mentale patologico” secondo i criteri di quel tempo, oppure chi si sentiva “ammalato”. La malattia doveva essere un’evidente condizione di alterazione (metafora del “disease” che in medicina indica l’oggettività patologica) oppure una soggettiva percezione di malessere (“illness”) che portasse il soggetto a richiedere aiuto.
Sabine si sentiva estranea
all’orrore ed alla perversione che le erano state imposte dalla sciagurata
fatalità: non era quella la sua malattia, ma la malattia del suo
aguzzino. Non voleva dopo 80 giorni di incubo continuare a parlarne, continuare
a coartare e compromettere la sua identità con quel fatto mostruoso che non le
apparteneva. Forse, se la sua personalità avesse ceduto, perdendo l’equilibrio
di fondo, il suo atteggiamento mentale sarebbe stato diverso. Ma ciò non è
accaduto. Sabine voleva liberarsi di quell’incubo, vivendo intensamente
l’attualità dei temi e dei problemi di una ragazza che passa dalla pubertà
all’adolescenza, e che cerca di costruire il proprio futuro fra piccoli e
grandi sogni, desideri, illusioni e speranze.
Sabine dice: “Credono che tu sia
malata, invece è solo un fatto che è successo…Punto.”
Questo il programma di Sabine
Dardenne: l’intensità nella vita di tutti i giorni ed il silenzio sulla
questione fino a quando se ne è sentita lontana abbastanza per scrivere questo
libro. In una recente intervista ha dichiarato: “Oggi farei volentieri una
terapia, ma non una cura, piuttosto un’esperienza di conoscenza per migliorare
le mie capacità di vivere appieno la mia vita”.