LA RISONANZA MAGNETICA COME MACCHINA DELLA VERITA’

 

 

E’ più che mai d’attualità negli USA il dibattito sull’impiego di tecniche di tomografia cerebrale, come la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), per accertare se un imputato o un testimone abbia mentito. Sono sempre più frequenti gli articoli che trattano questo tema sulle più autorevoli riviste forensi d’oltreoceano, soprattutto da quando alcuni rappresentanti di società produttrici delle apparecchiature e vari gruppi di ricerca, hanno pubblicamente dichiarato che è possibile svelare le menzogne. Ciò che più colpisce i giuristi europei esperti di processo penale, è che in America il dibattito teorico non si sviluppa intorno al ruolo che assume nel quadro probatorio complessivo la perizia o la consulenza tecnica di parte basata sul neuroimaging, ma piuttosto su limiti di impiego legati a parametri quali la risoluzione funzionale della macchina e i costi, come se si disponesse di un lettore cerebrale di verità che impiega una procedura unica, standardizzata e tale da poter prescindere dalle interpretazioni del medico esperto di diagnostica per immagini.

Il motivo di questa differenza culturale fra America ed Europa è facile da rilevare: negli Stati Uniti le corti di giustizia hanno accettato per prassi costante l’uso, in corso di dibattimento, di apparecchi misuratori di stati neurofunzionali corporei, allo scopo di verificare l’attendibilità di un testimone o di un imputato. In altre parole, per gli Americani la fMRI è la macchina della verità del terzo millennio.

La falsa idea che sia possibile scientificamente vedere la verità e la menzogna nel cervello, è così diffusa ed autorevolmente sostenuta, che è dovuto scendere nell’agone del dibattito un neuroscienziato del calibro di Michael Gazzaniga per smentire le ripetute affermazioni erronee pubblicate in questi ultimi mesi (Scott T. Grafton et al., Brain scans go legal. Scientific American Mind Vol. 17, No 6, 30-37, 2007).

L’argomento era stato già trattato di recente sulla stessa rivista da Thomas Metzinger in un articolo dal titolo “Exposing Lies” (Scientific American Mind October/November 2006) ed indagato con rigore nel volume curato Semir Zeki ed Oliver Goodenough (Law and the Brain, Oxford University Press 2006).

Vediamo ora su quali presupposti e dati sperimentali si fondano le tesi dei difensori dell’impiego dell’imaging funzionale per svelare la falsa testimonianza.

1) Misurazione degli effetti periferici dovuti all’attivazione dei sistemi dello stress. Su questa procedura si basavano i responsi delle prime “macchine della verità” introdotte nei tribunali statunitensi. La ratio dell’impiego si fonda sull’ipotesi che quando si mente, invariabilmente, si ha una reazione ansiosa caratterizzata da un’eccitazione simpatico-midollare e dell’asse ACTH-cortisolo.

Nonostante i riscontri negativi degli studi retrospettivi sull’affidabilità delle prime macchine della verità, la “credenza” relativa alla presenza costante di una reazione ansiosa che tradirebbe la bugia, è sopravvissuta all’uso delle macchine elettrofisiologiche e supporta l’impiego di tecniche di brain imaging funzionale in grado di documentare l’attivazione di aree cerebrali che mediano le risposte allo stress.

Pur ammettendo che la menzogna generi sempre un’attivazione dei sistemi cerebrali dell’ansia e dello stress, è evidente la fallacia di una simile prospettiva in relazione ai falsi positivi: anche un innocente può essere ansioso o preoccupato quando sottoposto ad interrogatorio, e chi è ingiustamente accusato può avere una risposta ansiosa più marcata di un colpevole che menta in una circostanza in cui si senta sicuro di non correre rischi.

2) Nel mentire emettiamo un giudizio morale di condanna del nostro operato. Studi controllati hanno messo in relazione l’attività di alcune specifiche aree cerebrali con il giudizio morale, e in altri studi condotti mediante fMRI è stato evidenziato che molti volontari, in circostanze comparabili con quelle della falsa testimonianza, attivano le stesse aree. Si può tuttavia osservare che, seppure si dimostrasse che lo stesso profilo di attivazione è sempre presente in tutte le persone che stanno elaborando un giudizio morale, e che quel profilo voglia dire che inconsciamente la persona si autocondanna, ciò non equivale a dire che si è dimostrato che menta. E, d’altra parte, se si dà una scorsa al complesso delle ricerche condotte mediante fMRI, è facile rendersi conto che le presunte “aree del giudizio morale” intervengono in numerosi altri processi mentali.

3) Le persone che mentono in un’aula di giustizia sono attente alla plausibilità delle proprie affermazioni. Si ritiene che chi mente tenda a fare in modo che la propria versione sia coerente con i fatti emersi nella causa, con le prove presentate alla corte e con la ratio proposta dall’interrogante. Una tale esigenza richiede tempo e riflessione, due parametri che possono essere valutati mediante scansioni cerebrali. Anche in questo caso, l’obiezione è facile: non esiste un modo per accertarsi che i processi cerebrali connessi con un tempo di latenza maggiore e una più attenta riflessione, siano dovuti alla manipolazione delle risposte e non ad altri fattori.

4) Nella popolazione generale esiste una tendenza spontanea a dire la verità, perciò ogni menzogna è frutto di inibizione. Questa è fra le affermazioni più deboli che si possano proporre in un’aula di giustizia, soprattutto alla presenza di esperti operatori del diritto e di periti psichiatri, psicologi e criminologi. Ma, accettando l’esistenza di un sostrato neurofunzionale inibitorio non evidente nei mentitori incalliti e in molti altri casi, si può rilevare la presenza di una inibizione anomala e attribuirla alla elaborazione di una menzogna. In condizioni di laboratorio è stata provata la possibilità di documentare con precisione questo stato cerebrale nei soggetti ai quali era stato chiesto di mentire. In tribunale, però, questo criterio può rivelarsi inaffidabile, perché non è possibile discriminare fra inibizione dovuta a menzogna e inibizione dovuta ad altre cause: Michael Gazzaniga e i suoi collaboratori notano che gli accusati sottoposti ad interrogatorio devono inibire la loro naturale tendenza a dire tutto ciò che sanno per limitarsi a dare risposte circoscritte a precise domande. Inoltre, si può osservare che in ogni condizione che genera emozione aumenta l’attività dei gruppi neuronici con funzioni inibitorie: ad esempio, il cervello di un teste che conosce e teme l’atteggiamento di un avvocato o di un membro della corte, o che nutre sentimenti negativi nei loro confronti, potrà mostrare un grado più elevato di inibizione neoencefalica nelle risposte, per controbilanciare l’effetto emotivo dovuto all’interazione con quelle presenze temute o sgradite.

Da ultimo -ma primo per importanza- ricordiamo che da decenni le ricerche condotte da Elizabeth Loftus hanno dimostrato che è possibile che si creino in vario modo falsi ricordi nel cervello e che vengano trattati allo stesso modo di quelli veri.

In conclusione, si può dire che non esistono presupposti scientifici per impiegare tecniche basate sulla risonanza magnetica nucleare come prova decisiva nel giudizio di colpevolezza o di falsa testimonianza, e, soprattutto, riteniamo doveroso affermare che le distorsioni e le forzature dei risultati scientifici alla base di un tale impiego forense, meritano la severa condanna della comunità scientifica internazionale.

Resta da chiedersi perché negli Stati Uniti d’America, dove il livello di istruzione e di cultura scientifica è fra i più alti al mondo, si continui a cercare la “macchina della verità”. Una risposta convincente mi sembra quella proposta da Monica Lanfredini nella nota a questa seguente.

                                                                         

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella e Nicole Cardon, con i quali ha discusso l’argomento, e Isabella Floriani per il riassunto del testo e la correzione della bozza.

 

Diane Richmond

BM&L-Gennaio 2007

www.brainmindlife.org