LA PERCEZIONE DEL DOLORE NELLA DONNA

 

 

Una convinzione diffusa, risalente alle epoche storiche più remote, vuole che le donne siano più vulnerabili degli uomini al dolore, ma negli ultimi decenni il credito attribuito a questo luogo comune è andato scemando, soprattutto in virtù del superamento dello stereotipo culturale di inferiorità che si voleva radicata in una fragilità biologica, bene esemplificata dall’espressione “sesso debole”. In altre parole, le vere o presunte evidenze di maggiore sofferenza provata a parità di stimoli, sono state spesso spiegate riportandole ad influenze culturali esercitate sia sull’atteggiamento soggettivo, sia sul giudizio collettivo. Si è fatta strada, così, la tendenza a considerare la percezione del dolore fisico identica nei due sessi[1]  e il riscontro statistico di un maggior impiego di analgesici centrali ed antidolorifici periferici da parte delle donne è stato spiegato con una nozione epidemiologica inconfutabile: il sesso femminile è gravato da una maggiore incidenza di malattie caratterizzate da intenso dolore cronico, quali la fibromialgia, l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, ecc.

Recentemente Ingrid Wickelgren è ritornata su questo argomento (Ingrid Wickelgren I do not feel your pain. In Mind on Pain. Scientific American MIND 20 (5), 50-57, 2009).

I progressi nelle conoscenze e nelle metodologie di studio del dolore hanno consentito di mettere alla prova l’ipotesi di una differenza sessuale nella soglia di percezione degli stimoli algici e nella capacità di tollerare il dolore. I tests di laboratorio hanno stabilito che le donne, a parità di stimoli, hanno una soglia più bassa[2] nella percezione del dolore ed una minore tolleranza[3] della sofferenza fisica. Gli ormoni steroidi sessuali sembrano avere un ruolo non secondario nel determinare questa differenza.

Durante il ciclo mestruale la maggiore percezione del dolore si ha in genere in corrispondenza del periodo ovulatorio, quando aumenta il livello del progesterone e quello degli estrogeni è ancora abbastanza alto. E’ stato provato che gli estrogeni possono accentuare il dolore e, uno dei meccanismi molecolari accertati, consiste in un’azione sui recettori nocicettivi posti sulle membrane dei nervi che veicolano le stimolazioni dolorifiche. D’altra parte è noto in ginecologia che l’ormonoterapia sostitutiva accentua la percezione del dolore, mentre l’impiego di farmaci che riducono l’azione degli estrogeni in molte sindromi dolorose croniche determina un effetto antidolorifico di lunga durata. La comprensione del ruolo del progesterone richiede ulteriori ricerche, ma sembra che in talune condizioni possa antagonizzare gli effetti negativi degli estrogeni; infatti durante la gravidanza, quando questo ormone raggiunge in assoluto i picchi più elevati per il tempo più protratto, si ha una notevole e duratura riduzione della percezione del dolore. Naturalmente è probabile che altri fattori, che fanno parte del complesso quadro di modificazioni molecolari e sistemiche che si verificano in epoca gestazionale, possano spiegare questo stato di ipoalgesia.

Ma l’aspetto più interessante è costituito dall’esistenza di differenze fra i due sessi nell’elaborazione nervosa centrale degli stimoli nocicettivi, pur su una base morfo-funzionale macroscopica identica[4]. Nel 1999 Coghill e collaboratori hanno fornito la prima documentazione scientificamente significativa di tale diversità in uno studio nel quale un diverso giudizio di intensità nella valutazione soggettiva corrispondeva perfettamente al quadro oggettivo dell’attività encefalica: a parità di stimolo nocicettivo le donne soffrivano di più degli uomini e presentavano una maggiore attivazione delle aree cerebrali preposte all’elaborazione delle sensazioni dolorose.

Questi risultati hanno ottenuto numerose conferme ed è stata avanzata un’ipotesi per spiegarne la causa: la rete neuronica che realizza una sorta di via discendente preposta al controllo del dolore mediante l’azione di analgesici naturali quali le endorfine, sarebbe meno sviluppata o meno attiva nella donna.

Una ricerca condotta nel 2002 da Jon-Kar Zubieta[5] e collaboratori, verificò questa possibilità studiando una parte del sistema di feedback negativo del dolore in donne e uomini sottoposti ad un’acuta ed intensa esperienza dolorosa.

Divisi per genere in due gruppi di 14, i volontari riceverono un’iniezione salina nella guancia che provocò loro una sofferenza atroce, anche se di breve durata. Durante l’esperimento, i ricercatori studiavano l’encefalo dei 28 volontari mediante neuroimaging funzionale focalizzato sulle aree corrispondenti ai sistemi neuronici che riducono la risposta algica rilasciando endorfine che si legano ai recettori oppioidi mu. Risultò evidente che nei 14 uomini il sistema inibitorio del dolore rilasciava una quantità decisamente maggiore di endorfine e presentava un’attività dei recettori mu marcatamente più elevata.

Un fenomeno ben noto nella percezione del dolore è l’interferenza inibitoria prodotta da uno stimolo algico su un altro: un dolore intenso o di lunga durata che affligge una parte del corpo - come una risposta nocicettiva artificialmente indotta su una mano in un esperimento o una sciatalgia di cui si soffre da tempo - può sopprimere una percezione in un’altra sede - come una scarica elettrica sull’altra mano o un mal di stomaco improvviso. Si ritiene che questo effetto sia dovuto all’attivazione da parte del dolore principale della via endorfinica di soppressione del dolore e che l’azione di questo sistema diffuso sia efficace abbastanza da ridurre o eliminare la percezione del secondo stimolo.

Nel 2003, Donald D. Price e i suoi colleghi dell’Università della Florida, si chiesero se questo fenomeno di interferenza si presentasse con le stesse caratteristiche nei due sessi.

Uomini e donne furono indotti a tenere una mano in immersione in un bagno bollente ad una temperatura che produceva in tutti una sensazione dolorosa molto marcata, dopodichè si indusse in loro una percezione algica di minore entità sull’altra mano. Il risultato fu molto netto: nelle donne l’effetto di interferenza era quasi inesistente, negli uomini il secondo stimolo era pressoché soppresso.

Dunque, anche questa differenza qualitativa nei due sessi si spiegherebbe sulla base di un minore controllo inibitorio da parte del sistema endorfinico.

Naturalmente, differenze originate da stereotipi socio-culturali trasmessi con l’educazione, diffusi dalla comunicazione e rafforzati dall’emulazione, possono giocare un ruolo nel fare della maggiore sensibilità al dolore della donna una condizione di apparente maggiore vulnerabilità: vari studi psicologici hanno rilevato nel sesso femminile la tendenza più marcata a sviluppare un’ideazione pessimistica o catastrofica in relazione ad un dolore provato, supponendone un’ingravescenza insopportabile o una causa mortale. D’altra parte è innegabile che, sia nel mondo occidentale che in quello orientale, lo stile maschile imperante è ancora nutrito da modelli comportamentali che esprimo la tendenza ad apparire duri e forti, nascondendo o minimizzando la percezione del dolore o della paura, come se fosse un segno di una debolezza deprecabile.

Per tentare di comprendere l’origine e il senso di questa differenza legata al sesso, è necessario aver presente che la donna ha in generale una maggiore percezione della gamma di sensazioni provenienti dal proprio corpo e una maggiore capacità di rilevare stimoli ambientali, come dimostrato dal riscontro di risposte più marcate alla luce, al rumore e agli odori. Questa disposizione di fondo rende le donne - e le femmine di ogni specie di mammiferi studiati a questo scopo - potenzialmente più abili nel rilevare le minacce in un ambiente naturale e, perciò, più efficaci nel proteggere la prole. Se si considera in questa ottica evoluzionistica anche la maggiore percezione del dolore, si può spiegare la selezione di questo tratto nella donna sulla base di un vantaggio per la sopravvivenza della specie.

 

L’autrice della nota consiglia la lettura delle recensioni di argomento connesso nelle “Note e Notizie” e degli altri scritti correlati nelle altre sezioni del sito.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Novembre 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RASSEGNA BREVE]

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Un’inversione di tendenza, anche in questo caso non fondata su dati di conoscenza ma sulla forza della moda culturale, probabilmente favorita dalla diffusione televisiva, cinematografica e comunicativa in generale, di nuovi stereotipi femminili, che hanno incluso donne-soldato e donne-poliziotto resistenti al dolore tanto quanto i più celebri personaggi di sesso maschile.

[2] La soglia è determinata in base al valore di intensità necessario e sufficiente perché uno stimolo nocicettivo erogato secondo una scala di intensità crescente venga percepito come doloroso.

[3] La tolleranza è stimata come grado o durata della sostenibilità di uno stimolo avvertito come doloroso.

[4] Si vuole intendere che sono identici nei due sessi i centri e le vie anatomiche nocicettive, così come i principi di neurofisiologia del dolore.

[5] Attualmente Zubieta lavora all’Università del Maryland.