PAURA: LA STATMINA HA UN RUOLO RILEVANTE  

 

 

Si spera che la comprensione dei meccanismi molecolari alla base delle manifestazioni reattive di paura negli animali possa aprire nuove vie alla terapia di sintomi e sindromi quali ansia, fobie, attacchi di panico, disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzato e ogni altra espressione clinica a queste correlabile per patogenesi. Per questo, lo studio della biologia molecolare della paura riveste importanza per la psicopatologia e per la psichiatria.

Un paio d’anni or sono è stato proposto un ruolo di regolazione delle risposte emozionali per il gene della statmina, la cui importanza è stata ulteriormente definita da una recente ricerca condotta da Gleb Shumyatsky presso il Dipartimento di Genetica della Rutgers University con un gruppo di collaboratori altamente qualificati, fra i quali spicca il premio Nobel Eric Kandel (Stathmin, a gene enriched in the amygdala, controls both learned and innate fear. Cell 123, 697-709, 2005).

Questo studio ha rilevato un’alta espressione del gene della statmina, noto come inibitore della formazione dei microtubuli, nei neuroni del nucleo laterale dell’amigdala (LA) e in quelli delle strutture talamiche e corticali che inviano a quest’area amigdaloidea informazioni relative agli stimoli incondizionati della paura innata e condizionati della paura appresa.

I topi knock-out per il gene statmina sembravano completamente privi di paura, avventurandosi coraggiosamente in ambienti avvertiti come pericolosi ed evitati dagli esemplari normali, quali campi aperti o piattaforme elevate molto in alto rispetto al piano del suolo. Infatti, i topi privi di questo gene non mostravano reazioni inibitorie di immobilità tipo freezing, né risposte di evitamento o fuga nelle condizioni sperimentali canonicamente impiegate in questo tipo di ricerche.

I ricercatori della Rutgers University si sono chiesti se queste prove di coraggio fossero dovute solo ad un cattivo funzionamento dell’utilizzo di memorie emozionali della specie o se la mancata espressione del gene statmina potesse compromettere l’apprendimento legato alla paura.

Per testare questa ipotesi è stata impiegata la consolidata procedura dell’apprendimento condizionato, che prevede un training durante il quale un suono ad alto volume viene fatto seguire da una scossa elettrica alle zampe. I topi normali formavano memorie associative pavloviane e, già il secondo giorno, la percezione del suono generava in loro la risposta inibitoria di freezing che anticipava la scossa elettrica. I roditori knock-out per il gene statmina, invece, sembravano incapaci di formare una definita associazione mnemonica fra il temuto stimolo doloroso e il segnale acustico.

Per accertarsi che questi risultati non fossero spuri, ossia dovuti ad altre alterazioni prodotte dalla mancanza del gene, i colleghi di Shumyatsky e Kandel hanno testato la percezione del dolore e le prestazioni dipendenti dalla memoria spaziale, riscontrando in entrambi i casi risposte del tutto normali.

Accertato l’effetto della statmina sulla formazione di memorie collegate alla paura, gli autori hanno indirizzato i loro sforzi verso la comprensione del meccanismo molecolare responsabile.

Poiché l’azione sulla dinamica della formazione dei microtubuli da parte della statmina si traduce in una maggiore flessibilità nei topi normali rispetto ai knock-out, gli autori propongono la seguente ipotesi: il formarsi di nuove memorie necessita dello sviluppo di nuove sinapsi, processo che può richiedere numerosi assemblaggi e dis-assemblaggi di microtubuli, pertanto il difetto nella dinamica microtubulare, tipica dei topi mutanti knock-out, potrebbe essere alla base di una inefficiente formazione di ricordi.

Se questa ipotesi è fondata, la base biofisica cellulare della memoria, consistente nel potenziamento di lungo termine dell’attività delle sinapsi, dovrebbe essere in parte compromessa nei neuroni riceventi delle vie cortico-amigdaloidee e talamo-amigdaloidee.

Per accertarsene, gli autori hanno allestito delle sezioni sottili di cervello dei topi mancanti di statmina, procedendo allo studio bioelettrico dei neuroni di queste aree, mediante registrazione dall’intera cellula: il potenziamento di lungo termine risultava deficitario proprio nelle cellule nervose dell’amigdala che si ritiene svolgano un ruolo decisivo nella formazione di queste memorie emozionali.

Questo elegante studio dimostra il rilievo della statmina nella paura innata ed in quella appresa, verosimilmente facilitando il potenziamento di lungo termine degli stimoli afferenti all’amigdala.

In conclusione, visto il risalto che è stato dato alla comunicazione, diffusione e divulgazione dei risultati di questa ricerca, spesso con superficiale estrapolazione alla realtà umana, talvolta con un reale fraintendimento del suo significato scientifico, gli autori della nota sentono il dovere di fare alcune precisazioni a beneficio del lettore non specialista.

La prima osservazione riguarda lo stato attuale delle conoscenze circa il gene statmina: sebbene sia nota la sua conservazione nel corso della filogenesi e, in particolare, nei mammiferi superiori inclusi i primati, ancora non è stata provata la sua espressione nei neuroni dell’amigdala umana. La seconda osservazione riguarda le scarsissime conoscenze che abbiamo in materia di neurobiologia molecolare della paura, a fronte di un più vasto bagaglio di nozioni riguardanti la neurofisiologia dei sistemi che mediano la risposta a questo stato emotivo. Gli studi degli ultimi decenni (si vedano in particolare le ricerche condotte da Joseph Le Doux e dalla sua scuola) depongono per una complessa elaborazione delle emozioni umane che porterebbe ad escludere l’ipotesi che un singolo gene abbia un ruolo determinante. Inoltre, con il progredire delle conoscenze, sarà necessario definire in un quadro coerente i rapporti fra gli eventi molecolari e la neurofisiologia dei sistemi neuronici che mediano le risposte allo stress, alla paura e a varie altre emozioni, perché solo collocando i dati sperimentali in un piano biologico ben definito sarà possibile attribuire loro un significato sicuro.

Da ultimo, non ci sembra superfluo rilevare che l’attribuzione di un’emozione o di un sentimento al prodotto di un singolo gene o all’azione di una singola molecola, in una sorta di riduzionismo dettato dall’ingenuo ottimismo dei ricercatori, abbia fatto il suo tempo. Sono ormai lontani gli anni in cui Ungar isolava il piccolo peptide cui diede nome scotofobina, ritenendo che fosse in grado di trasmettere la paura del buio nei topi per semplice iniezione. La visione attualmente prevalente in psichiatria attribuisce le manifestazioni patologiche legate all’ansia ed alla paura, ad una perdita di equilibrio funzionale fra sistemi tronco-encefalici, limbici, amigdaloidei e neocorticali, secondo schemi che si vanno poco a poco definendo. Questa prospettiva riconosce un peso considerevole all’apprendimento derivante dalle esperienze cui ciascun individuo è esposto nel corso della vita, che al livello molecolare si traduce in un ampio spettro di modificazioni epigenetiche reversibili. In altre parole, i sintomi clinici sono il prodotto di uno squilibrio fra sistemi multi-determinati, plastici e regolati da innervazione reciproca, pertanto sebbene sia vero che una singola molecola in dose tossica possa scompensare questi sistemi, non ci sembra in alcun modo fondato considerare il prodotto del gene statmina “la molecola della paura”.

 

Nicole Cardon & Giuseppe Perrella

BM&L-Febbraio 2006

www.brainmindlife.org