UNA SCOPERTA NELLA PATOGENESI DELLA SCHIZOFRENIA

 

 

La schizofrenia, nelle sue cinque forme cliniche prevalenti, è il prototipo della psicosi, ossia della categoria diagnostica che annovera le espressioni più gravi della patologia psichiatrica. I deliri, le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero, le stereotipie comportamentali, l’anaffettività, l’abulia, l’alogia, caratterizzano in maniera così marcata le persone affette, da consentire spesso una diagnosi immediata.

Il danno alle funzioni intellettive, che si manifesta fin dal suo esordio, aveva indotto gli psichiatri dell’Ottocento ad accostare la malattia al quadro clinico della demenza. Lo psichiatra belga Morel usò per la prima volta nel 1860 la definizione di “demence précoce” (dementia praecox) per definire lo stato di un ragazzo di 14 anni che aveva perso, con la normale gamma degli affetti e delle emozioni, le capacità cognitive così divenendo, da bravo studente quale era, del tutto incapace di svolgere i compiti più elementari. A Morel non sfuggiva che le ridotte prestazioni derivavano da un’alterazione globale della psiche, che sembrava andare incontro a decadimento in alcuni suoi processi basilari, perciò gli parve  verosimile ipotizzare una causa ereditaria.

Al grande nosografista Kraepelin si deve l’introduzione della demenza precoce nelle categorie diagnostiche delle malattie mentali, e la sua configurazione come entità nosografica che includeva altre due forme, l’ebefrenia di Hecker (1871) e la catatonia descritta da Kahlbaum nel 1874.

Eugen Bleuler, notando che il tratto distintivo di questo grave sconvolgimento psichico non era il decadimento cognitivo, ma la generale compromissione dei processi di sintesi alla base dell’unità della mente, nel 1911 propose di adottare il termine schizofrenia (scissione mentale), che negli anni successivi troverà accoglimento da parte di tutta la comunità medica.

Attualmente si tende ad inquadrare i casi clinici secondo i tipi del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, elencati nella tabella seguente, che riporta anche il codice corrispondente alla classificazione adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in parentesi, la denominazione impiegata in precedenza ed ancora conservata da alcune scuole di psichiatria in Europa.

 

 

DSM-IV-TR

ICD-10

CLASSICA

F20.0x  Tipo Paranoide

[295.30]

(Schizofrenia Paranoide)

F20.1x  Tipo Disorganizzato

[295.10]

(Schizofrenia Ebefrenica)

F20.2x  Tipo Catatonico

[295.20]

(Schizofrenia Catatonica)

F20.3x  Tipo Indifferenziato

[295.90]

(Schizofrenia Simplex)

F20.5x  Tipo Residuo

[295.60]

(F. minore o in remissione)

 

 

Probabilmente la quantità degli studi condotti negli ultimi centocinquanta anni sull’eziologia, la patogenesi e la fisiopatologia della schizofrenia, non ha pari in nessun altro campo della psichiatria, e le controversie teoriche ed interpretative hanno segnato intere epoche, durante le quali si è passati da una iniziale visione neurologistica allo sviluppo di interpretazioni psicoanalitiche, fenomenologiche e biologiche, talvolta in netta contrapposizione, talaltra integrate in modelli “sincretici” sopravvissuti fino ai nostri giorni[1].

E’ interessante notare che la ricerca di un substrato biologico delle manifestazioni cliniche è rimasta viva nel tempo[2], anche se già nel 1956 nel suo articolo dal titolo “Fatti e artefatti nella biologia della schizofrenia” Horwitt, criticando aspramente gli studi biochimici, affermava: “…sembra che ogni nuova generazione di biologi debba istruirsi o illudersi senza trarre profitto dall’esperienza dei predecessori”[3]. Ma la tenacia perseverante che ha fatto sopravvivere per generazioni la pur infruttuosa ricerca in questo settore, è stata sostenuta da un elemento di fondamentale importanza: le obiezioni critiche invalidavano le ipotesi, i metodi o il valore dei risultati delle singole ricerche, non l’idea che esistesse una base cellulare e molecolare per le psicosi.

In altre parole, la consapevolezza dell’insufficienza delle conoscenze biologiche del momento, ad ogni significativo progresso, nutriva la speranza di riuscire a trovare la giusta via per individuare gli elementi significativi. Si pensi, ad esempio, agli studi sui gemelli monozigoti che avevano dimostrato l’importanza dell’ereditarietà: considerando la causa ipotetica della schizofrenia come un semplice carattere mendeliano recessivo, era facile dimostrare che l’incidenza nelle famiglie non seguiva questo modello di trasmissione, tuttavia se questo era ritenuto sufficiente dalla psichiatria psicodinamica e fenomenologica per archiviare la questione, non lo era per i biologi che, consapevoli della complessità dei processi di trasmissione ed espressione genica, attendevano fiduciosi i progressi della genetica molecolare e di tutti quei campi di studio che consentivano di mettere in relazione i meccanismi molecolari e cellulari con la fisiologia dei sistemi neuronici.

In epoca recente, l’individuazione di una disfunzione prefrontale nella schizofrenia, sembra aver definitivamente indicato la traccia da seguire in tutti gli studi, da quelli di biologia molecolare a quelli di diagnostica per immagini condotti su persone affette.

Una messe di dati, che si va accumulando progressivamente[4], indica l’importanza dei sistemi inibitori GABA-ergici della neocorteccia[5] nella patogenesi della schizofrenia. Uno studio recente ha scoperto un importante meccanismo epigenetico che controlla l’espressione dei geni implicati nella neurotrasmissione GABA-ergica durante lo sviluppo normale della corteccia e nelle psicosi schizofreniche (Huang H.-S., et al. Prefrontal dysfunction in schizophrenia involves mixed-lineage leucemia 1-regulated histone methylation at GABAergic gene promoters. J. Neurosci. 27, 11254-11262, 2007).

Si ritiene che le alterazioni dell’espressione degli mRNA tipici dei sistemi GABAergici abbiano un ruolo fondamentale nella disfunzione prefrontale della schizofrenia e di varie forme di patologia neuroevolutiva.

In precedenti studi erano stati osservati dei cambiamenti dinamici del livello di proteine marker delle sinapsi GABA-ergiche, sia nel corso dello sviluppo che nella patologia psichiatrica, ma non era chiaro in quale fase si originassero tali variazioni, se nella trascrizione, nella traduzione o nei processi che intervengono dopo la formazione delle catene polipeptidiche.

Akbarian e i suoi collaboratori della University of Massachusetts Medical School, hanno rilevato che, durante la maturazione della corteccia prefrontale umana che comincia nell’embriogenesi e prosegue oltre la pubertà, c’è un progressivo aumento degli mRNA GABA-ergici trascritti, fra i quali quello dell’acido glutammico decarbossilasi 1 (GAD1), enzima-chiave per la sintesi del GABA. Questi incrementi sono evidentemente associati a rimodellamento della cromatina, perché si è notato, nello stesso periodo, un aumento della metilazione istonica H3K4 presso i loci genici GABA-ergici.

I ricercatori hanno trovato evidenze simili nella corteccia cerebrale del topo, perciò hanno impiegato la sperimentazione murina per accertare il meccanismo che porta alla metilazione della cromatina GABA-ergica.

Delle numerose metil-transferasi degli istoni espresse nei mammiferi, soltanto la MLL1 (mixed lineage leukemia1) è altamente espressa nei neuroni GABA-ergici della corteccia prefrontale umana dell’adulto e del topo.

Impiegando topi Mll1+/-, è stato possibile studiare l’effetto di un deficit dell’enzima: l’esame di campioni della corteccia cerebrale di questi roditori ha rivelato una riduzione della metilazione dei promotori di geni GABA-ergici. Ma, poiché il livello dei corrispondenti mRNA GABA-ergici non variava, se ne deduce che MLL potrebbe regolare l’espressione genica GABA-ergica agendo a valle del processo di trascrizione.

Un dato veramente interessante è costituito dai bassi livelli di mRNA di GAD1 e di metilazione di H3K4, riscontrati nella corteccia prefrontale di donne affette da schizofrenia, ma non negli uomini con la stessa diagnosi. Simili bassi livelli sono stati rinvenuti nel manto corticale di schizofrenici, questa volta di entrambi i sessi, biallelici per il polimorfismo di singolo nucleotide di GAD1, una condizione in precedenza individuata fra i fattori di rischio della psicosi.

I ricercatori hanno poi studiato l’effetto della somministrazione cronica della clozapina, un efficace antipsicotico atipico[6], antagonista dei recettori dopaminergici D2-like, ma probabilmente agente con vari altri meccanismi: il farmaco ha prodotto un aumento dei livelli di mRNA di MLL1 e della metilazione H3K4 di GAD1 nella corteccia cerebrale dei topi, fornendo l’evidenza per un nuovo meccanismo della sua azione terapeutica nell’uomo[7].

I risultati di questo lavoro inaugurano un nuovo capitolo nella patologia molecolare della schizofrenia e fanno nascere nuovi interrogativi. Ad esempio, ci si chiede in che modo il polimorfismo di un singolo nucleotide incida sull’espressione di GAD1, e perché la riduzione del messaggero di questo enzima e della metilazione di H3K4 nella condizione di eterozigosi sembra essere appannaggio quasi esclusivo delle donne.

 

Nicole Cardon & Giuseppe Perrella

BM&L-Dicembre 2007

www.brainmindlife.org



[1] Si pensi al modello organo-dinamico di Henry Ey, ed alla “terza via” proposta da psichiatri di casa nostra per risolvere l’annosa ed ideologizzata contrapposizione fra l’origine organica (divenuta nel tempo genetico/biochimica) e la causa ambientale (divenuta nel tempo prodotto dell’inconscio dinamico o effetto di relazioni affettive distorte e frustranti). D’altra parte, senza riuscire a risolvere i tanti enigmi proposti da questa malattia, ma offrendo una ben definita costruzione teorica, se ne sono occupati tutti i maggiori autori di teorie psicopatologiche del Novecento, fra cui Freud, Klein, Jung, Abraham, Meyer, Binswanger, Minkowski, per citare solo alcuni fra i più noti. Ai “paradigmi” proposti da questi autori e divenuti dei veri e propri classici dell’insegnamento accademico, è poi succeduto un modo più aperto e, per molti versi, più scientifico di trattare l’argomento, riportando modelli e dati rilevanti ottenuti sulla base di teorie e metodi di indagine diversi, senza pretendere di proporne una sintesi in assenza delle conoscenze a questa necessarie. In questo ambito possiamo ricordare Freida Fromm-Reichmann, Silvano Arieti e Von Domarus.

[2] E' rimasta viva nonostante le dure critiche e le vere e proprie campagne diffamatorie, che legavano impropriamente quel tipo di studi al determinismo organicista che si riteneva avesse ispirato il trattamento inumano dei pazienti manicomiali e giustificato la complicità nei crimini dei regimi totalitari contro i malati di mente. La cieca associazione della neurobiologia all’organicismo portò, in Italia, frange ideologizzate ed estremistiche del pensiero psichiatrico a prendersela con Eric Kandel, poi insignito del Nobel nel 2000, accostandolo agli psichiatri del Terzo Reich, perché “osava” estendere alla realtà umana i risultati dei suoi studi sulla biologia molecolare della memoria nel mollusco Aplysia californica; costoro ignoravano che Kandel proveniva da una famiglia ebrea perseguitata dai nazisti, che aveva avuto una formazione psicoanalitica nei suoi studi di psichiatria, e che non aveva una visione organicista della malattia mentale.

[3] Horwitt M. K., Facts and Artifacts in the Biology of Schizophrenia. Science 124, 429, 1956.

[4] Scorrendo l’elenco delle nostre “Note e Notizie” si possono trovare recensioni di lavori recenti sull’argomento.

[5] Il GABA (acido gamma-aminobutirrico) è il neuromediatore inibitorio per eccellenza nel cervello umano (nel midollo spinale prevale la glicina) e le sinapsi GABA-ergiche sono in molte aree della corteccia di gran lunga le più numerose.

[6] La clozapina, tranquillante maggiore dibenzodiazepinico, interessante da un punto di vista sperimentale per la sua efficacia contro i sintomi della schizofrenia, presenta molti problemi per l’uso clinico, sia perché accanto all’azione di antagonista dopaminergico ha quella di bloccante recettoriale alfa-adrenergico e colinergico muscarinico centrale, sia, soprattutto, perché ha causato vere e proprie epidemie di agranulocitosi nei pazienti psicotici.

[7] I ricercatori hanno provato a riprodurre gli effetti della clozapina somministrando aloperidolo, un butirrofenonico di largo uso che agisce ugualmente come D2 antagonista, ma non hanno ottenuto effetti; un’ulteriore riprova si è avuta mediante l’ablazione genetica dei recettori D2 e D3: anche in questo caso non si riproducevano gli effetti della clozapina, che si possono dunque attribuire al meccanismo accertato da Huang e colleghi nel laboratorio di Akbarian.