LA PATERNITA’ MODIFICA IL CERVELLO NELLE SCIMMIE

 

 

Per il prezioso ruolo di “cavie” svolto in innumerevoli lavori sperimentali, la scienza ha contratto un notevole debito di riconoscenza con le piccole Scimmie del Nuovo Mondo. Si pensi alla dimostrazione della plasticità dello schema corporeo corticale nell’aoto, o ai decenni di ricerche su amine biogene e neuropeptidi del tratto gastro-enterico di marmoset. Il debito si accresce con i dati che emergono da un lavoro sulle basi neurobiologiche di un comportamento che riguarda anche la specie umana. Infatti, un risultato di notevole importanza, che senz’altro stimolerà nuove ricerche e che probabilmente ha aperto la strada ad un cambiamento nella visione biologica della paternità, è stato ottenuto in uno studio condotto a Princeton da Elizabeth Gould su maschi di marmoset (Kozorovitskiy Y., et al., Fatherhood affects dendritic spines and vasopressin V1a receptors in the primate prefrontal cortex. Nature Neuroscience 9, 1094-1095, 2006).

Accade in tutto il mondo che, spesso, studenti e studiosi di neuroscienze non siano dei mostri di bravura in sistematica zoologica, per cui leggendo un lavoro in cui l’animale da esperimento non sia un ratto, un topo o una delle specie-cavie più comuni (Danio rerio, Caenorhabditis elegans, Drosophila melanogaster, ecc.) non riescano a dargli un’immagine e un’identità tassonomica. Se si aggiunge che in alcuni casi i ricercatori impiegano una denominazione convenzionale -generalmente il nome adottato dalla cultura popolare negli Stati Uniti- si comprende la necessità di disporre di qualche dato in più per riuscire a connotare il nostro “parente in Darwin”, protagonista della ricerca.

Le Scimmie del Nuovo Mondo sono dette Platirrine per il setto nasale piatto e largo, e contrapposte a quelle del Vecchio Mondo o Catarrine, rispetto alle quali hanno caratteri tipici dell’adattamento alla vita arborea: dimensioni di gran lunga inferiori, coda lunga e spesso prensile ed unghie lunghe o ad artiglio. Si tratta sempre di scimmie piccole o molto piccole, che spesso non superano le dimensioni di uno scoiattolo, caratterizzate da capo tondo ed aspetto spesso particolarissimo per la presenza di ciuffi, criniere, baffi e grandi orecchie. Sono così varie e particolari nell’aspetto, da essere state prese a modello per la realizzazione di pupazzi di peluche e disegni animati, poi definiti orsetti, cani, gatti o topi. Alcune specie, appartenenti al gruppo che gli Americani chiamano marmoset, nell’età adulta non superano i 70 grammi e i 12 centimetri di lunghezza; altre come l’aoto, dagli occhi grandi per l’adattamento alla vita notturna, hanno un corpo di circa 35 centimetri ed una coda che può raggiungere il mezzo metro.

Le Platirrine constano di tre famiglie: Cebidae, Callimiconidae e Callithricidae o Hapalidae.

Le Callitricine -come le si chiama in italiano- presentano la caratteristica di adattarsi bene alla cattività, in cui conservano i patterns comportamentali sviluppati nel corso dell’evoluzione nell’ambiente naturale. La famiglia delle Callithricidae o degli Arctopiteci (lett.: “scimmie orso”) per una serie di ragioni storiche, oltre che puramente zoologiche, è detta degli Apalidi (Hapalidae) ed il numero di specie che la compongono non trova d’accordo i tassonomisti: si va dalle 51 riunite in 7 generi, alle 20 ripartite in due soli generi. Un certo grado di confusione è ingenerato dalla denominazione delle specie che, seguendo una pratica corrente con poche giustificazioni sistematiche, sono suddivise in due gruppi: 1) uistitì o marmoset e 2) tamarini.

Ecco, dunque, dove si collocano i protagonisti dello studio condotto a Princeton.

Una particolarità dell’organizzazione sociale dei marmoset consiste nella partecipazione dei giovani di entrambi i sessi all’allevamento dei piccoli, in una sorta di apprendistato della cura genitoriale della prole, in cui queste scimmiette sembrano eccellere. I maschi sono ritenuti ottimi padri, e la loro cooperazione nella cura dei figli si è rivelata decisiva, nel corso dell’evoluzione, nella struggle for life nelle aree non-amazzoniche della foresta brasiliana. Si pensi che i padri marmoset portano in collo il piccolo nel suo primo mese di vita per il 70% del tempo.

Kozorovitskiy, Huges, Lee  e Gould, hanno indagato la base neurobiologica di questi comportamenti, stabilendo che la paternità non equivale ad una semplice cooperazione all’allevamento di una prole non propria, ma comporta cambiamenti nella microstruttura del cervello.

I ricercatori hanno confrontato campioni di tessuto cerebrale di maschi che vivevano in coppia senza prole, con campioni prelevati da maschi divenuti padri per la prima volta e da “padri esperti”.

Lo studio strutturale ha evidenziato che i neuroni piramidali della corteccia prefrontale dei padri avevano una densità di spine dendritiche molto più elevata rispetto ai semplici “fidanzati”. Al livello molecolare, dopo aver avuto figli dalla partner, nel cervello del maschio callitricino aumentava la quantità di recettori per la vasopressina V1a.

I ricercatori hanno contrassegnato i dendriti del tessuto cerebrale esaminato, rilevando che le spine dendritiche sovrabbondanti nel cervello del genitore presentavano una maggiore proporzione di recettori V1a. Questo elemento conduce all’ipotesi che alla base dei cambiamenti strutturali, ancora misteriosi nella loro origine, possa esservi un processo mediato dal neuropeptide vasopressina.

Le evidenze emerse dal lavoro di Elizabeth Gould e dei suoi tre collaboratori, necessitano certamente di verifica e di comparazione in altre specie animali e, particolarmente, di riscontri in altre specie di primati a noi più vicini, quali le Grandi Scimmie del Vecchio Mondo; tuttavia non ci sembra prematuro accostare questi dati alla straordinaria scoperta di cellule del feto che entrano nel cervello della madre (Note e Notizie 24-11-05 Cellule del feto entrano nel cervello della madre), nel più generale quadro dello studio delle basi neurobiologiche dei legami familiari.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Ottobre 2006

www.brainmindlife.org