LA PAROLA E IL CERVELLO: UNA NUOVA ERA

 

 

Il tradizionale schema anatomo-funzionale connessionista del linguaggio verbale, da tempo ritenuto inadeguato ed insufficiente dai ricercatori, non è stato ancora abbandonato nella pratica neurologica e neuropsicologica per la sua utilità nella formulazione delle diagnosi e nello sviluppo di ragionamenti fisiopatologici. Tuttavia, i più recenti progressi delle conoscenze consentono di accantonarlo definitivamente: le resistenze al cambiamento che si riscontrano in questo campo sono state oggetto di un dibattito fra i soci di BM&L, cui hanno partecipato neurologi, neurobiologi, linguisti, neurofisiologi e logoterapisti.

Il modello delle funzioni linguistiche consistente in un’area motrice (area 44 o di Broca) e un’area recettrice (area 22 o di Wernicke) collegate da un fascio di conduzione, era largamente basato su una visione ottocentesca del cervello, concepito come un aggregato di aree specializzate connesse da fasci di sostanza bianca. A quell’epoca, seguendo la concezione patogenetica espressa dall’aforisma la dis-connessione porta dis-funzione, erano state identificate e nosografizzate numerose sindromi neurologiche. Questo quadro teorico, che oggi ci appare semplicistico, era largamente basato sugli studi di Broca, Wernicke, Lichtheim e Déjerine, ed aveva il pregio di mettere in rapporto preciso e costante gruppi di sintomi osservati nei pazienti e lesioni focali rilevate all’autopsia.

Nel corso degli anni, i dati in contrasto con questa visione sono stati trascurati, in parte perché presentati a sostegno di teorie difficilmente generalizzabili alla totalità della casistica clinica, in parte perché basate su tesi rivelatesi perdenti nello scontro dialettico e quasi ideologico fra i sostenitori della tradizione e gli “eretici”. L’esempio più celebre è costituito delle osservazioni di Pierre Marie sulle lesioni sottocorticali in grado di determinare afasia.

D’altra parte fin dagli anni Settanta, con la comprensione dei processi gerarchici di controllo basati sull’encefalizzazione, si era affermata la consapevolezza che l’impiego della parola per la comunicazione fosse possibile grazie ad una complessa architettura funzionale in cui i neuroni situati ai livelli più alti, per la loro facoltà di controllo vincolante delle componenti più caudali, assumevano un’importanza straordinaria, al punto da poter apparire come i soli detentori delle proprietà specifiche. In altre parole, si era già compreso che le aree corticali non fossero gli unici “processori del linguaggio”, così come le aree motorie della corteccia non sono le “macchine neuroniche” che consentono la locomozione, ma solo la parte più evoluta e prioritaria nella gestione e nel controllo del complesso funzionale. Il grosso ostacolo da superare per tradurre questa ratio neurofisiologica in un “modello cerebrale del linguaggio verbale” consisteva -e consiste tuttora- nell’identificazione di nuovi centri e vie  che costituiscono il sistema e nella comprensione degli specifici ruoli fisiologici. In termini semplici e brutali: è necessaria l’effettiva scoperta del sistema neuronico della parola.

Infatti, la cultura popolare sembra assumere e professare che si conosca in maniera definita la base cerebrale della capacità di comunicazione verbale umana, forse anche in conseguenza di una divulgazione scientifica basata più su immagini ed impressioni di facile effetto che sulla trasmissione di ipotesi, problemi e ragionamenti. Al contrario, di questo sistema di neuroni si ha solo una nebulosa conoscenza presuntiva circa la forma di organizzazione, ed alcuni frammenti di conoscenza anatomica indirettamente ricavati dal confronto fra il patologico e il sano.

E’ interessante e curioso, al contempo, notare che fino ad oggi i trattati di neuropsicologia contemplano una classificazione delle afasie (come nel caso della Classificazione di Goodglass e Kaplan o Classificazione di Boston) basata sul modello classico Broca-Wernicke, quasi fosse un riferimento assoluto, e poi vi aggiungono varie sindromi, come le afasie sottocorticali, che si spiegano su una base patogenetica del tutto diversa.

Si deve anche osservare che il periodo di “eclissi” di questo modello nei primi decenni del Novecento coincise con una regressione culturale ad una forma “hard” di localizzazionismo che ricordava l’organologia.

Perciò, la neurofisiologia che spiegava i processi cerebrali alla base del linguaggio verbale in termini di collegamenti fra parti recettive ed esecutive, rimaneva l’espressione più avanzata della cultura scientifica in quel campo. Questo spiega il successo che ebbe nel 1965 Norman Geschwind con il saggio “Disconnexion syndromes in animals and man”, nel quale interpretava i disturbi afasici e le maggiori sindromi da lesione cerebrale con estremo rigore scientifico ed esemplare coerenza logica in un quadro connessionista, dando nuova linfa al vecchio modello.  

Il dibattito di Brain Mind & Life sulla fine del neo-connessionismo nei modelli di neurofisiologia verbale, ha avuto luogo nel quarantesimo anniversario della pubblicazione del lavoro di Norman Geschwind (1965-2005), prendendo spunto da una review che fa proprio “lo stato dell’arte” a 40 anni di distanza dalla pubblicazione di quel seminal work (Catani M. & Ffytche D.H., The rises and falls of disconnection syndromes. Brain: la pubblicazione, non ancora avvenuta al momento della compilazione della nota, è prevista dall’editore per questo mese secondo le indicazioni di seguito riportate: 128, (10): 2224-2239, 2005).

Nel concludere questa breve discussione, mi piace fare un’osservazione da vecchio studioso che ha avuto il privilegio di seguire nell’arco di oltre un cinquantennio l’evoluzione delle conoscenze in questo campo. Le recenti scoperte di nuove vie, ovvero di altri gruppi di cellule nervose che prendono parte alla rete che ci consente di comunicare, sono entusiasmanti per tutti coloro che si occupano delle basi anatomo-funzionali della lingua, non perché risolvano artificiosi  dibattiti che trovano linfa nella psicologia accademica più salottiera, ma perché possono contribuire a spiegarci come il bricolage dell’evoluzione abbia impiegato parti già presenti nel cervello dei primati per un compito nuovo, sulla cui sorprendente efficacia si è fondato lo straordinario edificio della cultura umana.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Ottobre 2005

www.brainmindlife.org