NUOVE SULLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

 

 

Gli stadi di acquisizione ed uso della lingua verbale da parte dei bambini sono così bene definiti da costituire un riferimento imprescindibile per la diagnosi e la terapia fono-logopedica dei disturbi del linguaggio in età evolutiva. Ad una cronologia dell’evoluzione così bene stabilita, non fa però riscontro una conoscenza altrettanto certa dell’origine degli schemi di espressione (developmental patterns) specifici e caratteristici di ogni fase della produzione verbale infantile. Frasi monotermine, bitermine o prive di funtori, uso di parole-jolly, troncamento delle desinenze d’inflessione e tante altre peculiarità, sono praticamente assenti nell’espressione di un adulto che impara un nuovo idioma, mentre costituiscono una costante transculturale negli stadi dell’apprendimento evolutivo; pertanto è comprensibile che da tempo si sia cercata una spiegazione di questo fenomeno negli stadi della maturazione post-natale del cervello infantile e nel modo in cui la funzione mentale del bambino gestisce spontaneamente l’acquisizione di una lingua. Recentemente è tornato su questo argomento Joshua Hartshorne, giovane ricercatore proveniente dalla scuola della Harvard University che, negli ultimi due anni, ha ottenuto i dati più rilevanti nel tentativo di accertare se i fenomeni osservati nell’apprendimento verbale infantile siano più la conseguenza di tappe dello sviluppo cognitivo o più l’espressione di gradi  di competenza linguistica (Joshua Hartshorne, Why Don’t Babies Talk Like Adults? Scientific American MIND 20 (5), 58-61, 2009).

Nei primi decenni del Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, la ricerca in questo campo è stata influenzata dalle tesi del comportamentismo, che tendevano ad interpretare tutto in base all’apprendimento per imitazione della comunicazione verbale degli adulti. Tale “copycat theory”, però, non spiega perché i bambini non facciano una cattiva imitazione del parlare fluente ed articolato degli adulti, ma inizialmente impieghino singole parole per esprimere un bisogno (es.: acqua)[1] e, dopo un certo tempo, due parole (es.: mamma-acqua), o perché modifichino le parole in un modo mai udito[2] e, infine, perché omettano funtori[3] e verbi anche facili da pronunciare.

Tutte le interpretazioni degli ultimi cinquanta anni possono essere schematicamente ricondotte a due elaborazioni teoriche centrate rispettivamente sulla maturazione progressiva del sistema nervoso e sulla tipologia del compito da apprendere: 1) ipotesi dello sviluppo mentale; 2) ipotesi degli stadi della lingua.

1) L’ipotesi dello sviluppo mentale sostiene che il livello di abilità cognitivo-linguistica è condizionato dall’età di sviluppo del cervello, che segue una cronologia inscritta nel quadro più generale del calendario di maturazione del sistema nervoso in seno all’organismo in crescita, con tappe regolari come quelle dello sviluppo motorio (es.: capacità di deambulazione autonoma intorno ai 12 mesi)[4].

2) L’ipotesi degli stadi della lingua sostiene, invece, che il compito di apprendere un codice verbale basato su una grammatica complessa e non intuitiva, richieda stadi di acquisizione progressiva, come in un curriculum che proceda per gradi necessari a costruire un bagaglio mnemonico di operazioni automatizzate dalle quali dipenderà l’uso spontaneo delle parole secondo la grammatica[5].

In altri termini, per spiegare il modo caratteristico del parlare babish e childish, la prima ipotesi pone l’accento sui vincoli posti dall’immaturità del cervello, la seconda sulla natura complessa del compito da apprendere.

Nel 1997, Elizabeth Bates e Judith Goodman[6], in una rassegna dei principali studi sullo sviluppo delle abilità verbali, hanno rilevato che non vi era più dubbio sul fatto che fosse necessario aver acquisito un dato numero di parole singole per il passaggio allo stadio di frase bitermine. Questa conferma di un’osservazione logopedica di vecchia data, faceva supporre la necessità di avere una massa critica di vocaboli perché si superasse la soglia linguistica del processo di combinazione verbale, ma non costituiva una prova di validità dell’ipotesi degli stadi a discapito di quella dello sviluppo mentale.

Il problema principale nella verifica della validità delle due ipotesi alternative, consisteva nel fatto che l’indipendenza dei patterns di apprendimento linguistico dallo sviluppo mentale, propugnata dalla seconda ipotesi, non trovava possibilità di verifica, perché l’apprendimento della lingua madre avviene sempre fin dalla nascita in costante contemporaneità con lo sviluppo del cervello[7]. Naturalmente l’apprendimento di una seconda lingua avviene mediante tecniche pedagogico-didattiche di insegnamento che seguono una via del tutto diversa dall’imitazione spontanea e, dunque, anche se si verifica nell’infanzia, assomiglia all’apprendimento dell’adulto, che prescinde dallo stadio di sviluppo cognitivo precoce.

Nel 2007 Snedecker, Geren e Shafto di Harvard hanno trovato il modo di aggirare l’ostacolo, partendo da una semplice osservazione: le adozioni internazionali fanno entrare ogni anno negli Stati Uniti più di 20.000 bambini in tenerissima età, non più esposti alla lingua madre ed indotti in una fase di sviluppo più avanzata ad imparare l’inglese dai genitori americani nello stesso modo in cui si apprende la lingua dai genitori naturali.

La selezione del campione non fu delle più semplici, ma si riuscì a definire un gruppo di 27 bambini provenienti dalla Cina ed adottati in età compresa fra i 2 e i 5 anni.

Come i bambini nati in America, gli adottati cominciarono ad esprimersi con l’olofrase monotermine e, nel progredire, presentavano le stesse particolarità dello sviluppo fisiologico, con omissioni di funtori e difetti nei verbi e nella parte terminale delle parole. I più giovani attraversarono tutti gli stadi caratteristici dello sviluppo del linguaggio -definiti dai classici studi americani ed europei e poi verificati come universali- dimostrando la validità dell’ipotesi degli  stadi della lingua[8].

Joshua Hartshorne, proseguendo questi studi, sostiene che i bambini non parlano in quel modo perché hanno un cervello infantile, ma per le necessità imposte da un apprendimento che richiede una progressiva costruzione di memorie. In questo senso, è il compimento del primo stadio che darà luogo al secondo stadio, non la cronologica maggiore mielinizzazione e maturazione sinaptica della neocorteccia.

Eppure, l’influenza del grado di maturazione dell’encefalo sull’articolazione della parola e sulla cognizione verbale è ampiamente dimostrata, così come è noto che vari tipi di patologia di organi e sistemi, lontani e indipendenti da quelli fonoarticolatori, possono costituire causa di ritardo e distorsione dello sviluppo delle abilità verbali in età evolutiva. Per questo motivo, accertata la maggiore importanza dell’auto-organizzazione dell’apprendimento della lingua in stadi da parte della mente del bambino, si dovrà cercare di definire il ruolo della maturazione del cervello e del cervelletto nella contemporanea integrazione dei processi sottostanti l’elaborazione della comprensione e della produzione verbale con la percezione, l’ideazione, l’affettività e tutti gli altri aspetti della vita psichica che realmente danno senso alle parole e al loro uso.

 

L’autrice della nota ringrazia il presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, professor Giuseppe Perrella, col quale ha discusso l’argomento trattato, e la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza. Per introdursi ai rapporti fra genetica e linguaggio verbale si consiglia la lettura di “FOXP2 E LA PAROLA” nella sezione “IN CORSO” del sito.

 

Diane Richmond

BM&L-Novembre 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RASSEGNA BREVE]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Qui si fa riferimento all’impiego del singolo vocabolo in qualità di frase monotermine che esprime un’intenzione comunicativa (detta “olofrase”), come tipicamente avviene nella richiesta implicita nell’espressione di un bisogno. Questa fase ha luogo anche se, in genere, i genitori non sono avari di parole e interpretano il bisogno dicendo frasi del tipo: “Tesoro, vuoi bere?”; “Ha sete, il mio piccolo… Aspetta, ora mamma ti dà il latte buono…, o vuoi un po’ d’acqua?”;  “Eh, sì, il mio pulcino voleva proprio un po’ d’acquetta fresca!”, e così via. Per un po’ di tempo il bambino sembra sordo a questo articolato modo di esprimersi che verrà imitato solo nello stadio successivo. L’olofrase compare intorno all’età di un anno e mezzo (talvolta anche più precocemente) e viene usata in quel periodo che si definisce stadio interlinguistico primario e che va in genere dai 18 ai 36 mesi. A questa fase segue fino ai 7-8 anni un livello di conoscenza e abilità che caratterizza il cosiddetto stadio interlinguistico secondario, al quale succede lo stadio linguistico, che si vuole sia caratterizzato dalla padronanza articolatoria, fonosintattica e grammaticale della lingua madre, e da una fedeltà di espressione del proprio pensiero non lontana da quella dell’adulto.

[2] Ad esempio, accorciandole o privandole della desinenza corrispondente all’inflessione declinata o coniugata della parola usata dagli adulti.

[3] Per “funtori” si intende l’insieme di articoli, preposizioni, congiunzioni, particelle pronominali, ecc., che rappresentano delle parole-funzione, ossia forme con utilità grammaticale ma prive di un valore semantico proprio, perciò contrapposte, nella psicolinguistica dell’infanzia, ai sostantivi che denominano aspetti concreti della realtà facilmente apprezzati dai bambini.

[4] Dopo l’automatismo della lallazione (la spontanea produzione vocale di sillabe, in genere rilevabile intorno ai 4-5 mesi), le tappe di acquisizione della lingua verbale (es.: prime parole pronunciate con consapevolezza comunicativa intorno ai 12-18 mesi) dipendono dalla funzione uditiva e dalla possibilità di ascoltare parole e frasi pronunciate dagli adulti; quando è integra la funzione uditiva, in assenza di altri deficit e in un ambiente di relazione normale, la cronologia segue uno schema fisso e largamente indipendente dall’etnia e dalla lingua.

[5] Non è irrilevante che molte regole grammaticali, in tutte le lingue, non seguono una logica intuitiva ma sono arbitrarie, in quanto rappresentano una razionalizzazione di usi prevalenti dovuti a molteplici ragioni storico-culturali. Questa arbitrarietà logica contribuisce a rendere prevalente la necessità di memorizzare forme espressive rispetto alla possibilità di ricavarle per deduzione.

[6] Sono due ricercatrici note per studi condotti secondo i metodi della scienza cognitiva; la Bates lavora alla University of California in San Diego, la Goodman presso la University of Missouri-Columbia.

[7] Le eccezioni appartengono, in genere, alla patologia.

[8] Snedecker J., Geren J., Shafto C. L., Psychological Science 18 (1), 79-87, 2007.