L’INTELLIGENZA DELL’ORANGO HA ORIGINE CULTURALE

 

 

Se la definizione dell’intelligenza umana rimane un problema di difficile soluzione, non è certo un compito tanto più semplice definire quella animale. Tuttavia esiste un generale accordo fra i ricercatori circa i criteri operativi da adottare per studiare un comportamento intelligente. Da quegli esperimenti pionieristici in cui vari mammiferi si mostravano incapaci di raggiungere una ricompensa -quale una banana- perché sospesa molto in alto, mentre le scimmie sovrapponendo delle scatole vi riuscivano arrampicandosi, si è sempre data molta importanza al problem-solving, ossia alla capacità di risolvere problemi.

Senz’altro la soluzione di problemi logico-pratici è un buon indice di funzioni cognitive e si presta a misurazioni ed analisi, ma spesso accade che i criteri concepiti dai ricercatori risentano delle gerarchie e delle priorità che la cultura ha sviluppato per l’intelligenza umana e, nelle semplificazioni delle prove, perdano significatività, fornendo risultati quanto meno dubbi. Ad esempio, in molti tipi di problem-solving sperimentale accade che varie specie di uccelli e di animali poco evoluti risultino più dotati di elefanti e cetacei acquatici quali i delfini, le cui potenzialità valutate su base neurobiologica sono fuori discussione.

Talvolta si corre il rischio di considerare prestazioni intelligenti abilità automatiche come il riconoscimento di luoghi e piccole numerosità, dovuto a schemi fissi con un alto grado di determinazione genetica, spesso specie-specifici ed eseguiti in forma standard da piccoli gruppi di neuroni. Un cane che si ferma, cercando nella memoria di esperienze precedenti i dati per scegliere la strada da seguire, è meno efficiente di un’ape o di un piccione viaggiatore, il cui sistema nervoso semplice non prevede scelte ad un livello più elevato di sintesi o libertà. Allo stesso modo un uccello, nel riconoscimento di piccole numerosità, può essere più efficiente di un bambino in età pre-scolare. Scambiare l’efficienza in simili compiti per un tratto trans-specifico dell’intelligenza sarebbe un grave errore.

Per questi motivi, e per molte altre considerazioni di ordine etologico e neurofisiologico, lo studio dell’intelligenza animale in funzione della comprensione delle capacità cognitive umane, si è sempre più rivolto all’osservazione di primati sub-umani (grandi scimmie) in ambienti naturali.

Carel Van Schaik, direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Zurigo, studiando gli oranghi di una palude di Sumatra, in Indonesia, ha scoperto un uso esteso, sistematico ed efficace di strumenti rudimentali da parte di questi primati nella loro vita quotidiana (Carel Van Schaik, Why are some animals so smart? The unusual behavior of orangutans in a Sumatran swamp suggests a surprising answer. Sci. Am. 294 (4), 48-55, April 2006).

Nessuno aveva mai riportato in precedenza simili osservazioni, probabilmente anche a motivo di preconcetti che hanno limitato lo studio di questi primati. L’Orango, l’unica grande scimmia asiatica che vive nelle isole di Borneo e Sumatra, ha fama di solitario dal comportamento poco interessante; al contrario, l’osservazione condotta da Schaik e i suoi collaboratori, ha rivelato che la scimmia rossa, come viene talvolta chiamata per il colore rossiccio del pelo, ha indole socievole e una ricca vita di relazione. Probabilmente la sua fama deriva da un atteggiamento più schivo e riservato nei confronti dell’uomo, e da un’attività psiconeuromotoria spontanea molto limitata, soprattutto se confrontata con quella degli scimpanzé e di altre scimmie africane (Carel Van Schaik, Among Orangutans: Red Apes and the Rise of Human Culture. Harvard University Press 2004).

L’abilità intelligente mostrata dagli oranghi viene spiegata da Van Schaik con l’esistenza di una cultura.

Ancor più del concetto di intelligenza, quello di cultura si è sviluppato per descrivere un’esperienza esclusivamente umana, e non è un caso che nell’accezione più diffusa il valore semantico di questo termine derivi dall’antropologia culturale. La cultura è l’ambiente stesso in cui l’uomo è concepito e concepisce, pertanto non meraviglia che i concetti di trasmissione culturale ed eredità culturale, applicati alla realtà animale, abbiano creato e creino non pochi problemi.

Anche se un’eredità culturale parla attraverso i dipinti, le statue, gli edifici, i monumenti, la struttura delle città e i prodotti della tecnologia, la trasmissione scritta e orale basata sulla lingua e sui sistemi simbolici delle scienze esatte, rimane l’asse portante nella conservazione, propagazione e sviluppo della cultura umana. E’ difficile perfino immaginarla una civiltà priva di quei codici linguistici e numerici che oggi sono alla base del sistema dell’istruzione, della comunicazione, delle attività produttive e del tempo libero. L’invenzione della lingua ha permesso alla comunicazione di diventare forma del pensiero, ed al pensiero del singolo di essere efficacemente trasmesso ad altri (si veda: Giuseppe Perrella, Radici antropologiche della psicologia dei soggetti storici. Seminario sull’Arte del Vivere di “Brain Mind & Life Italia”, marzo-aprile 2004). Nella comune esperienza umana, non c’è una cultura senza parola, fondata solo sul gesto; non è questo un dato irrilevante per spigare la difficoltà che abbiamo nel concepire una cultura animale. E’ noto che alla Central Washington University, gli eredi di Washoe, la scimmia alla quale era stato insegnato un linguaggio gestuale (semìa sostitutiva), hanno ricevuto dai genitori una trasmissione parziale del codice in una rudimentale riproduzione di quanto avviene nella specie umana. Ma, se si eccettuano simili casi di influenza artificiale, una cultura simiana è priva della trasmissione di codici strutturati mediante i quali l’intelligenza possa esercitarsi in forma astratta nell’elaborare e creare. E’ importante, perciò, cercare di riconoscere con precisione cosa e come venga trasmesso e diffuso in ambito animale, per evitare antropomorfismi fuorvianti.

I primatologi hanno così definito la cultura delle grandi scimmie: la capacità di apprendere mediante l’osservazione abilità sviluppate da altri.

L’apprendimento basato sull’osservazione consentirebbe una precoce acquisizione di procedure, ciascuna delle quali costituirebbe un nucleo di intelligenza potenziale da impiegare in circostanze simili a quelle in cui sono state viste e memorizzate. L’uso di quanto si è appreso e delle sue varianti applicative in circostanze sociali consente ulteriori imitazioni e lo sviluppo di un circolo virtuoso che consolida l’apprendimento.

Le ricerche di Schaik dimostrano a sufficienza la base culturale dell’intelligenza mostrata dalle scimmie rosse di Sumatra, aprendo nuove possibilità allo studio dei processi di diffusione orizzontale, trasferizzazione e generalizzazione, a fondamento di quei salti di auto-elevazione (bootstrap) che consentono di spiegare differenze tanto marcate nelle prestazioni cognitive fra individui, gruppi e specie con patrimoni neuronici simili. L’idea che il modo di operare dei fattori culturali agisca determinando il passaggio da una condizione di stasi o di progresso minimo lineare ad una di sviluppo esponenziale, costituisce un punto nodale nella teoria della mente di Giuseppe Perrella e nell’interpretazione del modo di agire della lingua verbale nella teoria della coscienza di Gerald Edelman.

Sarebbe interessante studiare il ruolo svolto negli oranghi delle paludi di Sumatra dal sistema dei neuroni specchio, perché potrebbe costituire una base neurobiologica del rapporto fra apprendimento per osservazione e sviluppo dell’intelligenza.  

 

Gli autori della nota ringraziano Giuseppe Perrella e Nicole Cardon con i quali hanno discusso l’argomento trattato.

 

Roberto Colonna & Isabella Floriani  

BM&L-Maggio 2006

www.brainmindlife.org